30/05/2012
«Siamo in pieno boom economico, è vero, ma non bisogna
dimenticare che fino al 1985 eravamo una dittatura militare e, in virtù di
inspiegabili accordi presi con nazioni come gli Usa, non si poteva produrre
niente di industrializzato, né macchine, né frigoriferi, nemmeno attrezzature
per il teatro. Quando negli anni Novanta siamo stati investiti da una profonda
crisi economica quegli accordi sono stati rivisti: il governo Lula ha deciso di
pagare tutti i debiti pregressi con l'esterno per poi, lentamente, ricominciare
a investire nel sociale». E così è stato. «Da noi la social card presentata
come una novità assoluta in Italia anche dal governo Berlusconi esisteva già da
parecchio tempo e aveva più senso perché era fornita a una fetta di popolazione
che non era mai andata a un bancomat. E poi, in cambio, si chiedeva alle famiglie
che i figli andassero a scuola». Si è trattato di uno spartiacque decisivo
nella storia recente del Brasile: «Per la prima volta qualcuno stava facendo
qualcosa anche per i più poveri senza scadere in discorsi puramente retorici ma
con la volontà di innescare un circuito virtuoso». Tutte rose e fiori, dunque?
Neanche per sogno, le emergenze ci sono e sono a tutti i livelli. Una su tutte:
«Tre anni fa sono stata per la prima volta nella mia vita a Rio de Janeiro: è
piena di bambini di strada, tanto che alla Caritas, nonostante tutto l'impegno
possibile, ammettono di non riuscire a fare quanto sarebbe necessario». Stiamo
parlando di un Paese, il Brasile, che ha 24 milioni di bambini di strada,
praticamente «un'intera nazione di poveri, piccoli e miserabili».
Alberto Picci