Matteo (16,21-27)
In quel tempo, Gesù cominciò a spiegare ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme e soffrire molto da parte degli anziani, dei capi dei sacerdoti e degli scribi, e venire ucciso e risorgere il terzo giorno. Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo dicendo: «Dio non voglia, Signore; questo non ti accadrà mai». Ma egli, voltandosi, disse a Pietro: «Va’ dietro a me, Satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!». Allora Gesù disse ai suoi discepoli: «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi sé stesso, prenda la sua croce e mi segua».
Una scelta decisiva
«Chi vuol salvare la propria vita, la perderà» (Mt 16,25). Il Maestro usa parole dure per spiegare il senso della sequela. La sua è una proposta che assicura la gioia di una vita nuova, che può iniziare già adesso se lasciandoci sedurre dal Signore, siamo capaci di un rinnovamento interiore. È una proposta che implica una scelta decisiva: pensare secondo Dio e trovare la vita vera o secondo gli uomini e guadagnare il mondo intero.
Certo è una scelta difficile e perfino Pietro, che aveva riconosciuto nel Cristo il «Figlio del Dio vivente » (Mt 16,16), si lascia tentare dalla mentalità del mondo e rimprovera il Maestro, pronto a essere arrestato e ucciso per la nostra salvezza, consigliandogli di lasciar perdere la sua missione e salvare il salvabile.
Un consiglio dato forse in buona fede, da amico, come uno dei tanti consigli che spesso diamo ai nostri ragazzi per aprirgli la strada dell’affermazione sociale, anche a costo di tradire ogni principio etico ed essere motivo di scandalo agli occhi di Dio.
La sequela di Cristo non ammette compromessi, perché l’unica alternativa alla verità è la menzogna e per amore della verità bisogna essere disposti anche a soffrire: «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi sé stesso, prenda la sua croce e mi segua» (Mt 16,24). In questo mondo, dove i valori veri vengono sacrificati sull’altare del benessere materiale, per seguire Cristo bisogna prendere la croce dell’onestà in tempo di corruzione, della solidarietà in tempo di individualismo, anche a discapito dei nostri interessi e correre il rischio di essere emarginati.
Indubbiamente è più facile seguire la mentalità corrente, che andare controcorrente, eppure il Maestro è stato esplicito: «Chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà » (Mt 16,25). Paolo, forte del Vangelo, sapeva provocare il mondo del suo tempo, senza concedere sconti alla verità: «Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente» (Rm 12,2).
In difesa della dignità umana, invitava i cristiani a guardare oltre gli orizzonti limitati del mondo materiale. E mai come nel nostro tempo bisognerebbe gridare con forza il suo monito, che oggi risuona come un grido di senso nel silenzio di significati. Chi, alla sequela di Cristo, si sente liberato da ogni morte è chiamato ad andare oltre la realtà legata alla terra.
Soprattutto ai più giovani, svuotati della loro coscienza e annebbiati dalle droghe, vittime ignare di una mentalità che li vuole tutti uguali, ingabbiati nella cultura del benessere, bisogna ricordare l’insegnamento del Maestro: «Quale vantaggio avrà un uomo se guadagnerà il mondo intero, ma perderà la propria vita?» (Mt 16,26).
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Matteo
(16,13-20)
In quel tempo, Gesù,
giunto nella regione
di Cesarèa di Filippo,
domandò ai suoi
discepoli: «La gente, chi
dice che sia il Figlio
dell’uomo?». Risposero:
«Alcuni dicono Giovanni
il Battista, altri Elìa, altri
Geremìa o qualcuno dei
profeti». Disse loro: «Ma
voi, chi dite che io sia?».
Rispose Simon Pietro:
«Tu sei il Cristo, il Figlio
del Dio vivente».
E Gesù gli disse: «Beato
sei tu, Simone, figlio di
Giona, perché né carne
né sangue te lo hanno
rivelato, ma il Padre mio
che è nei cieli. E io a te
dico: tu sei Pietro e su
questa pietra edificherò
la mia Chiesa e le
potenze degli inferi non
prevarranno su di essa».
Una risposta di fede
«Voi, chi dite che io sia?» (Mt 16,15).
La singolare domanda del Maestro
ai discepoli è una domanda
provocatoria che ci induce a riflettere in prima
persona sulla nostra fede. A Gesù non interessa
sapere cosa dica la gente del Figlio
dell’uomo, non gli interessano le opinioni
generiche sul suo conto. Che alcuni dicessero
che era il Battista o un qualsiasi profeta poco
gli importava, ma cosa pensassero di lui i
suoi discepoli, e chi nel tempo avrebbe deciso
di seguirlo, questo sì, gli stava a cuore.
