di Card. Tettamanzi
In queste pagine potete trovare il commento alla liturgia domenicale e festiva secondo il RITO ROMANO, curata dal cardinale Dionigi Tettamanzi.
Luca (7,11-17)
Gesù si recò in una città chiamata Nain, e con lui camminavano i suoi discepoli e una grande folla. Quando fu vicino alla porta della città, ecco, veniva portato alla tomba un morto, unico figlio di una madre rimasta vedova; e molta gente della città era con lei. Vedendola, il Signore fu preso da grande compassione per lei e le disse: «Non piangere!». Si avvicinò e toccò la bara, mentre i portatori si fermarono. Poi disse: «Ragazzo, dico a te, àlzati!». Il morto si mise seduto e cominciò a parlare. Ed egli lo restituì a sua madre. Tutti furono presi da timore e glorificavano Dio, dicendo: «Un grande profeta è sorto tra noi», e: «Dio ha visitato il suo popolo».
Speranza rinnovata
I particolari del Vangelo di oggi ci invitano a una lettura attenta evitando, come a volte accade, di dire «so già» di che cosa si tratta, «so già» come va a finire. Vediamo Gesù entrare in una città all’insaputa di tutti, con molta folla al seguito. C’è dunque un corteo festoso dietro al Signore che si imbatte in un altro corteo intensamente drammatico: quello del funerale di un ragazzo, unico figlio di una donna rimasta sola. Anche a noi succede di attraversare un paese e imbatterci in una coda di automobili.
Poco più avanti, la gente cammina lentamente verso la chiesa o il cimitero: rischiamo di rimanere infastiditi da una manifestazione che potrebbe essere evitata (in effetti lo “spettacolo” della morte sta scomparendo dalle nostre città: e questo è un ulteriore elemento che porta a dimenticarci quanto siamo fragili e a crederci invece onnipotenti e immortali). Gesù non evita mai il faccia a faccia con il dramma umano: lo incontra, lo assume su di sé, vi si coinvolge fino alla compassione, fino a patire con chi patisce e a dire una parola particolare, sino a dare un ordine che ci lascia sorpresi: «Non piangere».
Ma come si fa a non piangere nei momenti in cui ci si rende conto che la solitudine sta travolgendo l’esistenza da tempo precaria di una donna già provata dal lutto? Sappiamo tutti che, ai tempi di Gesù, una donna rimasta sola non aveva difese e dipendeva in tutto dagli altri, spesso costretta a chiedere l’elemosina girando le case di parenti e amici: ulteriore umiliazione nella penosa solitudine...
Gesù non spiega questa sua richiesta di trattenere il pianto, lui che si è commosso profondamente per l’amico Lazzaro. Si avvicina alla bara e, toccandola, dice parole che risvegliano non solo il ragazzo dalla morte, ma ciascuno di noi dalla più quotidiana rassegnazione che della morte può essere un simbolo: «Lo dico a te: alzati!». Immaginiamo di mettere il nostro nome in questo comando: «Lo dico a te: alzati!». Ma quale “morte” abbiamo dentro di noi?
Dopo tre mesi dall’elezione di papa Francesco vorrei richiamarmi a uno dei suoi primi discorsi: alzando lo sguardo dal foglio scritto e guardando la piazza gremita di gente ha detto con forza che «non dobbiamo lasciarci rubare la speranza ». Lo ha detto a tutti, in particolare ai giovani. In realtà, quando la speranza vien meno si fa esperienza di una specie di morte dell’anima: la morte del coraggio e della fiducia.
«Così non va!» (sono ancora parole del Papa dette ai cardinali): bisogna risorgere attraverso una preghiera semplice che il Vangelo stesso ci insegna: «Io credo, Signore, ma tu aiuta la mia incredulità» (Mc 9,24). A questo punto Gesù è già lì a prenderci per mano e a restituirci ciò che nel male abbiamo perduto: la dignità di uomini viventi per la gloria di Dio.
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Luca (9,11b-17)
Gesù disse loro: «Voi stessi date loro da mangiare». Ma essi risposero: «Non abbiamo che cinque pani e due pesci, a meno che non andiamo noi a comprare viveri per tutta questa gente». C’erano infatti circa cinquemila uomini. Egli disse ai suoi discepoli: «Fateli sedere a gruppi di cinquanta circa». Fecero così e li fecero sedere tutti quanti. Egli prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò su di essi la benedizione, li spezzò e li dava ai discepoli perché li distribuissero alla folla. Tutti mangiarono a sazietà e furono portati via i pezzi loro avanzati: dodici ceste.
