16/04/2013
Il presidente della Repubblia, Giorgio Napolitano (Pellegrini).
In questo nostro Paese di memoria corta, sarebbeutile rievocare almeno due momenti. Riguardano entrambi il presidente Giorgio Napolitano. Il primo è il messaggio televisivo di fine 2012. Il secondo, quel misto di malumoree allarme con cui il Colle, poche settimane più tardi, accolse la candidatura di Mario Monti alle elezioni politiche. Il capo dello Stato aveva ben chiaro il nesso fra i guai del momento e quanto di peggio poteva derivarne. Dopo il meritorio inizio d’opera, il Governo Monti si era perso fra interventi mancati o sbagliati, scarsa o nulla attenzione alla ripresa economica, tasse e tagli che lo stesso Napolitano definì «indiscriminati e automatici». Ossia, una vera e propria crisi sociale che devastava l’economia, alimentava gli squilibri e richiedeva «fin d’ora», subito, «uno sforzo di risanamento».
Riferendosi poi in televisione alla campagna elettorale che stava per aprirsi, il Presidente elencava con puntiglio tutti i motivi di discredito di una classe politica che oltre agli scandali e agli abusi di potere non aveva neanche saputo riformare il Porcellum, la legge elettorale che ancora ci ritroviamo. In parallelo, sugli stessi temi, si leggeva sui giornali che delle due l’una: o si cambiava appunto “subito”, o si apriva Montecitorio a un centinaio di deputati grillini. Cose queste che dal Quirinale non si potevano dire ma che là ovviamente si pensavano.
Giorgio Napolitano aveva già dimostrato
ad abundantiam le sue doti di
fine politico, costretto a fungere da stella
polare contro gli altrui errori di percorso.
Dopo la caduta di Silvio Berlusconi
si era inventato una doppia promozione
per Mario Monti, prima senatore
a vita e quindi guida del Governo. Come
si è visto, non nascondeva le sue critiche
alla gestione ministeriale.
Però
giudicava ancora Monti come un uomo
di riserva, una “risorsa”, sia pure provvisoria,
in vista della prevedibile inconciliabilità
fra i tre gruppi che sarebbero
emersi dalle elezioni di febbraio. Con la
sua “salita” in campo (rivelatasi una
brutale discesa), il senatore Monti spariva
dal gioco.
E oggi se ne vedono le conseguenze.
Anche nel gioco per il Colle.
Questa funzione di alto raccordo, di
faro per naviganti alla deriva, Napolitano
continua tuttora a svolgerla. Già
nei primi anni di presidenza, malgrado
le tensioni fra destra e sinistra, sia i partiti
sia i cittadini sapevano di potersi riferire
al Colle come fonte di saggezza
politica. Non senza stupore, in molti,
per l’evoluzione di quest’uomo noto
per il suo cauto riformismo ma pur sempre
cresciuto nel Pci di Togliatti. Mai però
come adesso, a fine mandato, preoccupa
l’addio di uno statista che davvero
si è rivelato al di sopra delle parti.
Superfluo ricordare come da varie
fonti si sia prospettata una sua conferma
– almeno parziale – al Quirinale, e
il rifiuto di Napolitano per ragioni di
età abbia appena attenuato la pressione.
Il fatto è che, per tutta una serie di
motivi, nessuno dei nomi fin qui avanzati
per il ricambio, pur stimabili, offre
analoghe garanzie. Se in Parlamento si
sbaglierà scelta, decadranno le prospettive
di pacificazione nazionale.
Per questo, proprio a fine mandato,
stonano le critiche a Napolitano per la
nomina dei dieci “saggi”, incaricati di
concludere entro pochi giorni.
Se è vero
che i tecnici non si sono finora coperti
di gloria, non è meno vero che i
partiti da soli si sono mostrati totalmente
incapaci di offrire uno sbocco.
Uno stallo simile non l’avevamo mai
vissuto, fra politici che non sanno fare
il loro mestiere, imprenditori che arrivano
al suicidio, lavoratori buttati in
strada, pensionati in angoscia per il futuro.
E ora se ne va anche Napolitano.
Certo, se dandosi da solo una scadenza
ci ripensasse…
Giorgio Vecchiato
a cura di Francesco Anfossi e Fulvio Scaglione