06/12/2011
Scooter nello smog di Jiaxing, in Cina (foto: Reuters).
Il principe Alberto di Monaco, il primo ministro di Samoa (isole del Pacifico che rischiano di finire sott'acqua con i cambiamenti climatici), una mezza dozzina di Capi di Stato africano e Ban Ki-Moon, segretario generale delle Nazioni Unite, hanno inaugurato oggi la sessione politica della Conferenza sul clima di Durban, in Sudafrica. Non è la parata di Capi di Stato che abbiamo visto due anni fa a Copenhagen, ma questo non deve spegnere l'ottimismo che si arrivi a un risultato.
Fino a qualche giorno fa sembrava che nessun accordo fosse possibile.
La Cina ha invece aperto a obblighi vincolanti sul clima ponendo le sue condizioni per un accordo.
Il ministro cinese Xie Zhenhua, incontrando le Ong, ha detto che dopo il 2020 si potrà pensare anche a negoziare un documento giuridicamente vincolante. Pochi giorni prima, il 2 dicembre, il delegato cinese Su Wei non ha “escluso la possibilità di un accordo legalmente vincolante” dicendo che “per noi è possibile ma dipende dai negoziati”.
Tra le condizioni poste dalla Cina, che con questa mossa potrebbero riaprire la strada dei negoziati, proprio un Kyoto 2 e un aumento delle promesse finanziarie per aiutare i Paesi in via di sviluppo.
Una situazione che non lascerebbe alibi agli Usa, i quali ora non potrebbero sottrarsi a un eventuale accordo.
L'India, invece, sta ancora a guardare e si è guadagnata oggi a Durban il “fossile del giorno”, il premio assegnato dagli ambientalisti al Paese che si è distinto in negativo nei negoziati.
Un Kyoto 2 trova d'accordo anche il Brasile, altro Paese emergente, grande emettitore di gas serra. Ma il 2020 non sarà troppo tardi per il pianeta?
“Il pianeta ci guarda e chiede impegni precisi” ha ricordato oggi Zuma, il presidente del Sud Africa, all'assemblea plenaria.
I mutamenti in atto sono sempre più veloci. Per la prima volta nella storia i consumatori cinesi hanno prodotto più emissioni di anidride carbonica degli Stati Uniti, e i paesi in via di sviluppo generano più Co2 di quelli sviluppati.
Se nel 2008 un terzo delle emissioni della Cina era generato dalla manifattura di beni destinati all'esportazione - e dunque i responsabili di queste emissioni eravamo noi - ora la situazione sta cambiando rapidamente.
Ma i cinesi non ci stanno a stare sul banco degli indiziati numero uno.
Va detto, infatti, come nota John Moore, ricercatore dell'Università Normale di Pechino, che “ci sono molti più Paesi in via di sviluppo di quelli ricchi e le emissioni della Cina sono in gran parte dovute alla sua enorme popolazione. Il che significa che il consumo per persona in Cina é ancora molto più basso di quello prodotto dai cittadini statunitensi.
Il ministro cinese sottolinea come la Cina rimanga un paese in via di sviluppo, se prendiamo in considerazione il Pil pro capite pari a 4.300 dollari e il fatto che ci sono ancora 128 milioni di persone che vivono con meno di un dollaro al giorno.
Nonostante questo, la Cina ha mostrato molto più impegno nel ridurre le emissioni di quanto abbiano fatto i paesi ricchi. Investe 50 miliardi di dollari all'anno in fonti alternative e guida la classifica mondiale, mentre gli Stati Uniti investono 17 miliardi l'anno.
Che a Durban un accordo sia possibile ne è convinto un cittadino doc, Kumi Naidoo, protagonista della lotta anti-apartheid e ora alla guida di Greenpeace International.
“I leader del mondo mi sembrano dei sonnambuli. Mormorano qualcosa sul cambiamento climatico e poi non fanno nulla.
Per alcuni popoli, come i Turkana, nel nord del Kenya, siamo già al punto in cui ne va della loro sopravvivenza. Mi pare ingiusto che i poveri paghino il cambiamento climatico con le loro vite” spiega in un'intervista al quotidiano inglese “The Guardian”.
“Quello che vedo ora è molto simile al momento del passaggio dall'apartheid alla democrazia.
C'è stato un momento nel 1988, in cui si vedeva che il sistema stava ormai crollando. Lo stesso accade ora con l'ambiente e il clima. Datemi dell'ingenuo e dell'ottimista, ma credo che ci siamo quasi”.
Gabriele Salari