La sorgente dell’amore
Ci sono come tre “liturgie” la cui celebrazione ci viene suggerita da questo brano di Vangelo: la Parola, la Carità, il Pane. Per vederle serve lo sguardo attento, profondo, interessato a quanto accade attorno a Gesù. Gli apostoli, tornati da una missione impegnativa, sono invitati dal Maestro a riposarsi, in un luogo appartato. La gente però ha bisogno del Signore: lo cerca per ascoltarne la Parola. Anche noi siamo invitati a verificare le ragioni per le quali cerchiamo il Signore: è davvero per quello che ci vuole dire e chiedere? Fondamentale e decisivo è l’ascolto: nel Vangelo l’ascolto è sempre all’inizio di tutte le grandi cose! Gesù asseconda questo desiderio e offre la sua Parola alla gente radunata. Poi va oltre: guarda questa folla e vede le sue sofferenze fisiche. Vede e le guarisce.
Ancora più in profondità, Gesù vede anche nel cuore di questa gente e porge la sua Consolazione. Gli apostoli imparano così da Gesù ad avvertire i bisogni della gente. Si accorgono che non c’è pane in quel luogo isolato. Si accorgono e sanno di poter far poco o nulla. Ecco allora il suggerimento che danno a Gesù: «Congeda la folla perché vada nei villaggi e nelle campagne per trovare cibo». Quanto essi chiedono è segno di sensibilità, che Gesù non solo coglie facendola sua, ma sviluppa proponendo un impegno che i suoi amici devono assumersi per dare risposta al bisogno. Di fronte poi all’effettiva impossibilità per i suoi apostoli di dare da mangiare a tutti, Gesù compie il miracolo: ecco un pane, che tutti sazia e in abbondanza! E come era evidente la prima “liturgia” – quella di Gesù che parla alla folla – così è evidente anche la seconda: quella di Gesù che guarisce e consola.
In effetti, senza la carità operosa, senza lo sguardo misericordioso come quello di Gesù sull’umanità, nessun’altra liturgia è vera e lecita. Lo ricorda san Paolo alla comunità di Corinto che ha dimenticato le regole elementari della solidarietà e della condivisione: «Il vostro non è più un mangiare la cena del Signore. Ciascuno infatti, quando siete a tavola, comincia a prendere il proprio pasto e così uno ha fame, l’altro è ubriaco» (1Cor 11,20).
Solo dopo aver ascoltato il Signore Gesù e aver agito secondo la sua Parola, solo quando tutti abbiamo imparato a condividere nella carità così che il povero non venga ignorato, solo allora entriamo nell’Eucaristia, nella più perfetta liturgia di rendimento di grazie a Dio per il dono della salvezza. C’è un ultimo passaggio, che accosta con evidenza incontrovertibile questa narrazione evangelica all’Eucaristia. Facciamoci attenti ai gesti compiuti da Gesù: «Egli prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò su di essi la benedizione, li spezzò e li dava ai discepoli perché li distribuissero alla folla».
È l’ultima cena? Sì e no. È comunque la vita quotidiana della Chiesa, che tutto riceve dal Signore e tutto restituisce nella carità, che rende grazie all’amore di Dio e che fa di quest’amore la sorgente e la forza dell’amore fraterno di tutti i suoi figli: di ciascuno di noi. E così il miracolo del pane continua nella nostra storia, in ogni ambiente di vita.
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Giovanni (16,12-15)
In quel tempo, disse Gesù ai suoi discepoli: «Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando verrà lui, lo Spirito di verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da sé stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future. Egli mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà. Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà».
La grazia della santità
Gesù ha davvero portato a termine, sino in fondo, la sua missione? Per quanto strana può essere la domanda, credo di poter rispondere in due modi diversi: sì, Gesù ha “compiuto tutto” nella sua morte e risurrezione e Dio ha riversato la sua misericordia sull’umanità in modo sovrabbondante, pieno, del tutto certo. D’altra parte questa missione sembra affidata anche a una “capacità di portarne il peso” che lo stesso Gesù ritiene per noi insopportabile. In realtà, egli ha ancora molte cose da dirci e da confidarci da parte del Padre: ma sarà lo Spirito Santo a guidarci verso quel compimento che è stato affidato alla Chiesa sottomessa all’azione dello stesso Spirito. Sì, è lo Spirito che ci «guiderà a tutta la verità», ben oltre dunque ai frammenti di essa che riusciamo a cogliere timidamente nelle nostre riflessioni e persino nella nostra preghiera.
Ma cos’è questa “verità piena” alla quale ora noi non possiamo attingere da soli? Non credo si tratti di uno sforzo della nostra intelligenza, che non riuscirà mai a cogliere l’intero mistero che di sé Dio ha rivelato in innumerevoli vicende umane lungo la storia della salvezza. Sant’Agostino paragonava questo sforzo (comprendere il Dio uno e trino) alla pretesa innocente di un bambino di mettere tutta l’acqua del mare in una buca da lui scavata sulla spiaggia! La verità «tutta intera» penso sia, più semplicemente, la stessa vita cristiana, ossia la possibilità e la grazia della santità: questa, infatti, propone al mondo il volto stesso di Gesù stampato sui nostri volti, incarnato nelle nostre azioni, rischiarato dalla luminosa chiarezza di una vita che sa quanto vale e per cosa è da spendere: una vita che è immersa nella vita stessa di Dio.
