Marco (14,1-15,47)
Quando fu mezzogiorno, si fece buio su tutta la terra fino alle tre del pomeriggio. Alle tre, Gesù gridò a gran voce: «Eloì, Eloì, lemà sabactàni?», che significa: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». Udendo questo, alcuni dei presenti dicevano: «Ecco, chiama Elìa!». Uno corse a inzuppare di aceto una spugna, la fissò su una canna e gli dava da bere [...]. Ma Gesù, dando un forte grido, spirò. Il velo del tempio si squarciò in due, da cima a fondo. Il centurione, che si trovava di fronte a lui, avendolo visto spirare in quel modo, disse: «Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!».
Lui che ci ha dato tutto
Mancano le parole a voler commentare l’opera di Dio. Ogni omelia sembra così piccola e inadeguata! Nulla, proprio nulla, possiamo aggiungere a un amore che ha dato tutto come mai nessuno prima: potevamo immaginare di poter essere amati così da un “Dio” che sempre è stato pensato diverso da un “Crocifisso”? Nessuna fantasia, qui. È la realtà storica, testimoniata con il sangue dei martiri, a raccontarci tutte queste cose che riguardano il Maestro: lui e tutti noi.
Di cosa posso stupirmi, oggi? Cosa posso contemplare con voi, oggi, domenica delle Palme? Inizio a rispondere, balbettando. E ciascuno continui, con il cuore colmo dell’amore di Gesù in croce. Contemplo la Pasqua ebraica i cui colori si fondono con quella di Gesù: l’agnello offerto nella liturgia del Tempio e l’agnello di Dio che toglie i peccati del mondo.
Mi stupisco di quella donna che, a Betania, sciupa lo stipendio di un anno di lavoro (...si dice che fosse una peccatrice!) per profumare la testa del Signore, riconoscendolo il Messia dei poveri, di quelli che per affetto verso di lui – poiché altra speranza non hanno – svuotano sé stessi in un intimo atto di affidamento. Mi amareggio del tradimento di Giuda, ma penso anche alle mie piccole distrazioni: le chiamo così, ma sono le responsabilità nelle quali forse ho mancato l’essenziale.
Mi accosto alla mensa dell’ultima cena e ringrazio per le innumerevoli volte che ho ripetuto il gesto di Gesù che si affida a noi, si mette nelle nostre mani e sta fermo nella volontà del Padre: la Croce sta ormai sul palmo della mia mano! Contemplo gli occhi buoni del Signore che incrociano lo sguardo prima assonnato di Pietro che dorme, nel campo degli ulivi, mentre Gesù si consegna ai soldati, e poi il suo sguardo terrorizzato: Pietro, anche lui fragile e senza memoria dell’amicizia con il suo Maestro, e tuttavia già chiamato a essere Roccia della sua Chiesa.
Mi stupisco di lui, che davanti agli accusatori parla di un Tempio nuovo, che Dio riedifica nelle coscienze di tutti, perché ciascun uomo lo possa incontrare. È lui il Tempio nuovo del nuovo popolo che nasce proprio in quelle ore di tormento e di gloria. E ancora: spine che si intrecciano e colpi che si abbattono impietosi sulla sua schiena, e ogni colpo a marcare la separazione che il peccato del mondo ha generato tra la creatura e il Creatore di tutto. Ascolto i colpi sordi del martello che configge la carne sul legno, illudendosi di poter fermare l’amore di un Dio che si è sempre legato all’uomo con patti e alleanze certe, contro ogni intenzione di morte, di solitudine, di schiavitù, fin dall’antico Egitto.
Poi il silenzio più totale che l’universo abbia mai ascoltato, quando il Figlio di Dio viene deposto nel sepolcro scavato nella roccia. E la Chiesa attende: è un secondo Avvento alle cui porte avvertiamo che tutto si è già compiuto, eppure ciascuno di noi ancora ha viva speranza per sé e per il mondo che Dio ha amato così.
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Giovanni (12,20-33)
Tra quelli che erano saliti per il culto durante la festa c’erano anche alcuni Greci. Questi si avvicinarono a Filippo, che era di Betsàida di Galilea, e gli domandarono: «Signore, vogliamo vedere Gesù». [...] Gesù rispose loro: «È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato. In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna. Se uno mi vuole servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore».
Amati da sempre
È Gesù stesso che oggi ci invita a entrare nel grande dramma della Croce, strumento necessario di salvezza universale e di gloria. Anche «alcuni Greci», non appartenenti al popolo ebraico, diventano parte di questa avventura così densa di mistero. «Signore, vogliamo vedere Gesù».
