Giovanni (6,51-58)
In quel tempo, Gesù disse alla folla: «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo»
Allora i Giudei si misero a discutere aspramente fra loro: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?». Gesù disse loro: «In verità, in verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui».
Il pane del cielo
«Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui» (Gv 6,56). In quel tempo, dopo aver moltiplicato pani e pesci, il Maestro ammaestrava la folla con un linguaggio duro, suscitando non poche incomprensioni: «Come può costui darci la sua carne da mangiare? » (Gv 6,52).
Stanco di una umanità che lo seguiva per i suoi prodigi, alla ricerca di un cibo che perisce, Gesù, pronto a dare sé stesso per la vita del mondo, mette a nudo la profondità del suo essere: «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo» (Gv 6,51), il pane che dà la vita eterna, ben diverso dalla manna «che mangiarono i padri e morirono» (Gv 6,58).
Il Maestro promette di restare presente per sempre nel cuore della storia e di lì a poco, nella cena delle consegne, spezzando il pane e alzando il calice, avrebbe compiuto il suo più grande miracolo: l’istituzione dell’Eucaristia, vero cibo e vera bevanda. Il santissimo corpo e sangue di Cristo, realmente presenti in un pezzo di pane, ci consentono di partecipare alla cena del Signore. Il tempo si ferma e nel miracolo della transustanziazione, memoriale della salvezza, ogni volta che mangiamo Cristo, Cristo rimane in noi e noi in lui.
Un miracolo di cui non sempre siamo realmente consapevoli, che a volte si vela di scetticismo come per il sacerdote incredulo di Orvieto che solo dopo aver visto il sangue sgorgare dall’ostia che aveva nelle sue mani, comprese davvero. E proprio allora nacque la solennità del Corpus Domini, una festa cara alla pietà popolare che un tempo, nella semplicità dei giorni, era molto sentita. Quando le città erano a dimensione umana, anche i bambini partecipavano alle processioni, si addobbavano i balconi e si preparavano i fiori per il passaggio di Gesù Eucaristia. La solennità del Corpus Domini era una festa di colori, una festa che dava gioia perché la gente, lontana dai sofismi dei nostri giorni, con fede sincera s’inginocchiava al passaggio del Signore con cuore puro, certa della sua promessa: «Chi mangia questo pane vivrà in eterno» (Gv 6,58).
Una festa che darà gioia anche a noi se al passaggio di Gesù Eucaristia, mentre piegheremo il ginocchio dinanzi a lui, ci sentiremo davvero in comunione con il suo corpo, con il suo sangue sparso per noi in remissione dei peccati. E «poiché vi è un solo pane» (1Cor 10,17) per essere in comunione con Cristo è necessario essere in comunione con i nostri fratelli, imparando a perdonare, a spartire il pane, a condividerlo, a moltiplicarlo come fece Gesù. Non possiamo essere in comunione con Cristo se mangiamo il pane da soli, perché «noi siamo, benché molti, un solo corpo: tutti infatti partecipiamo all’unico pane» (1Cor 10,17), quello vivo, disceso dal cielo.
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