Moby Prince, le verità nascoste

Una nuova perizia svela episodi inediti del più grave disastro della marina mercantile italiana. Il traghetto non stava prendendo il largo, ma stava rientrando in porto. Perché?

L'agonia dei passeggeri nel salone

14/04/2013
La petroliera Agip Abruzzo, dopo la collisione con la Moby Prince.
La petroliera Agip Abruzzo, dopo la collisione con la Moby Prince.

L’urto è violentissimo. La prua del traghetto penetra nella fiancata dell’Agip Abruzzo, fora la cisterna contenente iranian light, una cascata di combustibile si riversa sul Moby Prince. Con lo sfregamento delle lamiere e le scintille che si producono è un attimo: il traghetto di trasforma immediatamente in un inferno di fuoco.
Sono le 22,27 del 10 aprile 1991. Il destino del Moby Prince e dei suoi 141 passeggeri è segnato. Se ne salverà uno solo, il mozzo Alessio Bertrand.

Solo ventiquattro minuti prima il traghetto aveva staccato gli ormeggi dal porto di Livorno. Era una tiepida notte di primavera, mare calmo, serata limpida (guarda il bollettino meteo di quel giorno diramato dalle autorità portuali di Livorno). L’equipaggio aveva effettuato le operazioni di routine per preparare l’imbarcazione al viaggio per Olbia, come ogni giorno. L'equipaggio è al lavoro e i passeggeri si sistemano a bordo, chi nelle cabine, chi a bere qualcosa al bar della nave.

Poi accade qualcosa. Un qualcosa che nessuna verità giudiziaria è riuscita ancora a stabilire, dopo 22 anni. Perché il Moby Prince è andato in collisione con la gigantesca petroliera della Snam, alta come un palazzo di 10 piani, illuminata come uno stadio e lunga 280 metri?
Quella dei passeggeri del Moby è stata una terribile agonia. Al violentissimo scontro e alla prima vampata sono sopravvissuti in 120. La radio portatile di bordo e molti dei passeggeri si rifugiano nel salone Deluxe del traghetto, l’unico dotato di protezioni antincendio: pavimento e soffitto coibentati, porte tagliafuoco verso prua e poppa.
Là dentro pensavano di poter resistere, in attesa dei soccorsi.

La Moby Prince, completamente consumata dalle fiamme.
La Moby Prince, completamente consumata dalle fiamme.

L'apparato portatile del Moby Prince chiede aiuto, lancia il suo S.O.S. Due, tre volte. Ma nessuno lo sente. Nessuno ha udito neppure quello lanciato nel momento della collisione. La radio di bordo invece riceve le comunicazioni che si intrecciano sul canale d’emergenza e tutti si rendono conto di quanto sia grave la situazione: nessuno sta cercando i sopravvissuti del traghetto.
I soccorsi si concentrano sulla petroliera in fiamme. Asserragliati nel salone Deluxe passeggeri ed equipaggio ascoltano impotenti il comnadante dell’Agip Abruzzo che comunica la collisione con «una bettolina (piccola nave cisterna per trasporti costieri, ndr) che ci è venuta addosso”. La ascoltano attirare su di sé i soccorsi senza comunicare che nel disastro è coinvolta una nave passeggeri.

Nessuno degli 11 telefoni cellulari in possesso dei passeggeri riesce a chiamare a terra, nonostante la breve distanza dal porto
. La plancia di comando è distrutta, Il comandante, Ugo Chessa, è morto. È rimasto in plancia fino all’ultimo, e non ce l’ha fatta. Il traghetto vaga in fiamme alla deriva come un fantasma incandescente, a due passi da Livorno con il suo carico umano abbandonato a se stesso. A bordo si cerca di resistere, ma inutilmente: dopo ore la temperatura nel salone diventa intollerabile. Allora, decidono di uscire. Aprono un portellone alla ricerca di una di una via di fuga.
Solo fumo e fiamme. È la fine. L'agonia degli ultimi termina all'alba. I primi soccorritori saliranno sul Moby Prince solo 16 ore dopo la collisione.

Cos’è accaduto in quel pugno di minuti che ha preceduto le 22,27? E perché, dopo, nessuno si è curato di tentare un salvataggio dei sopravvissuti?

