Marco
(7,1-8.14-15.21-23)
Chiamata di nuovo
la folla, [Gesù] diceva
loro: «Ascoltatemi tutti
e comprendete bene! Non
c’è nulla fuori dell’uomo
che, entrando in lui,
possa renderlo impuro.
Ma sono le cose
che escono dall’uomo
a renderlo impuro». E diceva [ai suoi
discepoli]: «Dal di dentro
infatti, cioè dal cuore degli
uomini, escono i propositi
di male: impurità, furti,
omicidi, adultèri, avidità,
malvagità, inganno,
dissolutezza, invidia,
calunnia, superbia,
stoltezza. Tutte queste
cose cattive vengono fuori
dall’interno e rendono
impuro l’uomo».
Con tutto il cuore
Le parole di Gesù pongono la questione
del cuore dell’uomo, dove si annida una
molteplicità di sentimenti, decisioni e gesti
che mostrano ciò che noi siamo.
Nella Bibbia Dio parla a noi attraverso il
“cuore”, leggendo nel profondo segreto della
vita di ciascuno, e dal cuore noi a lui rispondiamo.
Ed è sempre col cuore che stiamo in
ascolto della realtà: la leggiamo, la valutiamo,
la soppesiamo e prendiamo le decisioni
che contano.
Così, quando diciamo a una persona
o ci rivolgiamo a Dio stesso nella preghiera
dicendo «ti amo con tutto il cuore», esterniamo
non un sentimento vago, ma la decisione
di impegnarci per un progetto comune che corrisponde
certamente alla volontà dell’altro (anche
alla volontà di Dio), ma è pienamente deciso
e condiviso anche da noi.
Può aiutarci a capire il Vangelo la bellissima
preghiera di san Paolo per i cristiani di Efeso:
«Che il Cristo abiti per mezzo della fede nei vostri
cuori, e così, radicati e fondati nella carità,
siate in grado di comprendere con tutti i santi
quale sia l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la
profondità e di conoscere l’amore di Cristo che
supera ogni conoscenza, perché siate ricolmi di
tutta la pienezza di Dio» (Ef 2,17-19).
Domandiamoci allora: che cosa c’è nel nostro
cuore e quali sono le decisioni che quotidianamente
prendiamo? Mirano alla vita di fede
attraverso il compimento di ogni buona volontà
contraria a qualsiasi ingerenza del male
nella vita nostra e del mondo? Oppure il nostro
cuore è superbo, ci chiude in un’autosufficienza
che forse, nonostante le apparenze,
non va contro il male che c’è ma si accontenta
di non farne troppo?
È di questo che Gesù discute con gli scribi e i
farisei che vivono appoggiati unicamente alle
tradizioni. Il bene che altri hanno inteso nel
passato e hanno compiuto nel presente non deve
generare un noioso rimpianto di ciò che
una volta tutti facevano e ora non più! Non possiamo
essere come gli interlocutori di Gesù che
si chiedono, piagnucolando, «dove andremo a
finire» se i tuoi discepoli non purificano le loro
mani prima di mangiare?
La risposta di Gesù mostra come egli è in profonda
sintonia col cuore di tutti: di quanti lo seguono
sforzandosi di percepire la novità dirompente
della sua Parola e di quanti non si aprono
alla legge nuova dell’amore che fa il bene.
L’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori
(ecco ciò che deve entrare in noi e trovare una
volontà disponibile) perché da questi stessi
cuori esca solo bontà, compassione, solidarietà,
condivisione, capacità di rivolgerci insieme
all’unico Padre che ama tutti ed è in cerca
di ciascuno e, da ciascuno, vuole una risposta
fatta di preghiera e di vita buona.
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Giovanni
(6,60-69)
Molti dei discepoli
di Gesù, dopo aver
ascoltato, dissero:
«Questa parola è dura!
Chi può ascoltarla?».
Gesù, sapendo dentro di
sé che i suoi discepoli
mormoravano riguardo
a questo, disse loro:
«Questo vi scandalizza?
E se vedeste il Figlio
dell’uomo salire là
dov’era prima? [...]». Da
quel momento molti dei
suoi discepoli tornarono
indietro e non andavano
più con lui. Disse allora
Gesù ai Dodici: «Volete
andarvene anche voi?».
Gli rispose Simon Pietro:
«Signore, da chi
andremo? Tu hai parole
di vita eterna e noi
abbiamo creduto
e conosciuto che tu
sei il Santo di Dio».
Vivere per il Signore
È il caso di dire che sulla questione del
suo Corpo e del suo Sangue (la sua vita
data per noi) Gesù si è giocato tutto: ha
lasciato per strada molti dei suoi discepoli e
ha rischiato persino il rifiuto da parte dei Dodici.