Gesù ci ha detto: «Io sono la verità». Ossia: io manifesto in pienezza tutto l’amore del Padre e chi tende alla verità nella sua pienezza tende a me, tende a imitare una vita non mai portata a compimento prima della Croce, non mai immaginata per la straordinaria efficacia di salvezza che in sé racchiude. Solo Dio, impensabile per ciò che di lui Gesù ci ha rivelato, può essere questa pienezza. E solo per grazia Dio ci riempie di sé ogni giorno, parlandoci in Gesù e sostenendoci con il suo Spirito di sapienza e di fortezza, di sapore e di vita intensa: di vita divina. Nel Vangelo di oggi rimane sospesa ancora una domanda: che cosa sono «le cose future» che lo Spirito ci annuncerà? Non credo si tratti di eventi nuovi o di sconvolgimenti della realtà che vanno oltre la sostanza di quanto già ci è stato rivelato dal Vangelo. Credo piuttosto che queste «cose future» siano già presenti in noi, in germe.
Gli studiosi al riguardo parlano di “escatologia”, una parola difficile che significa una realtà semplicissima: chi siamo veramente noi, già ora, alla luce di Gesù e del suo Vangelo? E quando la risposta a questa domanda risulterà chiara davanti a tutto il mondo? Che cosa resterà di noi, alla fine, davanti a Dio? Resterà l’amore stesso della Trinità riversato nei nostri cuori e accolto come talento da trafficare, come dono e bene da accrescere davanti a tutti e per il bene di tutti.
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Giovanni (14,15-16.23b-26)
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Se mi amate, osserverete i miei comandamenti; io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre. Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui. Chi non mi ama, non osserva le mie parole; e la parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato. Vi ho detto queste cose mentre sono ancora presso di voi. Ma il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto».
La forza dell’amore
Gesù dice ai suoi amici che la vera forza dell’obbedienza sta nell’amore: «Se mi amate, osserverete i miei comandamenti». Certamente si può obbedire anche per paura di una punizione: ma questo non è il cristianesimo, non è secondo lo Spirito che anima la nostra fede. Lo Spirito di Pentecoste, per cui Gesù ha pregato il Padre, è “il Paràclito”, il Consolatore, colui che vince ogni paura. Non ci è consentito presentare un Dio che spaventa: il Dio di Gesù ci viene incontro, spalanca il cuore, apre le braccia, accoglie ciascuno di noi e ci offre la forza di amarlo nell’obbedienza al Vangelo anche nelle situazioni più pesanti e faticose. Tra il nostro desiderio del bene e la difficoltà di dover sempre e di nuovo sconfiggere il male, possiamo sperimentare la certezza piena di essere amati dall’Amore: «Il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui».
Questa promessa genera, anima e fortifica il nostro coraggio: «Lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che vi ho detto». L’obbedienza è una virtù, ma in profondità è una viva e singolare relazione tra persone. Se autentica, essa è ascolto attento e amorevole di qualcuno. È quanto avviene nelle nostre relazioni quotidiane: pensiamo agli sposi che si prestano reciproco sostegno (si amano) solo se riescono a guardarsi negli occhi, a sondare il cuore dell’altro e ad andare verso di lui con disponibilità. Sì, per essere buone le nostre relazioni devono avere questa “comprensione” dell’altro. Gesù per primo la esige da noi e in sommo grado.
La Pentecoste è l’effusione dello Spirito che rende fiduciosi e coraggiosi in questa obbedienza. Prima di questa effusione Pietro, pur amando Gesù, è timoroso, non riesce ad andare oltre la soglia di casa in obbedienza al comando «Mi sarete testimoni sino agli estremi confini della terra». Trattenuto dalla paura, Pietro non ha la forza di obbedire, non sa neppure che via prendere per realizzare la missione affidatagli. È solo lo Spirito a rendere efficace l’amore ancora timido e incerto di Pietro. È solo lo Spirito a consegnarlo alle piazze e a esporlo davanti al mondo perché spenda tutto sé stesso per la missione ricevuta – lui e gli altri apostoli – dal Signore risorto: «Andate, annunciate », come abbiamo ascoltato nel Vangelo di domenica scorsa. Invochiamo la forza di amare: quella forza che, come ha reso obbediente Gesù alla volontà del Padre, così continua ad agire oggi nella Chiesa e su ciascuno di noi, posti come siamo in un mondo duro e difficile.
Allo Spirito chiediamo, non tanto di rendere più malleabile il mondo, quanto di rendere noi stessi pienamente certi della forza che risiede nell’amore. Con le nostre decisioni e scelte quotidiane possiamo testimoniare che proprio nell’obbedienza per amore a Gesù e al suo Vangelo stanno la possibilità e la gioia di una vita buona.
Non dimentichiamo che ogni parolacomandamento di Gesù ha per noi un grande valore: non è mai un peso, ma è sempre una grazia, sempre una possibilità di migliorare il mondo passando attraverso “la porta della fede”, oltre la quale gli orizzonti di bene sono certi e sconfinati perché lo Spirito rimane «con noi per sempre».
