27/08/2011
Fathi Ayachi, 20 anni, libico, segue su Internet le notizie dell'assedio dei ribelli a Muammar Gheddafi (foto: Romina Rosolia).
Fathi Ayachi, 20 anni, scuote la testa e risponde secco: «Rientrare in una Libia libera da Gheddafi? No, non voglio più tornare, almeno per ora, anche se io e il mio popolo crediamo in una futura democrazia». È troppo presto per parlare di ciò che verrà, non solo per l’assetto politico-economico che avrà il suo Paese ma anche per la sua vita. Fino al 12 agosto Fathi lavorava come barbiere a Tripoli, dove è nato, ed è in Italia per volere delle milizie di Gheddafi. Confida: «Sono giovane e quella che provo in questo momento è solo confusione».
Lo hanno costretto a imbarcarsi con altre 400 persone su una “carretta del mare”. Racconta: «Nel vostro Paese ci sarei ugualmente venuto, ma non rischiando la vita. Con me quella notte, sulla banchina del porto di Tripoli, c’erano altre cinquemila persone, tutte in attesa dello stesso destino. Quando la barca si è riempita fino all’estremo, abbiamo fatto in tempo ad allontanarci di poche centinaia di metri. Poi i miliziani hanno iniziato a spararci contro. Lo fanno sempre, è un avvertimento per intimarci di non tornare indietro. Da quando c’è la guerra è così, ci mandano via in massa per danneggiare il Governo italiano».
Anche se ora per lui l’incertezza è la regola, sa che vuole chiudere con il passato, chiudere con l’Africa, anche se è lì che ha lasciato la famiglia: madre e due fratelli più piccoli, 15 e 16 anni, hanno trovato riparo in Tunisia. Suo padre è morto di infarto molto prima della guerra. «Almeno lì i miei fratelli potranno finalmente studiare, quello che voglio fare anch’io, voglio imparare l’italiano». In Libia - circa sei milioni di abitanti, due dei quali composti da profughi subsahariani impiegati in particolare nel settore della meccanica - l'istruzione è praticamente negata. Il flusso migratorio straordinario di nigeriani e camerunensi sulle coste italiane si deve anche alla condizione di lavoratori specializzati in fuga. In Libia il tasso di formazione scolastica si ferma al 5%.
Da sinistra: Raouf, l'interprete del centro di accoglienza di Sicignano degli Alburni in provincia di Salerno, e Fathi Ayachi (foto: Romina Rosolia).
«A Tripoli non ho più nulla, ho lasciato solo il cuore»
Un’istruzione negata dal regime e sostituita dal paliativo del Koutayeb, la cosiddetta “Carta verde” che garantisce a tutti di poter
acquistare gratis nafta, benzina, indumenti, alimenti, elettrodomestici, con l’unica eccezione delle automobili, cedute versando
soltanto il 15 per cento del prezzo imposto. Fathi lavorava come barbiere, ma avrebbe potuto farne a meno. «Il cittadino libico non
lavora perché Gheddafi lo ha assuefatto all’assistenzialismo, è così che
il Raìs ha comprato il nostro silenzio e la nostra obbedienza. Inoltre,
al compimento del ventesimo anno di età tutti i ragazzi ottengono dallo
Stato circa 100 dollari al mese, i capi famiglia invece 500.
È così che
in Libia si è andati avanti finora. La “Carta verde” esiste ancora ma
con quella ormai si può comprare solo il gasolio. Gheddafi ci ha
tolto tutto. A Tripoli non ho più nulla, nemmeno la mia casa, rasa al
suolo dai bombardamenti. Là ho lasciato solo il cuore». Per un attimo
Fathi torna indietro nel racconto della sua vita in Libia: «Non ho mai
studiato anche se so scrivere e leggere arabo e parlare il francese.
L’ho imparato dalle persone che ho incontrato nella vita, un’amica, un
familiare, mia madre. Ora voglio recuperare, voglio imparare l’italiano
ma soprattutto voglio regolarizzarmi con il vostro Paese».
Fathi, che
come cittadino libico avrà sicuramente il permesso provvisorio di
rifugiato politico, ripercorre i passaggi del suo arrivo in Italia.
«Sono qui dal 14 agosto, dopo due giorni di traversata di mare. Sono
arrivato a Lampedusa che neanche credevo di vedere e toccare terra.
Dalla Sicilia mi hanno poi spostato qui, nel centro di Sicignano, da
poco meno di una settimana. E ora ho bisogno di riflettere, capire,
ambientarmi. Anche se su un messaggio non ho dubbi: arrestate Gheddafi».
Immigrati a lezioni di italiano nel centro Caritas di Sicignano degli Alburni, provincia di Salerno, diretto da don Vincenzo Federico (foto: Romina Rosolia)..
La speranze di un giovane libico tra gli altri migranti africani
L’abitazione provvisoria di Fathi, il giovane libico fuggito da Tripoli e sbarcato a Lampedusa due settimane fa, è un albergo. Si chiama “Park Hotel” e si trova all’uscita dell’autostrada di un comune a Sud di Salerno, Sicignano degli Alburni. Trenta stanze per 109 migranti africani. Convivono insieme 17 nazionalità. Le regole per una convivenza pacifica fra musulmani e cristiani sono racchiuse qui, nel centro gestito dalla Caritas Diocesana di Teggiano Policastro per conto della Protezione civile nazionale che ha preso in mano l’emergenza sbarchi. Costo giornaliero per ognuno di loro: 46 euro. Ai 109 si aggiungono altri 52 migranti, uomini, donne e bambini non accompagnati, accolti nel vicino comune di Sanza, nell'albergo “Il Gabbiano”. Altri 31 si trovano negli ex alloggi del cantiere Anas in località Galdo, comune di Sicignano.
«Tra difficoltà, paure e crolli emotivi si va avanti ed è stato necessario stabilire regole ferree affinché tutti capissero la necessità di collaborare», dice Anna Verderame, madrelingua inglese, che due giorni a settimana insegna loro la lingua italiana. Aggiunge don Vincenzo Federico, direttore della Caritas diocesana di Teggiano Policastro: «Abbiamo adottato un ritmo di vita quasi normale per rendere meno complicata la condizione di vita di questi ragazzi». E spiega le come si svolge la vita all’interno del centro: «Guardiamo qualche film, giochiamo a dama, ascoltiamo musica. Ma organizziamo anche piccoli viaggi in luoghi dello spirito: siamo stati con tutti i migranti cattolici del nostro centro in udienza dal Papa e abbiamo battezzato quattro bambini di diversa nazionalità, tra cui Sabino, un neonato eritreo nato due mesi nel centro di accoglienza di Sanza. Samara, una giovane ragazza di 19 anni, ha partorito all’improvviso ed è stata aiutata dalla sua amica Princess, che in Africa lavorava come infermiera».
Centinaia le storie, non solo quella di Fathi: centinaia di bisogni, speranze, sogni e controlli medici che la Caritas garantisce ai migranti per rendere la loro vita dignitosa. Com'è giusto per ogni essere umano.
Romina Rosolia
(dossier a cura di Pino Pignatta)