E questo mi dice quanto sia grande la
sua bontà, ma anche quanto sia deciso e a volte
duro il suo andare nella direzione del compimento
del progetto che Dio gli ha affidato.
A volte Gesù è duro anche con noi. È vero
che non abbiamo dubbi sull’Eucaristia e su
tante altre pagine di Vangelo, ma è strano che
a noi sembri scontato ciò che ai discepoli di
Gesù sembrava del tutto inconcepibile. Corriamo
il rischio di non pensare con la dovuta serietà
alle occasioni in cui il Signore ci coinvolge
e quasi ci inchioda: spesso ascoltiamo un
brano di Vangelo e pensiamo che sia ovvio il
suo contenuto, che sia chiaro che dovremmo
comportarci e scegliere proprio come Gesù ha
detto... Ma poi dimentichiamo. Eppure il Vangelo
è sempre lì ad attendere la nostra obbedienza,
il nostro “sì” quotidiano, mentre
noi rischiamo nei fatti di divagare e di vivere
lontano da ciò che abbiamo capito.
L’Eucaristia invece è lì, testimone di un
amore eterno, che facciamo fatica a credere
vero e a imitare. Non facciamo forse come coloro
che se ne sono andati? Merita allora d’essere
ripresa e meditata una frase del Vangelo
di domenica scorsa. Gesù dice: «Come il Padre,
che ha la vita, ha mandato me e io vivo
per il Padre, così anche colui che mangia me
vivrà per me». È il caso di ascoltare bene: il
Padre condivide la sua stessa vita con Gesù e
Gesù è inviato perché la vita del Padre sia in
tutti noi.
E lo strumento per questa condivisione
è che noi, mangiando il suo corpo, viviamo
per lui. “Vivere per” è il segno di una
dedizione profonda, coraggiosa, a volte
eroica: una mamma vive per il proprio bambino;
due coniugi vivono l’uno per l’altro,
un prete vive per il Vangelo... Pensiamo a
quante scelte si fanno in nome di ciò per cui
si vive, a quante cose pur buone diventano
oggetto di rinuncia, a quante idee vengono
messe da parte e a quanti progetti passano in
secondo piano, quando si “vive per...”.
La questione centrale dell’Eucaristia è
proprio giocata sul “per chi” si vive. Sì, Gesù
ha fatto il passo che solo lui poteva compiere
secondo il disegno di Dio; ma in questo stesso
disegno ora siamo coinvolti tutti noi che
celebriamo la sua presenza nel mondo, nella
Chiesa e nelle nostre esistenze. La celebriamo
“vivendo per lui”, senza le pericolose deviazioni
di chi per ogni fatica tende a fare
un’eccezione, per ogni gesto d’amore tende a
suonare la tromba davanti a sé.
Con san Tommaso possiamo dire: «Ti adoro
devotamente, o Dio nascosto», umilissimo
nell’amore che hai riversato nei nostri cuori
con tanta sovrabbondanza ed efficacia.
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Giovanni
(6,51-58)
In quel tempo, Gesù disse alla folla: «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo».
Allora i Giudei si misero a discutere aspramente fra loro: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?».
Gesù disse loro: «In verità, in verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda.
Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me.
Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno».
La liturgia della Parola riprende l’ultimo
versetto del Vangelo della scorsa domenica
e nella fede accoglie l’affermazione
di Gesù: «Io sono il pane vivo, disceso dal
cielo», il pane della vita.
Queste parole conducono il racconto di
Giovanni al culmine della polemica dei giudei
contro Gesù: «Come può costui darci la
sua carne da mangiare?». Non è solo una questione
pratica: come è possibile che uno si lasci
mangiare? Sappiamo che sarà possibile attraverso
l’accettazione libera della morte di
croce, quando Gesù sarà il vero agnello sacrificato
e consumato nel banchetto pasquale.
È anche una questione altamente
simbolica perché fa riferimento alla vita
dell’uomo, alla sua carne e al suo sangue, di
cui Dio chiede conto a tutti perché di ogni vita
è il Signore.
Ma proprio qui sta il vertice della misericordia
di Dio, che in Gesù – dice san Paolo –
«ha dato se stesso per noi», «si è umiliato fino
alla morte e alla morte di croce, annientando
sé stesso, lui che era Dio». Gesù che dà la
vita non è un’immagine astratta o un modo
di dire: è vicenda talmente concreta da riguardare
la sua carne e il suo sangue, mangiabile
e bevibile (e dunque vita sua in noi)
sotto i segni del pane e del vino.