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Luca (24,46-53)
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni. Ed ecco, io mando su di voi colui che il Padre mio ha promesso; ma voi restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall’alto». Poi li condusse fuori verso Betània e, alzate le mani, li benedisse. Mentre li benediceva, si staccò da loro e veniva portato su, in cielo. Ed essi si prostrarono davanti a lui; poi tornarono a Gerusalemme con grande gioia e stavano sempre nel tempio lodando Dio.
Il cammino della Chiesa
Che cosa bisogna dire di Gesù? Certamente tanto: ogni narrazione evangelica, ogni suo discorso, ogni gesto compiuto hanno significati altissimi per l’umanità, al punto che è difficile trovare persone, anche tra i non credenti, che non si identifichino in qualcuna delle sue parole. Gesù però, nel Vangelo d’oggi, attira l’attenzione di tutti noi su tre eventi fondamentali della nostra fede: la sua morte, la sua risurrezione e la predicazione apostolica. «Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati». Qui stanno le radici vive e vivificanti dell’albero buono piantato nel mondo dal Figlio di Dio la cui parola, i cui gesti, la cui morte e risurrezione hanno una forza di salvezza piena, sovrabbondante per l’umanità.
Nelle scorse domeniche la liturgia ci ha guidato a meditare a lungo sulla morte e risurrezione del Signore. Oggi vorrei riflettere con voi sul valore e sulla necessità della predicazione e della testimonianza che Gesù ha affidato agli apostoli poco prima della sua Ascensione. È questa una missione che continua ancora oggi nella Chiesa che noi crediamo e proclamiamo “apostolica”, radicata cioè e plasmata nell’esperienza degli apostoli che sono vissuti con Gesù dal suo Battesimo al Giordano sino alla sua Ascensione.
La predicazione apostolica inizia così: Gesù, dopo essere stato «portato su, in cielo», affida ai suoi amici la responsabilità di rendere certo ogni uomo che la propria conversione ha come esito «il perdono dei peccati». Il male, dunque, non ha vinto e non può né potrà mai vincere perché lui, il Signore Gesù, l’ha totalmente sottomesso a sé. E così nella buona volontà di Dio si spalanca davanti alla Chiesa apostolica un cammino quantomai impegnativo.
Nessuna paura, però, perché Gesù la rassicura: «Io mando su di voi colui che il Padre mio ha promesso»; e ancora: sarete «rivestiti di potenza dall’alto». È il dono dello Spirito Santo. E frutto di questo dono alla Chiesa, di allora e di sempre, sarà un procedere verso la verità, la bellezza e la gioia del bene per ogni uomo e per il mondo intero. Dall’Ascensione in poi la Chiesa è fedele al compito ricevuto: attratta dalla parola di Dio e dall’Eucaristia, testimonia in mezzo agli uomini la meta beatificante del loro sperare quotidiano. E nella Chiesa, in particolare, i “fedeli laici” annunciano Cristo risorto nella loro famiglia, nella comunità cui appartengono, nei diversi ambienti di vita, sul lavoro.
È attraverso la comunione e la specificità che lo Spirito suscita in ciascuna vocazione che la Chiesa realizza la «predicazione del Vangelo a tutti i popoli»: la realizza e la realizzerà fino al ritorno del Signore. È infatti «nell’attesa della sua venuta», tenuta desta e vibrante dallo Spirito, che noi tutti viviamo. Non stanchiamoci allora di invocare lo Spirito promesso da Gesù mentre ci prepariamo all’imminente Pentecoste. Chiediamo, umili e fiduciosi, di essere sicuri della presenza di Gesù, l’unico e universale salvatore, sulle strade del nostro vissuto quotidiano.
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Giovanni (14,23-29)
In quel tempo, Gesù disse (ai suoi discepoli): «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui. Chi non mi ama, non osserva le mie parole; e la parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato. Vi ho detto queste cose mentre sono ancora presso di voi. Ma il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto. Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi. Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore».
I frutti della Pasqua
Perché è “bello” e quindi “ci conviene” essere cristiani? Può sembrare una domanda strana. Ma rimanda a una questione seria: «Perché fare del Vangelo la regola di vita»? Anche Pietro aveva posto al Signore Gesù una domanda simile: «Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito; cosa ne avremo in cambio?» (Mt 19,27). Se comprendiamo bene, ci rendiamo conto che quanto avremo in cambio non è un dono facile da “gestire”. Gesù infatti ci dice: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola». E ciò significa che il contenuto e la prova del nostro amore verso il Signore stanno nell’obbedienza, il cui esito non è la tristezza di aver legato la nostra libertà alla volontà di un altro, ma è il fatto gioioso che saremo ripagati con un amore ancora più grande di quello che abbiamo sinora vissuto: saremo coinvolti in “un crescendo di grazia” che qualifica la nostra vita come “Vita di Dio in noi”.
