Matteo (11,25-30)
In quel tempo Gesù disse: «Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza. Tutto è stato dato a me dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo. Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero».
Nell’abbraccio del Padre
«Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro» (Mt 11,28). Come sempre la parola del Maestro risuona come una carezza consolatrice nel silenzio di un mondo, mai come oggi, in preda alla paura di non farcela. Paura della crisi economica, paura dell’inquinamento, delle catastrofi ambientali, paura delle malattie, paura di amare, di perdere le persone care, paura di vivere, paura di morire, paure umane, giustificate.
In un tempo in cui tutto appare instabile, precario, la paura di perdersi, di non saper affrontare le difficoltà della vita, è una paura che richiede un grande coraggio, non quello dei dotti e dei sapienti, ma quello dei piccoli, dei puri di cuore che con la sola forza della fede affrontano la vita nella sua verità drammatica e meravigliosa a un tempo: «Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita» (Mt 11,29).
Tutta la scienza di questo mondo non sa dare risposte a chi perde il posto di lavoro, alle famiglie che non arrivano a fine mese, ai bambini che muoiono di fame a causa di un’economia che ha fatto i suoi conti con il valore del denaro, ma non con quello della giustizia. La scienza non può fermare un terremoto, né sa guarire tutte le malattie, ma chi ha fede non ha più paura, sa che il «Signore sostiene quelli che vacillano e rialza chi è caduto» (Sal 145,14).
Anche nelle avversità vive la vita in una luce diversa, non sotto il dominio della carne, ma dello Spirito, perché lo Spirito di Dio abita in lui (cf. Rm 8,9). Chi ha fede ha il coraggio delle idee che genera democrazia, giustizia, pace; il coraggio etico che rifiuta la massificazione e smaschera la menzogna di un mondo che ci vorrebbe tutti uguali rifiutando chi è diverso; il coraggio di lottare, con le armi dell’amore, alla ricerca di sé e degli altri, nell’accettazione dei propri limiti e di quelli altrui, per darsi una mano nei giorni felici e in quelli più bui e andare insieme alla sequela di Cristo dove ogni giogo diviene soave e leggero.
In un tempo che sembra uccidere ogni speranza, chi ha il coraggio della fede, chi segue Gesù e osserva la sua Parola, sente l’abbraccio di un Padre misericordioso e pietoso che, «lento all’ira e grande nell’amore» (Sal 145,8), sconfigge ogni morte e rivela ai piccoli la gioia del suo Regno. «Nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo» (Mt 11,27) e Gesù rivelerà il suo volto a quanti con il coraggio della fede, anche nella tempesta, non avranno paura di andare controcorrente per annunciare al mondo il suo Vangelo.
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Giovanni (6,51-58)
In quel tempo, Gesù disse alla folla: «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo»
Allora i Giudei si misero a discutere aspramente fra loro: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?». Gesù disse loro: «In verità, in verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui».
Il pane del cielo
«Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui» (Gv 6,56). In quel tempo, dopo aver moltiplicato pani e pesci, il Maestro ammaestrava la folla con un linguaggio duro, suscitando non poche incomprensioni: «Come può costui darci la sua carne da mangiare? » (Gv 6,52).
Stanco di una umanità che lo seguiva per i suoi prodigi, alla ricerca di un cibo che perisce, Gesù, pronto a dare sé stesso per la vita del mondo, mette a nudo la profondità del suo essere: «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo» (Gv 6,51), il pane che dà la vita eterna, ben diverso dalla manna «che mangiarono i padri e morirono» (Gv 6,58).
Il Maestro promette di restare presente per sempre nel cuore della storia e di lì a poco, nella cena delle consegne, spezzando il pane e alzando il calice, avrebbe compiuto il suo più grande miracolo: l’istituzione dell’Eucaristia, vero cibo e vera bevanda. Il santissimo corpo e sangue di Cristo, realmente presenti in un pezzo di pane, ci consentono di partecipare alla cena del Signore. Il tempo si ferma e nel miracolo della transustanziazione, memoriale della salvezza, ogni volta che mangiamo Cristo, Cristo rimane in noi e noi in lui.
Un miracolo di cui non sempre siamo realmente consapevoli, che a volte si vela di scetticismo come per il sacerdote incredulo di Orvieto che solo dopo aver visto il sangue sgorgare dall’ostia che aveva nelle sue mani, comprese davvero. E proprio allora nacque la solennità del Corpus Domini, una festa cara alla pietà popolare che un tempo, nella semplicità dei giorni, era molto sentita. Quando le città erano a dimensione umana, anche i bambini partecipavano alle processioni, si addobbavano i balconi e si preparavano i fiori per il passaggio di Gesù Eucaristia. La solennità del Corpus Domini era una festa di colori, una festa che dava gioia perché la gente, lontana dai sofismi dei nostri giorni, con fede sincera s’inginocchiava al passaggio del Signore con cuore puro, certa della sua promessa: «Chi mangia questo pane vivrà in eterno» (Gv 6,58).