Per noi tutto questo è scontato, ma non dovrebbe
esserlo. Nell’Eucaristia è infatti riposto
il gesto più alto di ogni libertà umana e
della stessa libertà divina, perché l’autentica
libertà, giocata «nell’amore più grande», è
quella di chi «dà la vita per i propri amici».
Nella mente dei giudei, che ascoltavano Gesù,
non c’era solo un senso di ribrezzo per doversi
nutrire della sua carne: le sue parole erano
una vera e propria bestemmia, perché il sangue,
la vita dell’uomo, era marcato da una sacralità
intoccabile.
Come può essere, così come
vuol farci credere, il Figlio di Dio e, allo
stesso tempo, dire cose così orrende per la legge
di Mosè? Ma proprio perché «sangue e carne
insieme» sono vita Gesù ha scelto di darsi
a noi così: niente di meno della vita stessa
di Dio poteva liberare l’uomo dal peso della
lontananza, a motivo del peccato, dalla fonte
di ogni esistenza! Non c’era altro modo che
quello dato nell’Eucaristia per poter tornare
davvero nella casa del Padre, nel suo abbraccio
misericordioso!
Possiamo intravvedere i perché di questo
“gesto eucaristico” compiuto da Gesù. Il loro
senso è spiegato dalla croce, strumento di
morte per lui e di vita per noi; come tutto
questo avvenga resta un mistero davanti al
quale alzare le mani in segno, non tanto di
resa, ma di adorazione riconoscente: lì c’è Gesù,
così come era visibile agli apostoli, prima,
durante e dopo la sua morte e risurrezione. È
importante continuare a domandarci “come
ha fatto?”... Sì, come ha potuto darsi così, per
noi, poveri peccatori?
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Luca (1,39-56)
In quei giorni Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda.
Entrata nella casa di Zaccarìa, salutò Elisabetta. Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo.
Elisabetta fu colmata di Spirito Santo ed esclamò a gran voce: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me? Ecco, appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo. E beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto».
Allora Maria disse:
«L’anima mia magnifica il Signore
e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore,
perché ha guardato l’umiltà della sua serva.
D’ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata.
Grandi cose ha fatto per me l’Onnipotente
e Santo è il suo nome;
di generazione in generazione la sua misericordia
per quelli che lo temono.
Ha spiegato la potenza del suo braccio,
ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore;
ha rovesciato i potenti dai troni,
ha innalzato gli umili;
ha ricolmato di beni gli affamati,
ha rimandato i ricchi a mani vuote.
Ha soccorso Israele, suo servo,
ricordandosi della sua misericordia,
come aveva detto ai nostri padri,
per Abramo e la sua discendenza, per sempre».
Maria rimase con lei circa tre mesi, poi tornò a casa sua.
Celebriamo oggi la solennità di Maria Assunta
in cielo. Per Maria si è adempiuta la
profezia da lei stessa cantata: grande tra
le donne e grande per tutta l’umanità, ma soprattutto
grande allo sguardo di Dio che, per
suo tramite, attraversa i secoli della storia e li purifica
nella sconfinata sua misericordia.
Così è resa
santa la vicenda personale di ciascuno di coloro
che, come Maria, vivono sotto lo sguardo
di Dio con umiltà e coraggio, nell’obbedienza
Mi si consenta una piccola confidenza. Passando
un giorno per un paesino di montagna, accanto
a una cappellina dedicata alle anime del purgatorio,
ho letto questa frase scritta a caratteri
antichi e un poco rovinata dal tempo: «Quel che
sarete un dì, noi siamo adesso; chi dimentica
noi, dimentica sé stesso».
Mi pareva un evidente
richiamo a non dimenticarci di coloro che sono
morti, a pregare per loro e a vivere nella prospettiva
del giudizio di Dio. E così mi sono trovato a
riflettere sul destino che ci attende accanto a Gesù,
là dove Maria è già entrata in pienezza di grazia.
Pensando oggi a Maria, posso rimeditare
questa frase, non in relazione al purgatorio, ma
al nostro vero futuro secondo il grandioso disegno
del Padre: tutti siamo predestinati a questa
gioia e Maria, al di sopra di tutti coloro che ci
hanno preceduto nel cammino di fede, ci ricorda:
tale quale sono io, sarete anche voi! C’è dunque
una grande speranza nel nostro futuro che
oggi viene anticipato in questa celebrazione di
Maria, la più grande dei discepoli del Signore.