È esattamente il senso radicale delle parole di Gesù: «Il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui». Con il passare del tempo, mi accorgo che di tutto questo “mistero d’amore” riesco ad assaporare qualche “anticipo”, più o meno grande: così quando ripenso al mio servizio di sacerdote e di vescovo, o immagino quanto ciascuna mamma e ciascun papà possono assaporare di consolante nello spendere la propria vita, nel vedere vinte le mezze misure, nell’accogliere, nel perdonare, nel donare di più. Al di là di inevitabili momenti difficili o di prova – anzi proprio dentro questi momenti –, se si riesce a camminare, condividere e pregare insieme, si avverte che in noi non c’è solo una forza che supera le nostre abilità umane e che sta al di là dei nostri piani ben predisposti; c’è soprattutto una “presenza” che ci fa sentire di essere accolti e amati: è Dio stesso che viene a stare con noi quando amiamo, ossia viviamo con semplicità la nostra vocazione.
È lo Spirito di Gesù a certificare che le nostre scelte e i nostri gesti d’amore sono davvero “benedetti” perché ricevono da Dio il dono della pace: «Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi». Dunque non la semplice assenza di discussioni e di litigi, non la sola tranquillità – del resto così fragile – del vivere protetti, ma la pace che nasce dalla certezza che Dio ci sta apprezzando come figli, che quando lo invochiamo è già con noi per sorreggere i nostri propositi buoni e la nostra “ostinazione” nel bene. Questo è uno dei frutti della Pasqua cristiana: l’esultanza pasquale. Ma che significa esultare con e nel Signore risorto? Significa che questa esultanza non è qualcosa di sospeso a una fede il cui frutto è rimandato e riservato al futuro, quasi per trascinare sempre più in là la nostra disponibilità ad agire secondo la “regola di vita” del Vangelo.
No, il Vangelo, la buona notizia annuncia e porta a compimento il fatto che, proprio rimanendo nel dono di questa pace, si vive e si sperimenta nel presente un vero e profondo gaudio interiore. Questa gioia è il segno della presenza del Regno di Dio, promesso sì nella sua pienezza futura, ma già sin d’ora operante.
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Giovanni (13,31-33a.34-35)
Quando Giuda fu uscito (dal cenacolo), Gesù disse: «Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato, e Dio è stato glorificato in lui. Se Dio è stato glorificato in lui, anche Dio lo glorificherà da parte sua e lo glorificherà subito. Figlioli, ancora per poco sono con voi. Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avete amore gli uni per gli altri».
Amare fino alla fine
L’evangelista Giovanni non ci offre il racconto dell’ultima cena, ma – oltre a lasciarci un appassionato discorso di Gesù sul “Pane di vita” – ci presenta in un modo straordinariamente efficace il comandamento dell’amore proprio là dove gli altri evangelisti narrano il gesto con cui il Signore si consegna a noi nel Pane e nel Vino: «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri». Non però un amore a cui siamo istintivamente predisposti.
Quello che Gesù esige da noi presuppone una decisa e impegnativa purificazione del cuore da ogni forma di attaccamento a sé stessi, alla logica mondana del possedere e del dominare l’altro: le persone, le cose, gli eventi della storia. Il Vangelo di oggi inizia là dove Gesù, lavati i piedi ai suoi apostoli, chiede una piena condivisione del suo gesto, segno di quella fraternità che riconosce nell’altro, tanto quanto in sé stessi, la dignità che viene donata da Dio, al quale – rileviamo subito – non si arriva mai da soli, ignorando questa fondamentale domanda che ci rivolge: «Dov’è il povero nel quale mi sono identificato?».
Gesù poi, annunciato il tradimento da parte di un apostolo («uno di voi»), attende che Giuda esca dal cenacolo e, senza nulla nascondere ai suoi di quanto sta per accadere, si mette a parlare della sua morte come della glorificazione propria e del Padre: alla disponibilità di Gesù a farsi obbediente fino alla morte di croce corrisponde, da parte del Padre, la restituzione al Figlio crocifisso di quella gloria che la stessa Croce ha tenuto “nascosta”. Croce e risurrezione, obbedienza e gloria si ritrovano e percorrono la medesima strada esigendo da Gesù, tanto quanto da noi, lo stesso sacrificio.
Un sacrificio che è via alla santità, alla perfetta appartenenza a Dio Padre che vede il volto del Figlio nel nostro stesso volto. Sì, la gloria di Dio è l’uomo che vive per il suo Signore, riconosciuto e amato in ogni frammento del quotidiano, sempre nell’impegno di realizzare la sua volontà d’amore su ciascun uomo, per quanto peccatore. La via di questa glorificazione non può che essere l’amore per l’altro. Gesù se ne va al Padre passando attraverso il dono totale di sé, ma resta presente in ogni atto con cui noi, non accettando né compromessi né ribassamenti di profilo, amiamo «sino alla fine», come lui ha amato.