La chiamata alla salvezza è indubbiamente
universale per rendere cattolico l’universo degli
uomini e formare nella sua Chiesa il popolo
di Dio. Tuttavia, se la chiamata è universale
il percorso che ognuno deve compiere per
entrare a far parte dell’unico popolo di Dio
non può essere un percorso massificato,
dettato dalla tradizione, dall’appartenenza a
un gruppo, a una nazione, a una cultura. Il
Maestro vuole che ognuno compia il suo singolare
percorso per rispondere in piena coscienza
alla sua domanda: «Tu, chi dici che io sia?»,
come per dire: «Chi sono io per te, quando devi
scegliere tra la mia Parola e le parole del
mondo? Quando sei felice e quando soffri?».
Essere credenti, sebbene implichi il far parte
di un unico “corpo” di cui Cristo è il capo e
noi le membra, non significa perdere la propria
individualità nel rapporto intimo con il
Signore. Alla domanda del Maestro non possiamo
rispondere con risposte precostituite,
con concetti dogmatici che a volte nemmeno
comprendiamo, né possiamo delegare
ad altri la responsabilità di rispondere per
noi di fronte ai problemi fondamentali
dell’esistenza.
Ognuno deve rispondere da
solo alla chiamata del Signore o Cristo sarà
sempre per alcuni un grande uomo, per altri
un profeta. E anche per chi, credendo di credere,
risponde che Cristo è il Figlio di Dio, se
la sua risposta non è sgorgata dal cuore, dal
travaglio interiore di chi s’interroga sulla propria
fede, anche per lui rimarrà un martire
inchiodato a una croce, incapace di dare risposte
al dolore del mondo. Credere in Gesù
di Nazaret significa credere davvero nel Risorto
che, sconfitta la morte, ha promesso
che sarebbe rimasto accanto a noi fino alla fine
del mondo.
La risposta, che Gesù vuole da noi, è dunque
una risposta difficile ma decisiva che ci
cambia l’orizzonte della vita. Certo non può
essere una risposta immediata, scaturita
dall’emozione di un momento, ma implica
un lungo percorso fatto di inciampi e di cadute.
Eppure, chi nell’ora della prova, nonostante
il dolore, sa pregare con fede:
«Signore, il tuo amore è per
sempre» (Sal 138,8) ha riconosciuto
in Cristo «il Figlio del Dio vivente
» (Mt 16,16), che mai abbandona
l’opera delle sue mani.
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Assunzione della Beata Vergine Maria
Luca (1,39-56)
Appena Elisabetta ebbe
udito il saluto di Maria,
il bambino sussultò
nel suo grembo.
Elisabetta fu colmata
di Spirito Santo ed
esclamò a gran voce:
«Benedetta tu fra
le donne e benedetto
il frutto del tuo grembo!
A che cosa devo
che la madre del mio
Signore venga da me?
Ecco, appena il tuo
saluto è giunto ai miei
orecchi, il bambino ha
sussultato di gioia nel
mio grembo. E beata
colei che ha creduto
nell’adempimento
di ciò che il Signore
le ha detto». Allora Maria
disse: «L’anima mia
magnifica il Signore
e il mio spirito esulta in
Dio, mio salvatore».
La luce della speranza
«Il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore
» (Lc 1,46). È la preghiera di Maria dopo
che Elisabetta, «piena di Spirito Santo
», benedice il frutto del suo grembo. La sua
anima ora magnifica il Signore perché comprende
che quel Figlio divino, che cresceva dentro
di lei, l’avrebbe rivestita di luce. Tutte le generazioni
l’avrebbero chiamata beata, perché
nel suo ventre prendeva carne quel Figlio
dell’uomo che avrebbe sconfitto la morte.
Per
quel Figlio, che portava in grembo, per la sua
Parola che avrebbe fatto nuove tutte le cose,
Maria comprende che l’umanità avrebbe visto
il cielo aprirsi sopra la terra. Una speranza nuova
avrebbe illuminato le attese degli uomini
ancora prigionieri dello spazio e del tempo, dimensioni
chiuse in sé stesse, impossibili da oltrepassare.
Una speranza che avrebbe aperto
all’infinito lo spazio finito e rivoluzionato il
concetto del tempo, che da nemico sarebbe diventato
amico, spazio salvifico aperto al futuro.
È il futuro che giudica la fede del giusto, di
chi sa fare i conti con il passato ma, mai prigioniero
del tempo andato, ragiona di luce anche
in tempo di tenebra. Chi, come Maria, cammina
sulla via del Signore e ascolta la sua Parola
vede dinanzi a sé la strada del cielo, quello
stesso cielo che accolse Maria, rivestita di luce,
al termine della sua vita terrena.