Il Vangelo d’oggi non dimentica però di soffermarsi
nel raccontare la vita di Maria nella
prospettiva di quel servizio che oggi noi stessi
siamo chiamati a vivere verso quanti hanno bisogno:
la gloria cantata nel Magnificat non è disincarnata,
in essa non si entra per fatalità,
ma per amore: in virtù dell’amore di Dio, anzitutto,
e in virtù di quegli atti di continua attenzione
che noi compiamo per vivere liberi da
ogni forma di ripiegamento egoistico su noi stessi.
Sì, Dio umilia i superbi e svuota i ricchi, ma
lui ci ricorda che, nella nostra libertà, siamo noi
gli strumenti del suo agire. Non ci è lecito trattenere
l’amore ricevuto in un guscio di egoismo,
in una vita senza prospettive di consegna di noi
stessi al bene di tutti.
È questa una via molto semplice, già percorsa
da tanti genitori e anziani che, guardandosi indietro
nel tempo, possono vedere e contemplare
le tracce del passaggio di Dio nella loro storia.
Anche attraverso di noi il Signore fa cose grandi!
Bisogna però saper vedere e assecondare i
tanti segni con cui Dio ci invita a “partire in fretta”
verso il bisogno di chi vive non troppo lontano
da noi. Per Maria si trattava di Elisabetta; noi
possiamo alzare lo sguardo per comprendere in
che direzione Dio ci sta chiamando a donarci
con delicata e gioiosa premura.
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Giovanni (6,41-51)
I Giudei si misero a
mormorare contro Gesù
perché aveva detto: «Io
sono il pane disceso dal
cielo». E dicevano: «Costui
non è forse Gesù, il figlio
di Giuseppe? Di lui non
conosciamo il padre e la
madre? Come dunque può
dire: “Sono disceso dal
cielo?”». Gesù rispose
loro: «Non mormorate tra
voi. Nessuno può venire a
me, se non lo attira il
Padre che mi ha mandato;
e io lo risusciterò
nell’ultimo giorno. Sta
scritto nei profeti: “E tutti
saranno istruiti da Dio”.
Chiunque ha ascoltato il
Padre e ha imparato da lui,
viene a me. [...] In verità,
in verità io vi dico: chi
crede ha la vita eterna. Io
sono il pane della vita. [...]
Se uno mangia di questo
pane vivrà in eterno».
Il segno della sua fedeltà
C’era qualcosa che, da parte dei Giudei,
bisognava voler vedere in piena libertà
in Gesù: la relazione con il Padre
«che lo ha mandato». E ancora: il Padre che
agisce anche in noi ci attrae verso Gesù, ci assimila
a lui, ci rende “figli nel Figlio” perché la
vita che è in Gesù, il primogenito di tutti i figli
di Dio, sia anche in ciascuno di noi! Questo è
il meraviglioso progetto da sempre pensato e
voluto da Dio, nella sua infinita sapienza e
nel suo immenso amore: per ciascuno di noi.
Essere liberi non solo di vedere ma anche
di prendere parte all’opera di Dio in Gesù. E
non è cosa da poco: esige una “iniziazione”,
un affidamento che ci consenta, nel tempo,
di scoprire che il Vangelo – questa splendida
notizia della speranza e della vita che abbiamo
in Dio nostro Padre – è “vero”. Vero
d’una verità che si fa esperienza di vita nuova.
In realtà solo vivendo il Vangelo, facendo
“ciò che lui ci dirà” (è l’esortazione che Maria
ci ha rivolto alle nozze di Cana) la salvezza sarà
non solo “annunciata”, ma “evento” concreto
che cambia la vita della persona.
Gli interlocutori di Gesù mostrano di non
possedere questa libertà: sono intrappolati
dalla loro stessa mente che, forse anche inconsapevole,
interrompe il desiderio di pienezza
di vita a fronte di un uomo che promette
“troppo” per ciò che a tutti appare: «È il figlio
di Giuseppe, il falegname»... è un pezzo
di pane, è un po’ di vino! Non è ciò che dice:
«Pane disceso dal cielo». Gesù ha pazienza: sa
che quanto sta dicendo di sé ha dell’incredibile
e, rivolgendosi anche a noi, duemila anni
dopo, ci chiede di lasciarci «istruire da
Dio», di non presumere che i nostri occhi
possano vedere tutto o che la nostra intelligenza
possa entrare nelle ragioni di Dio.
Entreremo
nei “perché” più profondi solo ascoltando,
credendo, dando fiducia alle parole efficaci
di Dio che hanno dato vita a tutto, hanno
suscitato i profeti, hanno rivestito di carne
nel grembo di Maria il Verbo d’amore pronunciato
fin dall’eternità e ora lo rivestono
di Pane, perché questo Gesù sia accolto come
forza di salvezza a tutti necessaria.
