Sparo, partenza, pochi metri, ritorno…

21/03/2013

Era un po’ come andare alla prova generale di un’orchestra anziché al concerto. Ed era quello che facevamo, da giovani, con Pietro Mennea. Vederlo in gara era abbastanza facile. Bastava attendere la gara prestigiosa e sedersi davanti al televisore, con la voce di Paolo Rosi pronta a infiammarsi per quello che sembrava, in mezzo a supermen e fustaccioni, un brutto anatroccolo.
Ma vederlo in allenamento, quello sì che era uno spettacolo, per pochi selezionati adepti della “freccia del Sud”, come lo chiamavamo, noi “tifosi” dell’atletica leggera, praticanti di 15-16 anni, con un sogno in testa: diventare come lui, se si praticava la velocità; come Franco Arese, se mezzofondisti; come Giuseppe Gentile, se triplisti; o come Paola Pigni e Sara Simeoni, perché anche le ragazze correvano, saltavano, lanciavano, e avevano i loro miti.
E l’occasione, per noi giovani atleti in erba arrivò, un po’ a a sorpresa, quindi ancora più gradita. La nostra società di atletica ci portò a Formia, al Centro tecnico federale, il sancta sanctorum degli atleti, dove i nostri miti si allenavano, per vederli in azione, rubare qualche segreto, imparare e, soprattutto, allenarci assieme a loro, Dionisi e Fiasconaro, Pigni e Mennea.

Il quale, diciamolo chiaramente, ci apparve come il più antipatico, snervante, brutto, scontroso, innervosito degli atleti di quella pista dove si respirava solo odore d’erba appena tagliata. E proprio per quei difetti accresceva la nostra voglia di capirlo. Renato Dionisi, astista di vaglia mondiale, scanzonato e “casinista”, si divertiva con un pallone, che scagliava addosso a Marcello Fiasconaro mentre il re degli 800 si allenava in curva. Marcello prendeva il pallone al volo e continuava a correre come nei suoi trascorsi da rugbista. Più in là, sulla pedana del salto triplo, Giuseppe Gentile sembrava una mummia egizia, fasciatissimo com’era dalle caviglie alle coscie, per sfuggire ai mille dolori che si portava dietro da tempo, somigliante ai guerrieri della mitologia greca: ogni salto un dolore in più, una cicatrice della battaglia appena vinta. Paola Pigni correva leggera mentre il suo allenatore e marito, il professor Bruno Cacchi, la seguiva trepidante col cronometro in mano. Poi, c’era lui, da solo, col professor Carlo Vittori, Pietro Paolo Mennea. Sembrava un purosangue, di quelli che “sentono”, e sentire voleva dire avere una sensibilità portata all’estremo.

Noi, in quel campo, ci allenavamo intimiditi da tutti quei grandi nomi, spiandoli e affiancandoci a loro per quanto potevamo. A Mennea no, da lui restavamo a distanza debita, come si sta a distanza del cavallo perché magari potrebbe “sentire” la presenza umana come un disturbo. Però guardavamo quello che faceva, come si allenava, e restavamo non so bene se più affascinati o, ma sì, diciamolo, scandalizzati da quello che gli vedevamo fare. Metodico, certosino, pronto più al sacrificio che al piacere, con la testa rivolta solo a migliorare anche di un solo centimetro i suoi passi sulla pista, s’era fatto costruire un marchingegno che i professor Vittori usava alle sue spalle. Si trattava di due tavolette di legno, rettangolari, come quelle di un parquet, unite in modo tale da poter ottenere, nel momento in cui venivano battute l’una sull’altra, lo steso effetto dei ciak del cinema. A che gli servivano?

A sentire lo sparo, uno sparo simulato, come quello della pistola dello starter delle gare. Vittori batteva le due tavolette una sull’altra; lui partiva all’istante, faceva qualche metro acquistando la massima velocità, poi rallentava e, per inerzia si fermava per tornare indietro. Ancora, ancora, ancora, all’infinito, ci pareva. Un esercizio sfibrante per la ripetitività ossessiva, ma che per Mennea era solo uno dei tanti movimenti ripetuti che lo portavano al soddisfacimento delle sue sedute. Oh, lo vedemmo anche in gara, più volte: a Formia, a Roma, a Torino.
Sempre dal vivo. Ma quell’allenamento, quel modo quasi ascetico di prepararsi, quell’isolamento totale dal resto del mondo, quell’ossessionante ricerca della perfezione - proprio lui che quando arrivavano i tecnici dagli Usa e dall’Urss per vedere chi fosse l’italiano che osava battere i migliori, restavano stupiti di fronte allo sgorbio bruttarello con le spalle incassate e quel fisico non proprio da superman della velocità - beh, ecco, in quella ricerca di perfezione stava tutta la rivalsa del brutto anatroccolo, che in gara diventava il più veloce del mondo.
I suoi compagni pian piano se ne andavano dal campo mentre il sole tramontava sul mare di Formia. Lui no, continuava con quello sparo simulato a provare le partenze, perché anche se era il migliore, sapeva che solo dimostrandolo il mondo lo avrebbe riconosciuto tale. Ancora: sparo, partenza, pochi metri, ritorno. Ancora: sparo, partenza, pochi metri, ritorno. Sparo, partenza, pochi metri, ritorno…

Manuel Gandin

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