Olimpiadi: parte la caccia al doping

Nove atleti squalificati per doping prima dell'avvio delle Olimpiadi. Punti forti e punti deboli nella lotta alla "droga" sportiva.

26/07/2012
Nataliya Tobias, ucraina, una delle atlete squalificate per doping (foto Ansa).
Nataliya Tobias, ucraina, una delle atlete squalificate per doping (foto Ansa).

Nove dell’atletica, fra cui sei donne, sono stati esclusi dai Giochi di Londra prima del via: doping. La federazione internazionale dello sport olimpico numero uno ha parlato di sei passaporti biologici non in ordine e di tre approfondimenti di indagine dopo i Mondiali del 2011. Fra i nove anche una medaglia di Pechino 2008, l’ucraina dei 1500 Tobias, bronzo.

Il pessimista dice che in tutti gli sport si pratica il doping sotto varie forme e anche con vari alibi, su tutti quello di terapie mediche che di solito chiedono ormoni supplementari. La differenza, ai Giochi olimpici come al giro del campanile di Roccacannuccia, non sarebbe fra chi si dopa e chi no, ma fra chi viene scoperto e chi no. Il problema sarebbe quello di definire il doping: per chi non ha i soldi per comprarsi la carne, il rivale che mangia bistecche enormi tutti i giorni è una sorta di dopato, che fa sport in condizioni di favore.

La tesi è seducente, come tutte le tesi rovinologhe e spregiudicate insieme. Essa si rinforza anche con questa affermazione: essere le armi di offesa sempre superiori a quelle di difesa, che arrivano in un secondo tempo, dunque l’essere il doping nuovo “superiore” a controlli fatalmente non aggiornati. Nella realtà, pur con i limiti di cui sopra, i controlli ci sono, vengono continuamente adattati ai nuovi modi di doparsi, scoprono, certificano il reato, e sono suffragati da iniziative giudiziarie che comminano squalifiche. E questo specialmente ai Giochi olimpici, dove se non altro è risolto a priori il problema grosso dell’antidoping, che è quello del costo: perché i molti soldi lì ci sono, si trovano. 

Il laboratorio di Londra incaricato delle analisi anti-doping per le Olimpiadi (foto Ansa).
Il laboratorio di Londra incaricato delle analisi anti-doping per le Olimpiadi (foto Ansa).

Non c’è invece coordinamento fra l’antidoping del Cio,  eccezionale nel senso che si afferma ogni quattro anni, quello delle federazioni internazionali non tutte impegnate bene, sempre e a fondo, quello delle federazioni nazionali spesso morbide, indulgenti. E non c’è coordinamento neppure fra i vari organi giudicanti, spesso in contrasto fra di loro, con ad esempio il ciclista Taldeitali che può correre in Spagna, nel suo Paese, ma non in Italia, dove per la giustizia sportiva è colpevole, men che mai in Francia dove è colpevole in primis per la giustizia ordinaria.  

Diciamo che almeno ai Giochi c’è un antidoping unificato e serio, quello del Cio, ci sono liste sin dove possibile aggiornate di prodotti proibiti, e c’è un giudizio rapido, così da spingere addirittura qualche ente (adesso la Federazione internazionale di atletica) a togliere di mezzo i suoi atleti che potrebbero, scoperti o comunque individuati per reati anche “antichi”, causare imbarazzi e perdite di prestigio.

Di più, su un fenomeno complesso come quello degli additivi leciti e no per un corpo umano che sta per affrontare anche nello sport  il tema dei trapianti, delle clonazioni e dell’ingegneria genetica, non ce la sentiamo di dire. Ricordiamo che secondo una tesi audace ma non blasfema il sudafricano Pistorius, con le sue protesi che in fondo lo aiutano nella spinta, sarebbe a suo modo un “dopato”. Speriamo che a Londra non ci siano smagliature o debolezze rispettivamente nei controlli e nelle sentenze, che gli scienziati diabolici del doping non mettano avanti loro nuove invenzioni, e speriamo anche nella pulizia individuale di ognuno. Il resto è fuffa demagogica o battaglia contro i mulini a vento.                                                                                                     

Gian Paolo Ormezzano
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