Occorre credere per «avere la vita di Dio»
in noi: credere che Dio vuole questo e lo realizza
in modi sempre nuovi e sorprendenti.
La manna era solo un segno: il pane per il
cammino di un giorno. L’Eucaristia è realtà
ancora più stupefacente: è il Dio-veramentecon-
noi, sul nostro stesso cammino, che condivide
attese gioie e speranze, che spinge in
avanti – verso la pienezza del bene – la nostra
storia quotidiana, che si fa “pane” e ci dona
l’energia di continuare il cammino verso
la prossima meta, fino alla “vita eterna”.
È veramente straordinario che il pensiero di
Gesù si sia rivolto fino a noi, alla Chiesa di oggi
e di domani: l’Eucaristia è e sarà sempre il segno
più alto della fedeltà amorosa di Dio all’uomo
e alla sua fame di salvezza e di gioia.
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Giovanni (24-35)
[La folla] salì sulle barche e si diresse alla volta di Cafàrnao alla ricerca di Gesù. Lo trovarono di là dal mare e gli dissero: «Rabbì, quando sei venuto qua?». Gesù rispose loro: «In verità, in verità io vi dico: voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati. Datevi da fare non per il cibo che non dura, ma per il cibo che rimane per la vita eterna e che il Figlio dell’uomo vi darà. Perché su di lui il Padre, Dio, ha messo il suo sigillo». Gli dissero allora: «Che cosa dobbiamo compiere per fare le opere di Dio?». Gesù rispose loro: «Questa è l’opera di Dio: che crediate in colui che egli ha mandato».
Affidare la vita a Cristo
Fissiamo la nostra attenzione sulla gente che si è messa alla ricerca di Gesù. È una ricerca che molte volte anche noi compiamo sia pure in modi diversi: preghiamo, leggiamo qualche libro, ascoltiamo qualcuno che ci parla del Signore, ripensiamo la nostra vita alla luce del Vangelo... Cerchiamo Gesù perché abbiamo un bisogno in fondo al cuore, un desiderio che non sappiamo ben esprimere, e che Gesù oggi vuole purificare.
Ci chiede infatti: «Perché mi cercate?». Per la verità questa è una domanda ricorrente nel Vangelo, ma il particolare interessante è che oggi Gesù mette a nudo le nostre intenzioni, a volte non sincere, non purificate alla luce della volontà di Dio. Gesù apre il cuore dei suoi interlocutori perché riconoscano che non hanno capito a fondo di che cosa era segno la cura che egli ha avuto per loro moltiplicando i pani: non mi cercate perché ho cura di voi, dice, ma perché volete che il gesto “magico” si ripeta; perché desiderate essere liberati dalla fatica quotidiana e volete la sazietà di chi si sente appagato da un bene che non è così grande e forte come il bene che io ho in serbo per voi.
E proprio qui inizia il discorso eucaristico in cui ci siamo introdotti domenica scorsa. Gesù afferma che si possono cercare due realtà, entrambe importanti, ma non entrambe decisive per la pienezza di vita e di senso che noi andiamo cercando: c’è una ricerca di cose che durano un giorno, che sfamano dal mezzogiorno alla sera, e c’è una ricerca di beni che inducono a guardare più in là e più in profondità dentro noi stessi, fino a scoprirvi il disegno di Dio, fino a sentire la sua voce che chiama alla vita eterna, alla partecipazione della sua stessa vita.
Gesù dice: «Io sono il Pane per questa vita», il Pane che colma questo desiderio che mai si assopisce se non nel compimento in noi di tutto quanto il Vangelo. Mi sembra che la gente abbia compreso bene cosa Gesù volesse dire. Lo intuisco dalla domanda che gli rivolge: «Che cosa dobbiamo compiere per fare le opere di Dio?». Sì, Gesù non vuole un ascolto passivo, ma vuole il nostro coinvolgimento nella sua obbedienza alla volontà del Padre.
Percepiamo però che questo coinvolgimento non inizia da una buona volontà umana, bensì da una grazia, da un affidamento a Colui che cambia i cuori. Proprio questo mi sembra il senso della risposta di Gesù alla domanda posta: «Questa è l’opera di Dio: che crediate in colui che egli ha mandato ». L’opera di Dio che noi possiamo compiere sta in un solo atto, essenziale e quantomai decisivo: credere, affidarsi, dare alla nostra vita una meta alta, impegnarci per un cammino che ha le sue difficoltà e fatiche ma per il quale conosciamo il segreto e la fonte della forza che ci è indispensabile. Forse proprio per questo la folla pregò Gesù, dicendo: «Signore, dacci sempre questo pane».
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