12 giugno 2011 - Domenica di Pentecoste


Giovanni (20,19-23)


La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati».


Una tempesta d’amore

«Ricevete lo Spirito Santo» (Gv 20,22). Soffiando sui discepoli il Risorto dava vita all’uomo nuovo che, libero dalla schiavitù del passato, iniziava la sua corsa verso Dio. Pentecoste inaugura il tempo dello Spirito, che la Sacra Scrittura chiama Roah, termine ebraico, onomatopeico, il cui suono rimanda al rumore del vento nel deserto, perché l’uomo del deserto sa che solo il vento genera vita. E come il vento smuove la sabbia e rompe la staticità del paesaggio, come muove le onde del mare, come porta il polline di fiore in fiore per rigenerare la natura, così la Roah, la forza dello Spirito, dal fango genera ogni creatura: «Togli loro il respiro muoiono, e ritornano nella polvere. Mandi il tuo spirito e sono creati» (Sal 103,29).

Spesso rappresentato da una colomba, immagine riduttiva che ci porta lontano dal significato originario della Roah, lo Spirito Santo è come una tempesta d’amore che viene a lenire le nostre piaghe, a correggere i nostri passi, a vincere ogni paura, a trasformare ogni cosa. Annunciato da un rombo, con la forza di un vento gagliardo, lo Spirito Santo discese sui discepoli come lingue di fuoco a donare pace e a ricongiungere l’umanità che a Babele era stata divisa.

Un cedere quasi violento della natura fece sì che l’uomo cessasse di esistere per sé stesso
e si aprisse al linguaggio della vita: a ciascuno fu data «una manifestazione particolare dello Spirito per il bene comune» (1Cor 12,7). Unita a Cristo, mediante un solo Spirito, come le membra di un solo corpo (cf. 1Cor 12,12), l’umanità redenta parlava ora una lingua nuova, quella della comprensione universale, che non ha bisogno di parole perché tutti riconoscono il linguaggio dell’amore. Dal giorno di Pentecoste ogni credente in Gesù Cristo rincorre l’antico e mai tramontato evento di un cenacolo di paure spalancato definitivamente, rincorre le stesse parole, lo stesso desiderio: «Vieni, Spirito d’amore!».

Consapevole che il fuoco dello Spirito è capace di ristrutturare la storia, di smuovere ogni realtà stagnante e oppressiva, ogni credente leva al cielo il suo grido: «Manda il tuo Spirito, Signore, a rinnovare la terra». Un grido che sposa l’ebbrezza del salmo, un salto brioso di chi, come un bambino, cerca a mani tese di aggrapparsi al collo del padre: «Sei tanto grande, Signore, mio Dio» (Sal 103,1).

Il desiderio è legittimo, Pentecoste, fuoco dello Spirito, capace di formidabile vittoria su ogni circostanza avversa, su ogni mortale debolezza, è pronto a divorare chi lo cerca, ma chi lo cerca sa che dovrà uscire allo scoperto, venire fuori. Chi crede nel Risorto sa che Pentecoste è il tempo dell’impegno: «Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi» (Gv 20,21).

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In queste pagine potete trovare il commento alla liturgia domenicale e festiva secondo il RITO ROMANO, curata dal cardinale Dionigi Tettamanzi. 

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