Il Risorto, concepito
nel suo grembo, non permise che la Madre
subisse la corruzione della carne e Maria,
madre e figlia del suo Figlio, è la prima dei figli
di Dio a essere assunta in cielo per aprire la strada
a noi tutti e farci comprendere quanto grande
è il Signore: «Santo è il suo nome: di generazione
in generazione la sua misericordia si stende
su quelli che lo temono» (Lc 1,50).
L’Assunta in cielo è un progetto d’amore,
una proposta, una sfida che chiama tutti a raccolta
nella Parola del Maestro per ri-creare un
mondo di giustizia e di pace, sull’esempio di
Maria, «benedetta tra tutte le donne», che con il
suo sì ha dato inizio alla storia della salvezza.
Forse farebbe bene a noi tutti nel tempo
della vacanza riflettere almeno per un giorno,
il giorno dell’Assunta, sul significato vero
della vita, della ricreazione che, lungi
dall’essere un tempo vuoto, può ri-creare
noi stessi, se tra riposo e divertimento lasciamo
spazio anche alla vita interiore, una vita
aperta al futuro, oltre la morte.
Nel pieno
dell’estate, mentre si festeggia ferragosto, dedicare
un pensiero alla Donna vestita di sole
può aiutarci a sentire il calore di un sole diverso,
capace di illuminare e riscaldare anche le
stagioni buie e fredde della vita.
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Matteo
(15,21-28)
Una donna Cananèa [...]
si mise a gridare: «Pietà
di me, Signore, figlio di
Davide! Mia figlia è
molto tormentata da un
demonio». [...] Egli
rispose: «Non sono stato
mandato se non alle
pecore perdute della
casa d’Israele». Ma quella
si avvicinò e si prostrò
dinanzi a lui, dicendo:
«Signore, aiutami!». Ed
egli rispose: «Non è bene
prendere il pane dei figli
e gettarlo ai cagnolini».
«È vero, Signore – disse
la donna –, eppure i
cagnolini mangiano le
briciole che cadono dalla
tavola dei loro padroni».
Allora Gesù le replicò:
«Donna, grande è la tua
fede! Avvenga per te
come desideri».
E da quell’istante sua
figlia fu guarita.
La fede unica condizione
«Pietà di me, Signore, figlio di Davide!
» (Mt 15,22) è l’accorata implorazione
di una donna Cananèa
che chiede al Maestro di guarirle la figlia tormentata
da un demonio. Ed è strano che Gesù,
sempre compassionevole di fronte al dolore,
non rivolse a quella madre in pena
«neppure una parola» (Mt 15,23).
Venuto nel
mondo a curare i peccatori e non i
giusti, come egli stesso diceva,
era sempre pronto a perdonare e
guarire ogni infermità e più volte
fa comprendere ai suoi discepoli
che il suo messaggio è per tutti senza
distinzioni di persone, come nel
caso della Maddalena, di Zaccheo,
dell’adultera che pubblicamente salva dalla
lapidazione.
Perché allora ai discepoli che lo
supplicarono di esaudire la donna, questa
volta risponde con un secco rifiuto? «Non sono
stato mandato se non alle pecore perdute
della casa di Israele» (Mt 15,24). Una risposta
in netto contrasto con il suo atteggiamento
misericordioso, che sembra contraddire il
suo insegnamento.
Il Maestro conosceva bene le Scritture e
certo sapeva quanto aveva profetizzato Isaia:
«Così dice il Signore:... la mia casa si chiamerà
casa di preghiera per tutti i popoli» (Is
56,7). Lui stesso avrebbe detto agli apostoli di
annunciare il Vangelo «a tutte le nazioni» (Mt
28,19), perché la salvezza, come recita il Salmo,
è per tutte le genti: «Ti lodino i popoli, o
Dio, ti lodino i popoli tutti» (Sal 67,4).
Eppure,
questa volta, all’insistenza della donna,
che prostrata ai suoi piedi gli chiede aiuto, il
Maestro ribadisce il suo rifiuto con parole dure:
«Non è bene prendere il pane dei figli e
gettarlo ai cagnolini» (Mt 15,26).
Possibile che Gesù rifiutasse il
miracolo a quella donna solo perché
non era della Giudea? Se così
fosse, in quell’incomprensibile e
ostinato rifiuto, avrebbe negato
la gioia del Regno a tutti i popoli che non appartengono
alla casa d’Israele.
