13/12/2012
Pietro Vento, direttore dell’Istituto Demòpolis.
I giovani italiani non hanno perso solo
il treno. Hanno perso anche l’ascensore.
Quell’ascensore sociale che, in passato,
garantiva alla generazione in arrivo
almeno un minimo miglioramento delle
condizioni di vita (più anni di studio,
lavoro meno incerto, salari più corposi,
mestieri più “nobili” ) rispetto alla
generazione che si apprestava ad
abbandonare il centro della scena.
«Questa è di sicuro la sensazione che
i giovani d’oggi hanno nell’animo»,
conferma Pietro Vento, direttore
dell’Istituto Demòpolis e responsabile
della ricerca Il futuro delle nuove
generazioni nell’era della precarietà ,
promossa dallo Ial (Innovazione,
apprendimento, futuro) nazionale in
sinergia con la Cisl, che figura in queste
pagine.
La ricerca in gennaio sarà
presentata ufficialmente a Milano, alla
presenza del cardinale Scola e del
ministro Riccardi, dal segretario della
Cisl Bonanni e da Graziano Terè,
amministratore unico di Ial.
Ma si diceva dei giovani e del loro
sguardo sul futuro.
Gli anni della
precarietà hanno tramutato la
preoccupazione per il lavoro in una
vera ossessione. «Tra le cose
importanti della vita», commenta
Vento, «per la prima volta il lavoro
ha preso il posto della famiglia, che
era per lunga tradizione il primo valore
di riferimento.
Al punto che il lavoro
non è più il necessario strumento di
realizzazione personale e
affrancamento economico: per i
giovani tra i 18 e i 34 anni è una
dimensione esistenziale, la prima
condizione per immaginare il futuro».
E la famiglia? «Il 57% dei 3.600 giovani
intervistati vive ancora con la famiglia
d’origine. Condizione che da un lato
rassicura, perché le famiglie sono state
e sono gli ammortizzatori sociali della
crisi; ma dall’altro inquieta, perché la
non uscita da casa è spesso il primo
segno caratteristico della precarietà».
Fulvio Scaglione