L’amore che più si avvicina a questo è l’amore di una madre e di un padre per il loro bambino: può arrivare sino allo strazio per difendere quella vita! E, da ultimo, possiamo capire bene, dalle parole stesse di Gesù, che questo amore è il vertice della testimonianza cristiana: «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri ».
Nell’Anno della fede non è superfluo richiamarci l’un l’altro l’assoluta necessità dell’amore (Gesù l’ha sottolineata attraverso un vero e proprio imperativo: «Amatevi»): senza amore la fede è morta in sé stessa e noi non possiamo dirci cristiani! Il giudizio di Dio e la verifica della nostra fede rimandano a questo preciso criterio: l’aver vissuto sino alla fine imitando il Signore Gesù che ama facendosi servo umile e forte della volontà di Dio.
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Giovanni (10,27-30)
In quel tempo, Gesù disse: «Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano. Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. Io e il Padre siamo una cosa sola».
La vita di Dio in noi
C’è un’intensissima intimità in queste parole di Gesù ai suoi amici che lo ascoltano e lo seguono: «Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono ». Gesù parla di sé e di noi, di come siamo stati arricchiti e avvinti a lui nella sua Pasqua, delle certezze che ormai devono ispirare e sostenere le nostre esistenze, prima tra tutte la certezza di essere nelle mani del Padre: di colui del quale Gesù ha compiuto sino in fondo la volontà, unendo così alla passione di Dio per l’uomo la sua stessa passione e morte e risurrezione. Il breve brano di Vangelo che oggi leggiamo va osservato, per così dire, con uno sguardo amorevole, perché fa risuonare parole che vengono dal “cuore” del Signore.
Contiene indicazioni su cosa noi dobbiamo fare e sulla grandezza e bellezza del dono al quale siamo chiamati a rispondere in pienezza di libertà e responsabilità. E dal momento che ogni autentica libertà è frutto dell’assunzione di responsabilità precise, cerchiamo di comprendere cosa ci chiede Gesù. Ci chiede di ascoltare e seguire: tutto qui! Sì, tutto qui, ma con significati quanto mai affascinanti e impegnativi! In realtà l’ascolto richiesto racchiude in sé la “virtù” dell’obbedienza, ossia l’energia e il dinamismo di dire di sì a ciò che si intuisce come bene prezioso per la nostra vita: questa è la condizione per la quale “la pecora” non si smarrirà e avrà la consapevolezza che, anche andando lontano “dall’ovile”, sarà sempre e comunque conosciuta, amata, ricercata e ritrovata.
Come ha detto Gesù: «Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre». È troppo grande il dono che il Signore ha in serbo per noi da lasciarci perdere, da stancarsi di noi, da permettere che qualcuno o qualcosa ci strappi da lui: questo dono è “la vita eterna”. Un’espressione esagerata, senza dubbio, che potremmo tentare di meglio comprendere traducendola in questi termini: “la vita stessa di Dio in noi”. Ecco il nostro guadagno; ecco per quale ragione il Vangelo ci si presenta bello, splendido e adatto a noi; ecco perché vale la pena di lasciarci educare e trasportare da un’unica e singolarissima Parola, quella di Gesù.
«Vita di Dio in noi» significa che nessuno può immaginare, neppure lontanamente, di strapparci da lui e di possederci: è questa la nostra sorprendente dignità, la dignità di ogni uomo cui nessuno può mentire con lusinghe o inganni. «Il Padre è più grande di tutti» e il male, per quanto possa ferirci, non ci separerà dal suo amore: porteremo davanti a lui le ferite del peccato, ma saranno ferite medicate in anticipo, guarite dal suo affetto che previene persino la nostra domanda di perdono: il Dio-Pastore è sempre alla ricerca di coloro per i quali Gesù ha dato la vita.
Quanto alla salvezza e all’eterno destino di felicità, il Vangelo di oggi ci dice che nei nostri confronti esiste una sola sicurezza: sono le mani di Gesù, ossia le stesse mani del Padre, tutte protese verso chi è vissuto nell’attesa della speranza. Essa si è compiuta nella Pasqua del Figlio, il grande “passaggio” redentore di Dio nella storia di tutti e di ciascuno. E di questo noi siamo chiamati a rendere grazie, sempre.
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Giovanni (21,1-19)
Quando già era l’alba, Gesù stette sulla riva, ma i discepoli non si erano accorti che era Gesù. Gesù disse loro: «Figlioli, non avete nulla da mangiare?». Gli risposero: «No». Allora egli disse loro: «Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete». La gettarono e non riuscivano più a tirarla su per la grande quantità di pesci. Allora quel discepolo che Gesù amava disse a Pietro: «È il Signore!». Simon Pietro, appena udì che era il Signore, si strinse la veste attorno ai fianchi, perché era svestito, e si gettò in mare. Gli altri discepoli invece vennero con la barca, trascinando la rete piena di pesci.
