L'Italia con le ali ai piedi

21/03/2013

Quelli della mia generazione Pietro Mennea lo hanno impresso nella retina: una sagoma bianca e azzurra che parte come un proiettile per correre in progressione verso la gloria. Era il simbolo di un’Italia che aveva il fiato grosso dopo gli anni del boom e che entrava nella recessione, delle domeniche d’austerity, dell’inflazione a due cifre. Ma che era ancora capace di dispensare ancora qualche lampo d’orgoglio.
Uno di questi era “la Freccia del Sud”, il ragazzo di Barletta che a 15 anni, su uno stradone della città della disfida, faceva a gara con le auto sui 50 metri per vincere la scommessa coi coetanei e guadagnare un panino o un biglietto al cinema.

Gli italiani hanno fatto proprio il suo orgoglio, quando l’Italia era unita e il Sud era come il Nord. Quella specie di anatroccolo spennacchiato, più ossuto che muscoloso, capace di stracciare i più grandi velocisti della Terra, è entrato a buon diritto nel pantheon dei simboli di un’Italia capace di superare il mondo. Dopo le glorie sportive, immense, inarrivabili, l’uomo Pietro Mennea, sceso dal piedistallo del mito, ha fatto la sua corsa nella vita esattamente come faceva sulla pista olimpionica: si è laureato in Scienze Politiche, poi in Giurisprudenza, poi ancora in Scienze Motorie e infine in Lettere. Ha esercitato la professione di avvocato, giornalista, dirigente sportivo, europarlamentare, docente universitario, commentatore televisivo, dottore commercialista. Ha scritto 20 libri. Non ha mai sprecato un minuto della sua vita mercuriale fino a quando un male incurabile se l’è portato via.

E ora corre felice – metafora banale, super-abusata, ma inconfutabilmente adatta a Pietro Mennea – sulle piste olimpioniche del cielo. Con quel meraviglioso ghigno di chi sa di essere più forte degli altri, esibito ai blocchi di partenza. Mennea era meraviglioso perché nei primi dieci secondi della corsa non si sapeva ancora se avrebbe vinto o no. Le sue gare erano dei thriller mozzafiato che dispensavano adrenalina. Aveva una partenza “lenta” che si tramutava in accelerazione irresistibile. Era il brutto anatroccolo che si trasformava in ghepardo. Superava i concorrenti come birilli, uno dopo l’altro, facendoci saltare il cuore in gola. Il ragazzo di Barletta ci ha resi felici di essere italiani. Perché anche noi, -  noi che abbiamo ancora nelle orecchie le parole di Paolo Rosi a Mosca ("recupera, recupera, recupera, recupera!") -  davanti a quelle sublimi progressioni ci sentivamo per meno di 20 secondi le ali ai piedi.
                                                                                              Francesco Anfossi

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