Mi incuriosisce questo “desiderio” di vedere Gesù, perché è anche il mio desiderio e il desiderio di tutti noi. Non è tanto il vedere il suo volto, ma il comprendere che ai suoi occhi, quando tutto si sarà ricomposto nell’universale disegno del Padre, siamo da sempre stati chiamati e amati, attratti sotto la sua croce non come spettatori curiosi di un evento tragico che non ci trasforma, bensì come partecipi di quel dramma che ha posto l’intera umanità a gloria del suo nome.
In quel giorno vedremo il bene che abbiamo fatto e quello che non siamo stati capaci di compiere; vedremo i nostri momenti di forza e quelli di debolezza come vinti da lui, superati dal suo stare in alto, sulla croce, per attirarci a sé al di là di ogni nostro merito: sarà il trionfo sfolgorante della misericordia divina. Capirò che l’aver servito la Chiesa e i fratelli rinunciando a qualcosa di me stesso corrisponde alla “Vita” che il chicco di grano nasconde in sé e nel cuore della terra in cui è sepolto, simbolo della vita così come Dio la dona.
Questo mi ha maturato e convinto della necessità di fare il Bene con tanta umiltà e fiducia. Ma non è accaduto solo a me: è l’esperienza cristiana di tutti noi, di ogni nostra giornata. Giunge il momento, nella nostra Quaresima, di domandarci come sta maturando la nostra personale dedizione al Vangelo, al Vangelo vivente e personale che è il Signore Gesù: viviamo per noi stessi o per il Bene che Dio ha deposto come suo progetto nelle nostre esistenze?
Ma c’è un altro particolare che mi attrae oggi: il bisogno che abbiamo della Chiesa. I pellegrini greci interpellano gli apostoli per avvicinarsi a Gesù. Questo mi ricorda che sono stato introdotto nella vita intima di Dio senza merito, attraverso la mediazione di altri che prima di me hanno cercato, trovato e amato il Signore: i miei genitori, la mia famiglia, gli amici che ho incontrato, la gente che mi ha incoraggiato e mi ha chiesto di amare con disponibilità semplice e pronta, chi mi ha messo sulle spalle la croce e la gioia di essere prete e vescovo.
Tutti costoro mi hanno condotto fino a Gesù, e ho capito che, pur non avendo ancora preso parte alla pienezza della sua gloria, è a quella meta che devo guardare, mentre ancora percorro il mio sentiero quotidiano. Ed è il sentiero di ciascuno di noi in rapporto alla propria specifica vocazione e missione: «Se uno mi vuole servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servo». Sì, camminiamo tutti verso la Pasqua annuale, nella prospettiva della Pasqua eterna che ci attrae fin nel cuore di Dio Padre, là dove c’è pienezza di misericordia e di gioia.
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Giovanni (3,14-21)
In quel tempo, Gesù disse a Nicodèmo: «Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna. Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio».
La vittoria della Croce
Nicodèmo è un amico di Gesù: un amico che lo diviene sempre più. All’inizio appare confuso: Gesù gli parla di cose che hanno a che fare con lo Spirito, ma Nicodèmo è ancora aggrappato a sé stesso e alle proprie idee per comprendere. Dovrà purificarsi, staccarsi dai propri convincimenti per abbracciare l’amore di Dio, che è umile ma si innalza su tutto il male del mondo con il perdono che scaturisce dalla Croce. Troveremo Nicodèmo ancora due volte nel racconto di Giovanni.
Durante il processo a Gesù, egli avrà il coraggio di contestare la falsità di quanti accusano il Signore e già hanno deciso di farlo morire. Lo incontreremo, infine, durante la sepoltura del Signore, insieme a Giuseppe d’Arimatea: il timido amico del Signore è qui il discepolo coraggioso nel gesto di pietà che ha verso Gesù.
Ma non ci sfugga il tema importante del Vangelo di oggi: al di sopra di tutti i mali del mondo sta la vittoria della Croce che è misericordia e perdono per ciascun uomo che accoglie la buona volontà di Dio e vi corrisponde mettendosi in gioco con libertà perché sia sempre il bene a vincere la durezza del suo cuore: «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna».
Questo è il Vangelo, è la buona Notizia che Gesù ha da subito annunciato nel breve tempo della sua vita pubblica e che Dio ha mantenuto come la promessa più ardita che l’uomo non abbia mai ascoltato: chi guarda alla Croce non solo guarisce dal peccato sconfiggendo il Diavolo, il “serpente antico” che da sempre inganna l’uomo, ma ha in sé la vita stessa di Dio, che è eterna non solo perché è per sempre, ma perché lo è in quanto possiede quella definitiva qualità che sta nell’essere pienamente saziati dall’amore che riscatta e libera da ogni forza distruttiva.
