31/08/2011
Un belle festeggia dopo aver partecipato alla presa di Tripoli da parte degli insorti.
Il furgone varca un check-point, poi entra all'interno di un
cortile dove sono acquartierati i ribelli, nel quartiere di Gurji.
Vengono quasi tutti da Yefren, sulle montagne del Gebel Nafusa e hanno
tra i 20 e i 30 anni. Lo scorso 21 agosto, quando sono entrati nella
Capitale, si sono accampati negli uffici abbandonati di una ditta
edile turca, nella zona di Ga al-Shab. Siaf Amari è seduto sul suo
land rover e sta pulendo l'artiglieria da 23 millimetri. Ogni tanto
spara un colpo in aria che fa tremare l'intero compound. “Ho vissuto
per vent'anni in Canada – racconta – mio padre era un oppositore del
regime di Gheddafi. Io sono finalmente riuscito a tornare in Libia due
anni fa. Ho combattuto gli utimi quattro mesi assieme ai ribelli di
Yefren. Oggi siamo davvero vicini alla libertà”.
Un giovane brucia una fotografia di Gheddafi durante la battaglia per il controllo di Abu Salim, un quartiere di Tripoli.
Già, perché le
notizie che arrivano da est sembrano incoraggianti. Alì Ammach Tuati
tiene una radio appoggiata all'orecchio e all'improvviso si fa
raggiante: “Il presidente del Consiglio nazionale transitorio Jalil ha
appena detto che entro sabato libereranno Sirte – spiega – poi resterà
l'ultimo bastione da espugnare, quello di Sebha”. Alì conosce bene
quelle zone. Lui è un berbero di Ghat, nel deserto sud-occidentale
libico. Prima che la guerra scoppiasse studiava Informatica a Tripoli.
Oggi, con i suoi 22 anni è uno dei veterani della squadra di stanza a
Ga al-Shab. “Resteremo qui finché sarà necessario – spiega – dobbiamo
far valere il ruolo dei berberi nei futuri equilibri del Paese. Del
resto siamo stati noi a liberare Tripoli!”
Ribelli esultano dopo la presa di Bab al-Aziziya, il compound di Muammar Gheddafi, Tripoli, lo scorso 23 agosto.
Il tramonto cala su una Tripoli silenziosa. È l'ultimo giorno di
Ramadan, domani inizieranno i tre giorni dell'Aid al-Fitr, la festa di
fine digiuno. Dal cancello d'ingresso entrano almeno nuna decina di
auto. Sono i combattenti di ritorno dalla quotidiana perlustrazione in
città. Scaricano dai veicoli pane, scodelle di zuppa e di Basin, il
piatto tradizionale del Nafusa. A turno allungano le mani sui piatti,
rompendo per l'ultima volta l'astensione dal cibo durata un mese.
“Vedi – dice Munir Abdulmuniz, docente universitario prestato alla
rivoluzione – sembra un po' una metafora del nostro Paese. Anche sulla
Libia, lo sappiamo, si stanno allungando molte mani. Ma sapremo come
difenderla dalle speculazioni”.
Uno scontro a fuoco tra insorti e le forze fedeli a Gheddafi nel cuore della capitale libica.
Cala il buio, i ragazzi, almeno un centinaio, ripongono i kalashnikov
e prendono posto sui materassi, adagiati ovunque, tra bossoli di
artiglieria e residui di cibo. “Fra due giorni doveva cadere anche
l'anniversario della rivoluzione di Gheddafi – osserva Munir – da
domani dobbiamo essere vigili. Potrebbero esserci degli attentati per
rappresaglia”.
Gilberto Mastromatteo