Gesù è sempre con noi
Dopo Maria di Magdala, dopo Pietro e Giovanni che “videro e credettero”, dopo l’apparizione di Gesù a Tommaso e il conferimento agli apostoli del “potere di perdonare i peccati”, c’è ancora tanta incertezza nel gruppo degli amici del Signore. Forse non sanno come riprendere “la via” mostrata dal Maestro. Sono in difficoltà. Del resto era già accaduto altre volte. Penso alla tempesta che quasi affondava la barca mentre i discepoli cercavano di raggiungere “l’altra riva” e di precedere Gesù: avevano avuto paura, ma il Signore, camminando sul mare, era venuto loro incontro. È difficile “rimanere nel Signore”, come egli stesso aveva domandato durante l’ultima cena, nei momenti di passaggio, quando si attende una parola che libera, quando ci si deve consolidare nella fede, quando dobbiamo percorrere sentieri inesplorati soffrendo per la fatica di imprese mai tentate da soli e senza vedere accanto il Signore. Dopo tutto questo, ecco un segno nuovo: Gesù si rende ancora presente per sostenere gli inizi di questo cammino.
Immagino che il problema per gli apostoli non fosse, di per sé, la fede: avevano visto e inteso bene che Gesù era tornato vincitore sulla morte. Il problema è come fare senza di lui, ora? L’idea di andare a pescare, suggerita da Pietro, è più significativa di quanto non appaia a prima vista. Forse Pietro tenta di riandare alle origini della sua vocazione, ripensa al suo primo incontro col Maestro, a come aveva avvertito una forte attrazione e un’urgenza irresistibile di andargli dietro. Qui terminava una nottata di fatiche, stava sistemando le reti perché era l’ora del meritato riposo, a casa.
Ma quel mattino si era trasformato in un tempo nuovo, conteneva un’altra chiamata dietro a quel Gesù, a sorpresa. Forse Pietro e gli altri intuiscono che tutto può riprendere proprio da lì, dal quotidiano, dalle reti e dalla barca, dagli amici dello stesso mestiere e da una segnalazione sorprendente dopo una pesca sovrabbondante, davvero miracolosa: «È il Signore!», non può essere che lui! Sì, lui c’è, è tornato. È tornato, come aveva promesso, a indicarci la via della fiducia, dell’abbandono al soffio dello Spirito che porta sempre a essere generosi, a prendere il largo, a non chiuderci nelle delusioni, a obbedire a quella voce che, per noi, oggi risuona nel Vangelo ed è la voce stessa di Gesù che vive nella sua Chiesa. Bisogna però che ci sia sempre qualcuno che, sorpreso da questa voce, susciti per primo la speranza e gridi con gioia: «C’è il Signore!».
Nel Vangelo di oggi, il primo a riconoscerlo è Giovanni, il discepolo amato e amante; è la Chiesa-Sposa che riconosce Gesù, lo Sposo, anche da lontano; siamo noi, chi nella povertà e chi nella fatica, ma tutti pronti alla gioia di celebrare la sua rinnovata presenza.
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Giovanni
(20,19-31)
La sera di quel giorno,
il primo della settimana,
mentre erano chiuse
le porte del luogo dove
si trovavano i discepoli
per timore dei Giudei,
venne Gesù, stette in
mezzo e disse loro: «Pace
a voi!». Detto questo,
mostrò loro le mani
e il fianco. E i discepoli
gioirono al vedere il
Signore. Gesù disse loro
di nuovo: «Pace a voi!
Come il Padre ha
mandato me, anche
io mando voi». Detto
questo, soffiò e disse
loro: «Ricevete lo Spirito
Santo. A coloro a cui
perdonerete i peccati,
saranno perdonati;
a coloro a cui non
perdonerete, non
saranno perdonati».
La misericordia trionfa
Ecco il Signore! È venuto tra noi per risvegliarci
dalle nostre pesanti tristezze: quelle
di ciascuno di noi e di tutti, quelle della
Chiesa, con la quale possiamo oggi vedere
più luminoso il mistero, ossia Gesù nostra speranza,
nostro perdono, nostra salvezza: una salvezza
resa certa dalle sue parole, dette al di là,
ormai, di ogni tradimento, di ogni abbandono
e infedeltà. Il Pastore ha raggiunto la pecora
smarrita, l’ha curata, l’ha portata sulle spalle.
Sì, ha crocifisso nella sua morte il peccato
che l’ha fatta perdere separandola dall’amore
più grande e più tradito di tutti.
La Pasqua è il trionfo della Divina Misericordia,
dell’attenzione che il Signore riserva persino
alle nostre residue paure. Mi sembra davvero
curioso che Gesù non spalanchi di nuovo
«le porte del luogo dove si trovavano i discepoli
per timore dei Giudei». Questo timore va curato,
come le ferite dell’«uomo che scendeva
da Gerusalemme a Gerico», dal
Samaritano che ha la medicina
più forte di ogni piaga. Gesù
stesso in persona è questa medicina
offerta a tutti nella sua
onnipotente Parola: egli non
si limita a consolarci al caro
prezzo della propria vita,
ma ci dona la pace.
