Santissimo corpo e sangue di Cristo
Marco (14,12-16.22-26)
[...] I discepoli andarono e, entrati in città, trovarono come aveva detto loro e prepararono la Pasqua. Mentre mangiavano, prese il pane e recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro, dicendo: «Prendete, questo è il mio corpo». Poi prese un calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. E disse loro: «Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti. In verità io vi dico che non berrò mai più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo, nel regno di Dio». Dopo aver cantato l’inno, uscirono verso il monte degli Ulivi.
La vittoria dell’amore
Quando si immolava la Pasqua, cioè mentre veniva ucciso l’agnello offerto al tempio per il perdono dei peccati di tutto il popolo, segno della liberazione da una schiavitù antica, quella dell’Egitto, ma mai dimenticata: sia perché durata quattrocento anni, e sia perché – nella forma di una disobbedienza quotidiana alla legge del Signore – era una schiavitù tuttora in atto. Proprio in questo momento, secondo l’evangelista Marco, Gesù anticipa la propria morte. Lo fa con un gesto assai semplice, ma capace di farci cogliere diversi contenuti della nostra fede pasquale: Gesù si dà in un pane spezzato, di cui dice «è il mio corpo», e in un calice di vino, di cui dice «è il mio sangue».
Corpo spezzato e sangue versato: non poteva esserci allusione più chiara alla propria morte, ormai così vicina. Il suo è un gesto di suprema libertà e di totale confidenza. Gesù dice infatti ai suoi amici: «Nessuno mi toglie la vita, ma io stesso la offro per voi»; anzi, mi sostituisco all’agnello ucciso oggi nel tempio perché sappiate che sono io – il Battista non lo aveva anticipato con grande chiarezza? – il vero agnello sacrificale, che prende su di sé il peccato del mondo.
Celebriamo, come è tradizione, la festa del Corpus Domini a ridosso della grande solennità della Pasqua. Una scelta, questa, che ci richiama alla memoria l’immagine dell’Apocalisse che descrive l’agnello come sgozzato, ma vivo e ritto sul trono. È dunque pienamente vittorioso nell’amore sconfinato di Dio, perché se è vero che l’amore vince su tutto, anche sul male, Gesù ha offerto a noi, nel suo corpo crocifisso, «l’amore più grande che dà la vita per i suoi amici».
Ecco, dunque, che cosa celebriamo in questa festa: certamente la reale presenza di Gesù nell’Eucaristia e insieme la necessità da parte nostra di essere presenti davanti a questo inimmaginabile dono d’amore in un atteggiamento di preghiera, di adorazione, di riconoscimento grato e gioioso del dono che ci è stato dato. È necessario però non dimenticare che lo stesso dono noi lo riceviamo tuttora, proprio come quella sera in cui Gesù a tavola ci offrì il “segno” più chiaro del suo amore: anche oggi egli dice: «Sono qui per te, sono qui con te, con te e con tutti i tuoi fratelli; ti faccio dono della Chiesa».
Mistero questo ancora più straordinario perché chiude il cerchio dell’offerta di sé, da parte di Gesù, nel pane e nel vino che ogni domenica anche noi portiamo all’altare: lì egli si offre ancora, facendoci ripetere le sue parole che contengono l’esortazione a «fare in memoria di lui» con il gesto dello spezzare il pane e del versare il vino. Esattamente in questi gesti i primi discepoli riconoscevano il Risorto che li rimandava da Emmaus, tappa della loro fuga da Gerusalemme, alla comunità là rimasta, indecisa e impaurita. In questi stessi gesti Gesù ancora ci riunisce e ci manda in missione, con il cuore in pace, con il Vangelo sulle labbra e nei gesti concreti della vita d’ogni giorno.
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