Ormezzano: vi racconto il "mio" Mennea

21/03/2013

C’è un grande Pietro Mennea ufficiale, molto ma molto campione, primatista del mondo dei 200 metri per 17 (diciassette) anni e vincitore sulla stessa distanza dell’oro ai Giochi di Mosca 1980. C’è un “brutto” Mennea del prima, quando un allenatore paziente, Franco Mascolo, cercava di tirar fuori qualcosa di buono da quel ragazzino sempre brontolante, sempre lamentoso, e non certo provvisto di fisico ideale per l’atletica. C’è un bel Menna del dopo, quattro lauree (scienze motorie, scienze politiche, giurisprudenza, lettere), avvocato, deputato europeo, sposato contro pronostici di zitellaggio e sposato ad una collega di toga con la quale aveva dato vita ad una fondazione benefica, impegnato fra l’altro nello sport, sia pure senza gran rullare di tamburi.

C’è per chi scrive un Mennea personale, del tempo felice in cui i giornalisti con il campione parlavano e non chattavano, litigavano sonoramente e non polemizzavano sotto traccia, e intanto di lui e con lui spartivano affanni e problemi ed anche gioie, e insomma eravamo, come suol dirsi, una famiglia. Io avevo conosciuto Mennea quando ero ancora non solo un tifosi di Berruti, ma una sorta di conservatore ufficiale, di notaio di esperienze condivise con il vincitore dei 200 metri a Roma 1960 nonché compagno di scuola nonché compagno di viaggio proprio nel ritorno da Roma a Torino, portando a casa (abitavamo persino vicini) quello che in quei giorni era l’uomo più celebre d’Italia. Mennea all’alba del personaggio e Berruti al tramonto, inevitabilmente e storicamente posti ed opposti uno contro l’altro, avevano una sola cosa in comune: l’antipatia per Primo Nebiolo presidente federale.

Ma il fatto è che Mennea rimproverava a Nebiolo la piemontesità che lo portava a incensare sempre il torinese Berruti, mentre Berruti rimproverava a Nebiolo la eccessiva condiscendenza verso i capricci di Mennea, che voleva aiuti concreti e minacciava spesso il ritiro. Nebiolo, grande e astuto dirigente, usava bene il passato di Berruti e il presente di Mennea. Il quale Mennea, andando a fare la sua prestazione massima a Città del Messico, anno 1979, in occasione dell’Universiade (200 con record mondiale in 19”72), regalava a Nebiolo una sorta di omaggio massimo al suo tempio: perché Nebiolo aveva inventato l’Universiade, Nebiolo era l’Universiade. In sandwich fra Berruti e Mennea, ho cercato soprattutto di fare il giornalista, intanto che con Berruti l’amicizia continuava a crescere e che con Menna un sano embrione di amicizia nasceva.

Così che adesso, oltre a tantissimi Berruti miei, ho un Mennea mio abbastanza bello e – spero – interessante da ricordare. Il primo mio Mennea “da ricordo”, quello olimpico, quello del “subito dopo” i 200 metri ai Giochi di Montreal 1976, era quasi furioso per il quarto posto, lui che a Monaco 1972 era arrivato al bronzo. In Canada aveva gareggiato dopo avere annunciato il ritiro ed avere cambiato idea. Forse avvertiva il senso di una grande occasione perduta sospendendo gli allenamenti, forse. Gli dissi, ricordo bene: “Pietro, cerca di sorridere, sei pur sempre il primo dei bianchi, degli europei, toh anche dei cattolici”.

Non volevo prenderlo in giro, volevo dargli l’occasione per una qualche battuta distensiva, giustamente mi guardò come si guarda un pazzo, e non rispose, e mai mi ha chiesto il perché di quello che gli dissi.

Il mio Pietro Mennea olimpionico (cioè vincitore), quello del successo ai Giochi di Mosca 1980, per me era nato il giorno prima, a tavola. Mangiavo alla mensa degli atleti con Paolo Vittori, grandissimo allenatore, decisivo per la sua crescita massima, e anche uomo di eloquio affascinante e convincente. Il giorno dopo Pietro doveva correre semifinale e (forse) finale dei 200. Il Nostro mangiava a pochi metri di distanza. Vittori mi disse di guardarlo bene: “Sembra l’uomo più normale del mondo, niente del grande campione, eppure se vuole domani può vincere l’Oliimpiade”. Mennea non era il favorito. Vinse, e festeggiandolo cercai di provocarlo parlandogli di Vittori che in fondo sapeva tutto di lui. Volevo provare a retrocederlo al ruolo di esecutore di un destino, di rappresentatore di un lavoro finalizzato. Non mi diede neanche la soddisfazione di arrabbiarsi con me che gli dicevo della profezia di un guru invece che chiedergli della sua gara. Mi diede una lezione, in fondo.

Pietro Mennea era deputato europeo quando lo cercai per Torino 2006, lo volevo come ospite di una serie di incontri che chiamavano grandi campioni del passato a presentare lo spirito dei Giochi nella città vicina ad essere sede olimpica. C’erano problemi di treni e di aerei, passò troppo tempo e alla fine insieme dicemmo di no, perché ormai era tardi.”Ho smesso da anni di essere veloce”, mi disse, e fu vero humour, alla faccia dei miei problemi organizzativi. Penultimo Mennea tutto mio quello del 1987, vigilia dei Mondiali di atletica a Roma. Lui aveva di nuovo chiuso con l’atletica (ma poi sarebbe tornato alle gare per un anno ancora). Nella saletta di un hotel romano Nebiolo, lui Mennea, Maurizio Vitali padrone di Robe di Kappa marchio per cui Mennea lavorava e che voleva concorrere a vestire la Nazionale di atletica, io come arbitro: Mennea aveva esordito su La Stampa con una sua rubrica “mondiale” cui attaccava Nebiolo, il quale voleva squartarlo, appoggiato da Vitali che con Nebiolo cercava (invano) l’accordo di sponsorizzazione.

Il giornalista riuscì a far prevalere una soluzione di compromesso, da Mennea le scuse ma non troppo pubbliche, e solo per carenza di tempismo, la riparazione non troppo pubblica. Mennea mi guardava senza capirmi, ed era buona cosa per me, che in fondo mi piegavo alla cosiddetta diplomazia. Non mi mandò al diavolo, lo ringrazio adesso. Invece ci ringraziammo a vicenda l’anno dopo, a Seul olimpica, nella Casa Italia dove si andava a scroccare parmigiano, prosciutto e vino. Ci trovammo soli in una saletta, mi venne bene di dirgli: “Pietro, tanta strada insieme e no e adesso ci troviamo qui, io e te, due vecchietti”. Ci abbracciammo e credo proprio di ricordare che piangemmo insieme. Ma lui abbracciandomi diede in un attimo a me molto di più di quello che gli avevo dato per anni scrivendolo, descrivendolo.

Gian Paolo Ormezzano

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