17 aprile 2011 - Domenica delle Palme


Matteo (26,14-27,66)

A mezzogiorno si fece buio su tutta la terra, fino alle tre del pomeriggio. Verso le tre, Gesù gridò a gran voce: «Elì, Elì, lemà sabactàni?», che significa: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». Udendo questo, alcuni dei presenti dicevano: «Costui chiama Elia». E subito uno di loro corse a prendere una spugna, la inzuppò di aceto, la fissò su una canna e gli dava da bere. Gli altri dicevano: «Lascia! Vediamo se viene Elia a salvarlo!». Ma Gesù di nuovo gridò a gran voce ed emise lo spirito.


Se tu sei il Figlio di Dio

«Elì, Elì, lemà sabactàni?» (Mt 27,45) è il grido scandaloso di Gesù, l’unico verso del Vangelo conservato intatto che nessuno ha avuto il coraggio di tradurre. «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mt 27,46) è la protesta del Figlio dell’uomo e dell’umanità tutta che di fronte alla morte rimane sconfitta. A nulla servono tutti i beni della terra, se poi inevitabilmente la vita viene meno.

A nulla era servito al Maestro l’ingresso trionfante a Gerusalemme, se poi venne trattato come il più infimo dei malfattori: «Ho presentato il dorso ai flagellatori, la guancia a coloro che mi strappavano la barba; non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi» (Is 50,6). Crocifisso, fu issato in alto, affinché fosse visibile a imperitura memoria la sua colpa: si era fatto re dei Giudei. Issato su, con il suo dolore, gridò inascoltato la propria innocenza, senza rifiutarsi di bere fino in fondo il calice amaro del tradimento. Fu issato su, in alto, come il serpente di bronzo nel deserto degli uomini, perché si potesse guardare a colui che sarebbe stato trafitto per far germogliare la nuova umanità.

Eppure, ai piedi della croce, più della compassione vinse la vendetta. Lo schernirono senza pietà: «Se tu sei Figlio di Dio, scendi dalla croce!» (Mt 27,40), come a dire: «Crederemo in te se ci dimostrerai che la morte non ti appartiene». Ma Gesù non cede alla provocazione: «Pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma... umiliò sé stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce» (Fil 2,6-8).

No, Gesù non scende dalla croce: nudo come alla nascita, quando la terra lo accolse ricco della sua povertà, affidato il suo spirito nelle mani del Padre, ora era pronto a morire per nascere di nuovo. Gesù sapeva che la morte è il fallimento dell’uomo, ma anche di Dio se la morte è per sempre. Sapeva che quella croce era l’unica via per tracciare il percorso di una nuova fede che conduce alla verità. Se un Dio vive mentre i suoi figli muoiono è un Dio potente, ma tiranno; un Dio che invece protesta nella carne del Figlio contro la morte è un Dio compagno, è un Padre di cui ci si può fidare per sperare nel proprio riscatto.

Inchiodato alla croce, mentre il cielo si oscurava su tutta la terra, il Cristo illuminava di nuova luce il passato, il presente e il futuro dell’umanità: sanava il peccato passato che aveva compromesso il sodalizio con il cielo, ripristinava nel presente quel dialogo interrotto, donava a tutti gli uomini la speranza di una vita futura, grazie al suo amore. «Per questo Dio l’ha esaltato... perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra» (Fil 2,9-10).

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In queste pagine potete trovare il commento alla liturgia domenicale e festiva secondo il RITO ROMANO, curata dal cardinale Dionigi Tettamanzi. 

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