Una festa che darà gioia anche a noi se al passaggio di Gesù Eucaristia, mentre piegheremo il ginocchio dinanzi a lui, ci sentiremo davvero in comunione con il suo corpo, con il suo sangue sparso per noi in remissione dei peccati. E «poiché vi è un solo pane» (1Cor 10,17) per essere in comunione con Cristo è necessario essere in comunione con i nostri fratelli, imparando a perdonare, a spartire il pane, a condividerlo, a moltiplicarlo come fece Gesù. Non possiamo essere in comunione con Cristo se mangiamo il pane da soli, perché «noi siamo, benché molti, un solo corpo: tutti infatti partecipiamo all’unico pane» (1Cor 10,17), quello vivo, disceso dal cielo.
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Giovanni (3,16-18)
In quel tempo, disse Gesù a Nicodèmo: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio, unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio».
Provocati dal mistero
«Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito» (Gv 3,16). Nessun padre sarebbe disposto a sacrificare un figlio per la salvezza di altri, ma il Padre nostro che è nei cieli ci ama di un amore così grande, incommensurabile, incomprensibile, tanto da sacrificare il Figlio, «perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna» (Gv 3,16).
Come un padre che con il suo amore rimane accanto ai figli anche quando sono lontani, così il Padre, quando richiama a sé il Figlio per glorificarlo, fa ancora un passo verso di noi. Per rimanerci accanto, per abitare in noi, manda un altro Consolatore, lo Spirito di verità che ci insegnerà ogni cosa: «In quel giorno voi saprete che io sono nel Padre mio e voi in me e io in voi» (Gv 14,20).
Ed ecco che Dio si svela come azione d’amore, come eterna comunione tra Padre, Figlio e Spirito Santo, un Dio uno e trino, fondamento della nostra fede, della prima preghiera che ci viene insegnata da bambini con un semplice gesto, il segno della Croce, che rimanda alla
realtà in cui crediamo. Eppure la Trinità, che permea la nostra esistenza cristiana, si ri-vela
nella storia credente come mistero, che da sempre i grandi teologi hanno cercato di spiegare.
Indubbiamente è impossibile per l’uomo, infinitamente piccolo dinanzi alla grandezza del totalmente Altro, riuscire a comprendere l’essenza della Trinità, ma nemmeno sarebbe onesto sfuggire alla responsabilità di crescere nella fede senza lasciarsi provocare dal mistero del Dio trino e unico. Certo è più semplice fermarsi all’idea di un Dio onnipotente che risolve ogni problema, è più comodo abbandonarsi a fanatismi e superstizioni, che essere come viandanti in un cammino di ricerca, suffragato dall’umiltà del passo, e lasciarsi attrarre dal mistero trinitario di Dio, senza la presunzione di possederlo ma con il desiderio di esserne posseduti.
Il mistero certo rimane, ma se crediamo che «Dio è amore» (1Gv 4,8), allora forse comprendiamo che nell’unione del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo si svela il segreto
della vita: abbattere ogni barriera che divide l’umanità in ricchi e poveri, padroni e schiavi,
cittadini ed extracomunitari, sani e malati, per riscoprire nell’unità l’armonia presente all’origine del mondo.
«Il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore» (Es 34,6) guiderà i nostri passi, se ogni volta che facciamo il segno della Croce, con la semplicità di un bambino, esprimiamo la volontà di aprire la ragione al Cielo per essere con il Padre, il cuore agli altri per essere con il Figlio, di operare per il bene comune con la forza dello Spirito, vivo nel nostro agire, per sentire Dio, uno e trino, nel nostro cuore.
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Giovanni (20,19-23)
La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati».
Una tempesta d’amore
«Ricevete lo Spirito Santo» (Gv 20,22). Soffiando sui discepoli il Risorto dava vita all’uomo nuovo che, libero dalla schiavitù del passato, iniziava la sua corsa verso Dio. Pentecoste inaugura il tempo dello Spirito, che la Sacra Scrittura chiama Roah, termine ebraico, onomatopeico, il cui suono rimanda al rumore del vento nel deserto, perché l’uomo del deserto sa che solo il vento genera vita. E come il vento smuove la sabbia e rompe la staticità del paesaggio, come muove le onde del mare, come porta il polline di fiore in fiore per rigenerare la natura, così la Roah, la forza dello Spirito, dal fango genera ogni creatura: «Togli loro il respiro muoiono, e ritornano nella polvere. Mandi il tuo spirito e sono creati» (Sal 103,29).
Spesso rappresentato da una colomba, immagine riduttiva che ci porta lontano dal significato originario della Roah, lo Spirito Santo è come una tempesta d’amore che viene a lenire le nostre piaghe, a correggere i nostri passi, a vincere ogni paura, a trasformare ogni cosa. Annunciato da un rombo, con la forza di un vento gagliardo, lo Spirito Santo discese sui discepoli come lingue di fuoco a donare pace e a ricongiungere l’umanità che a Babele era stata divisa.