Ancora oggi la verità ufficiale, quella delle sentenze, constrasta in modo stridente con quella di tanti, troppi fatti. A partire da quelli individuati dalle inchieste giornalistiche, ma anche dall’avvocato di parte civile (l’onorevole ed ex magistrato) Carlo Palermo, legale dei figli del comandante Chessa, Angelo e Luchino, e di diversi altri familiari delle vittime, che aveva presentato nel 2007 un’istanza di riapertura dell’inchiesta, con diversi nuovi elementi su cui indagare. Una ricostruzione, la sua, che puntava il dito sui trasbordi di armamento in corso quella notte nel porto di Livorno.

La Procura di Livorno aveva riaperto l’inchiesta, ma dopo quattro anni ha nuovamente archiviato il caso, nel dicembre del 2010. Secondo i magistrati il caso Moby Prince non nasconde alcun mistero. Sono giunti alla conclusione che quella sera nella rada di Livorno tutto è accaduto a causa di un fenomeno alquanto singolare: è calato improvvisamente sull’Agip Abruzzo un banco di nebbia, ma non una nebbia qualsiasi, la nebbia d’avvezione, che è un fenomeno tipico dello stretto del Bosforo, per il quale una corrente d’aria molto calda incontra una superficie sensibilmente più fredda (il mare) e si producono improvvisi banchi di fitta foschia. Il disastro? Causato da errore umano.
Ancora la vecchia storia della colpa del comandante, che di fronte all’evento-nebbia non ha fatto ciò che avrebbe dovuto, non ha visto la petroliera e vi si è infilato dentro.
Quanto ai soccorsi, anche su questo secondo la Procura di Livorno non ci sono misteri: dopo mezz’ora erano ormai tutti morti, sostengono i magistrati. Perciò, del fatto che nessuno per 16 ore sia salito a bordo del traghetto per accertarsi delle condizioni dei passeggeri, nessuno è responsabile.
Questi esiti, di fatto, riportano indietro l’orologio di molti anni, al momento della sentenza del processo di primo grado. Un passo indietro persino rispetto alla sentenza del processo di appello.

Il punto cruciale della vicenda, insomma, è ancora la nebbia, o meglio la “nebbia d’avvezione
”. Eppure ci sono testimoni che dicono che la nebbia non c’era. Anzi che la serata era limpida. Anche della pagina del registro dell’Avvisatore marittimo (la “torre di controllo” del porto) del 10 aprile 1991 riporta in un breve appunto, redatto proprio al momento della collisione, la seguente nota: “Condimeteo alle 22,27: cielo sereno, mare calmo, vento da Sud (160°), 2/3 nodi, visibilità 5/6 miglia” (marine, ossia 8-10 chilometri).
Restano, allora, tutti gli interrogativi sulla più grande sciagura della marina mercantile Italiana.

Senza risposta sono gli interrogativi sulla presenza e le attività di tre navi militari americane e altre quattro “militarizzate” (ossia sotto comando dell’esercito Usa) ferme in rada a Livorno, quella sera e nei giorni precedenti, come pure una nave militare francese e tre fregate italiane della Marina. Senza risposta la questione dell’intensa movimentazione di materiale bellico e di esplosivi portato fuori dalla base Usa/Nato di Camp Darby.
Irrisolta la ragione per cui avviene un inspiegabile disturbo radio o interferenza che rende impossibili le comunicazioni del Moby. Senza risposta le incertezze e le mancate registrazioni dei radar.
Senza risposta la questione del ritrovamento a bordo del traghetto di tracce di sette differenti tipi di esplosivo, che fa pensare alla presenza di un ordigno a bordo del traghetto.

Irrisolta la questione posta dalle dichiarazioni di alcuni testimoni che hanno sostenuto di aver visto bagliori e fiamme provenire dalla fiancata della petroliera qualche tempo prima che il Moby Prince vi si dirigesse contro.
Ora la nuova perizia voluta dai fratelli Chessa pone finalmente alcuni punti fermi. Dai cui ripartire per dare verità e giustizia a quelle 140 vittime.

Luigi Grimaldi - Luciano Scalettari
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