Chi dunque potrà vincere sul discepolo di Gesù? Chi potrà spegnere questa luce che mette in salvo mentre navighiamo nell’incertezza generata dal mondo con i suoi idoli, con le sue pretese di onnipotenza, con il suo stare dalla parte di chi ha potere, di chi tiene per sé e non spartisce il bene che ha, perché vive di invidia e di gelosia? Chi è incredulo fino a questo punto? Dice Gesù a Nicodèmo: «Gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie».
Così va il mondo. Distogliamo lo sguardo da queste opere e guardiamo con fiducia alla Croce, segniamo con essa la nostra vita e riviviamola nelle nostre azioni quotidiane, condividendo con Gesù la grazia e la responsabilità sul Vangelo, sulla Parola di salvezza che tutti riscatta dalle tenebre che ci portiamo dentro e che continuano a generare divisione, ingiustizia, violenza, morte.
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Giovanni (2,13-25)
Si avvicinava la Pasqua dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme. Trovò nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe, e là seduti, i cambiamonete. Allora fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori del tempio, con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiamonete e ne rovesciò i banchi, e ai venditori di colombe disse: «Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!». I suoi discepoli si ricordarono che sta scritto: «Lo zelo per la tua casa mi divorerà».
La carità, unica “merce”
Ricordo almeno tre momenti in cui Gesù ci appare indignato. Il primo si trova al capitolo terzo del Vangelo di Marco, dove si racconta che Gesù si indignò perché, leggendo nel cuore di chi gli stava intorno, vedeva che si sarebbero scandalizzati se, nel giorno di sabato, avesse guarito un uomo. Il secondo, al capitolo decimo sempre di Marco, ci mostra Gesù indignato perché i suoi discepoli mandano via i bambini che Gesù, invece, accoglie e benedice.
Il terzo momento è documentato dal brano del Vangelo di oggi: Gesù si indigna perché l’uomo mischia interessi di varia natura alla gloria di Dio e, così, non lo può incontrare in spirito e verità. È un invito forte ad adeguare la nostra ricerca di Dio alla sua volontà e, prima di tutto, al rispetto della sua casa, il Tempio. Di questo tempio però Gesù insinua che è fragile come il suo corpo e che potrebbe andare distrutto in un solo istante; dice che non resterà pietra su pietra, per quanto bella e ben scolpita, che non verrà diroccata.
Il passaggio è interessante e ci offre cose importanti da capire: dal tempio passiamo al corpo di Gesù che, distrutto sulla croce, risusciterà glorioso il terzo giorno. Ci stiamo preparando alla Pasqua, a rivivere i grandi eventi della passione, morte e risurrezione del Signore. Sono eventi nei quali noi stessi possiamo entrare da quando Gesù, dalla croce, dona lo Spirito per far nascere la sua Chiesa.
Siamo abituati a considerare la Chiesa come corpo del Signore, come l’insieme di tutti gli uomini che cercano Dio, lo amano, lo incontrano nella Parola e nell’Eucaristia. Tutti noi siamo questo “corpo”, siamo queste “pietre vive” che cantano la gloria del Padre, riconoscendoci reciprocamente in quella singolare dignità che ci è stata data in dono. Ecco allora il “Tempio” di cui dobbiamo avere cura: è l’umanità per la quale Cristo Gesù è morto ed è risorto. Nessun uomo deve essere reso oggetto della cattiva volontà di qualcuno né deve soffrire solitudine o indigenza per la distrazione e l’indifferenza degli altri.
Questo indigna il Signore, che introduce ciascuno di noi nel nuovo tempio della sua Chiesa, ma non senza il fratello bisognoso: perché è la carità l’unica “merce”, l’unico denaro di scambio che può passare attraverso la casa di Dio che siamo noi, uniti al suo Figlio Gesù. Interessante anche la conclusione del brano di Vangelo: la nostra vita è segnata dall’affetto di Dio che ci conosce e ci stima uno a uno.
E questo è per noi fonte di gioia. Ma è anche una responsabilità: chi è conosciuto da Dio è amato da lui e questo amore è purificante e stimolante: sradica da noi ogni tentativo egoistico di farsi gloria da sé dimenticando la Croce e ci spinge a non cercare segni e prodigi che tolgano onore alla verità di Gesù: egli ha dato sé stesso come unico segno dell’amore del Padre. Siamo creature amate dal Signore: la nostra gloria deriva tutta e solo dalla nostra dignità di figli di Dio.
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