Un cedere quasi violento della natura fece sì che l’uomo cessasse di esistere per sé stesso
e si aprisse al linguaggio della vita: a ciascuno fu data «una manifestazione particolare dello Spirito per il bene comune» (1Cor 12,7). Unita a Cristo, mediante un solo Spirito, come le membra di un solo corpo (cf. 1Cor 12,12), l’umanità redenta parlava ora una lingua nuova, quella della comprensione universale, che non ha bisogno di parole perché tutti riconoscono il linguaggio dell’amore. Dal giorno di Pentecoste ogni credente in Gesù Cristo rincorre l’antico e mai tramontato evento di un cenacolo di paure spalancato definitivamente, rincorre le stesse parole, lo stesso desiderio: «Vieni, Spirito d’amore!».
Consapevole che il fuoco dello Spirito è capace di ristrutturare la storia, di smuovere ogni realtà stagnante e oppressiva, ogni credente leva al cielo il suo grido: «Manda il tuo Spirito, Signore, a rinnovare la terra». Un grido che sposa l’ebbrezza del salmo, un salto brioso di chi, come un bambino, cerca a mani tese di aggrapparsi al collo del padre: «Sei tanto grande, Signore, mio Dio» (Sal 103,1).
Il desiderio è legittimo, Pentecoste, fuoco dello Spirito, capace di formidabile vittoria su ogni circostanza avversa, su ogni mortale debolezza, è pronto a divorare chi lo cerca, ma chi lo cerca sa che dovrà uscire allo scoperto, venire fuori. Chi crede nel Risorto sa che Pentecoste è il tempo dell’impegno: «Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi» (Gv 20,21).
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Matteo (28,16-20)
In quel tempo, gli undici discepoli andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro indicato. Quando lo videro, si prostrarono. Essi però dubitarono. Gesù si avvicinò e disse loro: «A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo».
Ora il cielo è aperto
«Andate dunque e fate discepoli tuttii popoli» (Mt 28,19), questo il mandato affidato agli apostoli, questo il senso ultimo dell’Ascensione di nostro Signore, quando «fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi” (At 1,9).
Da quel lontano giorno la terra si è ricongiunta al cielo, il cielo è dentro la terra. Terminata la storia umana di Gesù, in Cristo la terra diviene la base per il cielo. Più volte, nella sua vicenda terrena Gesù di Nazaret aveva raccontato quanto quel cielo fosse ampio, quanto grande fosse la misericordia di Dio che lo aveva inviato nella storia umana non per condannare il mondo, ma perché il mondo riscoprisse il volto autentico della sua sostanza,
l’origine della sua esistenza.
Crocifisso per i nostri peccati, ora il Padre aveva dato al Figlio risorto «ogni potere in cielo e sulla terra» (Mt 28,18). Con l’Ascensione il Maestro di Galilea tornava a casa e i discepoli quasi si aggrapparono ai suoi piedi, forse per trattenerlo ancora, forse ancora di più per potersi sollevare insieme a lui dal suolo e correre le vie del cielo. Non più dolore, non più affanno, non più lacrime.
Il cielo è il trono di Dio, la terra il suo sgabello, qui sul suolo degli avvenimenti la vicenda umana si snoda tra gioia e dolore, tra ore esaltanti e tempo di disperazione, ma ora il cielo è aperto, finalmente la risposta è data: possiamo ritornare a casa.
Ora sta a noi intraprendere la via del ritorno: «Uomini di Galilea perché state a guardare il cielo?» (At 1,11). L’uomo fatto di terra scorge la realtà del cielo e comprende di essere parte di un progetto al quale bisogna partecipare con risposte concrete, testimonianza di cielo nell’ora della terra. Il vero cristiano è, dunque, colui che con «uno spirito di sapienza e di rivelazione» (Ef 1,17) passa dalla quieta accettazione di chi guarda il cielo alla tormentata ricerca nell’impegno terreno. È colui che, libero da tutto ciò che impedisce di respirare l’aria del cielo, va e annuncia il Vangelo per far comprendere a quale speranza siamo stati chiamati e portare conforto a chi è solo, prigioniero delle ore, in un mondo contagiato dal pessimismo, da profondi squilibri, da laceranti ingiustizie.
L’uomo di Dio non si ferma a guardare il cielo, va e affronta la vita per quello che è con la certezza del passato, la consapevolezza del presente e il futuro negli occhi.
l cristiano va e ammaestra le genti e fa discepoli per insegnare a osservare tutto ciò che Gesù ci ha comandato ed educare gli uomini a costruire sulla terra la realtà del cielo con il coraggio, la fiducia, la certezza di chi ha nel cuore le parole del Signore: «Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,20).
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