Per comprendere l’atteggiamento del Maestro
in questa ambigua circostanza, bisogna
ricordare che nell’Antico Testamento Canaan
era ritenuto un paese pagano, di non credenti,
e pertanto il rifiuto del Maestro non è determinato
dall’appartenenza nazionale della
donna, ma dal fatto che solo un’autentica fede
in Dio può guarire da qualsiasi infermità.
Gesù afferma qui il nuovo principio del cristianesimo:
a differenza del popolo eletto, degli
ebrei che aderiscono alla loro religione
perché figli di Abramo, al nuovo popolo di
Dio può aderire chiunque, senza distinzioni
di razza, di nazione, di ceto sociale.
Unica condizione di appartenenza è la fede,
quella profonda conversione del cuore
che spinse la donna a perseverare nella sua
preghiera che di fatto viene infine esaudita:
«Donna, grande è la tua fede! Avvenga per te
come desideri» (Mt 15,28).
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Matteo (14,22-33)
Vedendolo camminare sul mare, i discepoli furono sconvolti e dissero: «È un fantasma!» e gridarono dalla paura. Ma subito Gesù parlò loro dicendo: «Coraggio, sono io, non abbiate paura!». Pietro allora gli rispose: «Signore, se sei tu, comandami di venire verso di te sulle acque». Ed egli disse: «Vieni!». Pietro scese dalla barca, si mise a camminare sulle acque e andò verso Gesù. Ma, vedendo che il vento era forte, s’impaurì e, cominciando ad affondare, gridò: «Signore, salvami!». E subito Gesù tese la mano, lo afferrò e gli disse: «Uomo di poca fede, perché hai dubitato?». Appena saliti sulla barca, il vento cessò.
L’umiltà di affidarsi
«Coraggio, sono io, non abbiate paura!» (Mt 14,27). È la risposta rassicurante che il Maestro dà ai suoi discepoli, mentre, camminando sul mare, andava verso di loro per placare il vento e le onde che agitavano la barca. «Non abbiate paura!» è la risposta che vorremmo sentire anche noi, quando travolti dalle tempeste della vita la nostra fede diviene flebile, sbiadita, come un fantasma lontano incapace di darci coraggio. Anche noi, quando le difficoltà del vivere ci soffocano, imploriamo come Pietro: «Signore, se sei tu, comandami di venire verso di te» (Mt 14,28), come per dire: «Se tu sei Dio, fammi sentire la tua presenza con un prodigio. Sollevami da terra e crederò in te».
La nostra fede, ancora immatura, ci porta a credere che la presenza di Dio debba manifestarsi in maniera spettacolare con la stessa forza di un vento impetuoso, di un terremoto o di un incendio capaci di sconvolgere la natura. La presenza di Dio, invece, è una presenza costante che si manifesta senza fare rumore, nel silenzio, nel «sussurro di una brezza leggera» (1Re 19,12).
Una presenza che sa avvertire chi nella quotidianità degli eventi, belli o brutti che siano, ha fede nella parola del Signore che sussurra al nostro cuore: «Coraggio!». Solo nella Parola, infatti, possiamo trovare le risposte che cerchiamo, la forza di andare avanti anche nei momenti più bui.
Se, al contrario, oltre la Parola ci ostiniamo a cercare segni prodigiosi, inevitabilmente il dubbio si insinuerà in noi e impauriti affonderemo nei nostri dolori. Andare verso Gesù è un camminare verso di lui con la certezza di poter attraversare il mare dell’esistenza, forti della sua Parola, anche quando il vento spira forte. Proprio nei momenti più difficili, il Signore continua a chiamarci e per darci coraggio nell’ora della prova ci ripete: «Vieni!» (Mt 14,29), ma chi, come Pietro, non si accontenta della sua Parola continua a gridare: «Signore, salvami» (Mt 14,30), senza capire che sul legno della croce il Signore ci ha già salvati da ogni morte. Il suo amore è così grande che nemmeno nel momento del dubbio ci abbandona e, quando l’acqua ci arriva alla gola, ci tende la mano e ci afferra per non lasciarci annegare nei nostri dubbi.
Se nei momenti di sconforto avessimo l’umiltà di affidarci a Dio, di aggrapparci a quella mano tesa che ci viene in soccorso, forse sentiremmo nel nostro cuore la voce del Maestro ripetere: «Uomo di poca fede, perché hai dubitato? » (Mt 14,31). Più che un rimprovero, le parole del Signore risuonerebbero come quelle di una madre che, carezzando il suo bambino, intenerita dalla sua ingenua paura del buio, lo esorta al coraggio, perché anche nel buio lei è sempre lì, pronta a proteggerlo.
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