Il «Pace
a voi» dice che ormai la pace
lega in unità indivisibile
Dio a noi e noi a Dio, perché
ci restituisce la dignità
di figli, per quanto possiamo
aver cercato la fonte
della vita lontani dal Padre
e forse nel peccato.
È la Pasqua di Gesù l’unico passaggio da
morte a vita che trascina con sé il nostro esistere
e il nostro stesso morire, preservandoli
da ogni possibilità di perdersi nell’abisso del
male che deturpa sino ad annientare la nostra
radicale bellezza e quella di tutto il creato.
Questo fa lo Spirito, il Soffio di vita restituitoci
nel perdono, così come all’inizio di
tutto ci era stato insufflato perché diventassimo
«esseri viventi». L’Adamo allora uscito dalle
mani di Dio è adesso rinnovato dalla croce
e dalla risurrezione del Signore.
E così nella Pasqua di Gesù siamo ancora
una volta introdotti in quell’unica vera e
grande speranza che ormai la Chiesa, come
Sposa, condivide con il suo Sposo perché resa
partecipe della vita stessa di lui. Così nel
suo Nome la Chiesa perdona, annuncia la
salvezza, la rende presente ed efficace nei
suoi gesti: in quei “segni” sacramentali che,
forse, sono tra quelli non raccontati
dall’evangelista Giovanni ma presenti nella
missione che alla Chiesa viene affidata «perché
tutti credano e, credendo, abbiano la vita
nel nome di Gesù».
Quella sera Tommaso era assente: come
noi. La vicenda di questo apostolo mi incuriosisce
anche al di là delle interpretazioni più
consuete: lui mi rappresenta nel non sapere
da dove mai venga agli altri dieci il potere di
perdonare i peccati. Potrà anche lui perdonare
chi ha ucciso il Maestro? Da dove gli verrà il
dono di seminare misericordia dove non c’era
altro che spavento e violenza? Gli verrà, otto
giorni dopo, dal ritorno del Signore risorto.
Un ritorno che è di conforto anche per la nostra
missione: nella Chiesa, per il mondo.
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Giovanni
(20,1-9)
Il primo giorno della
settimana, Maria di
Màgdala si recò al
sepolcro di mattino,
quando era ancora buio,
e vide che la pietra era
stata tolta dal sepolcro.
Corse allora e andò da
Simon Pietro e dall’altro
discepolo, quello che
Gesù amava, e disse loro:
«Hanno portato via
il Signore dal sepolcro
e non sappiamo dove
l’hanno posto!».
Pietro allora uscì insieme
all’altro discepolo e si
recarono al sepolcro.
Correvano insieme tutti
e due, ma l’altro
discepolo corse più
veloce di Pietro e giunse
per primo al sepolcro. [...]
Giunse intanto anche
Simon Pietro, che lo
seguiva, ed entrò nel
sepolcro [...] Allora entrò
anche l’altro discepolo,
che era giunto
per primo al sepolcro,
e vide e credette.
Speranza viva per tutti
La lettura di questo annuncio pasquale
nel contesto dell’Anno della fede risveglia
in me, e penso in ciascuno di noi,
un’emozione forte e che non si limita a farci
percepire in modo vivo e gioioso il mistero della
Pasqua, ma ci conforta e ci aiuta a sperare,
ad avere i piedi ben poggiati sulla pietra «rotolata
via». È proprio su questa pietra che vogliamo
concentrare il nostro sguardo.
Il racconto di Giovanni inizia rimandandoci
al buio, al mattino presto, quando ancora
l’incertezza e la paura avvolgono pesantemente
il cuore dei discepoli, di chi ha voluto
bene al Signore, di chi l’ha seguito fino
all’ultimo, più o meno da vicino, fin sotto la
croce.
E tra questi ultimi c’è Maria di Màgdala:
il suo cuore è oppresso dallo sconforto
per un Amore annientato.
Mi prende quasi naturale un velato istinto
di rimprovero verso i discepoli di Gesù, perché
hanno dimenticato la sua Parola, la sua promessa
di risurrezione per sé e anche per loro:
«Verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché
dove sono io siate anche voi» (Gv 14,3). In realtà,
subito mi rendo conto che anche noi possiamo
ripercorrere, passo dopo passo, l’andare di
Maria al sepolcro: possiamo cioè condividerne
la pesantezza di cuore e la corsa verso la casa
dove Pietro e Giovanni stanno ancora dormendo,
anch’essi vinti dal medesimo senso di abbandono
e di solitudine.
È un’esperienza che
conosciamo bene e che richiama alla nostra
mente i momenti in cui ci sembra di aver attraversato
da soli tempi di dubbio, di fatica,
di crisi, di tormento... con le domande: il Signore
dov’è, quando la sofferenza mette noi
in croce? È così necessario che anche noi proviamo
l’angoscia dell’abbandono («Dio mio,
Dio mio, perché mi hai abbandonato?»), la sensazione
che abbiano “portato via il Signore”?
Ma è così necessario percorrere da soli, al buio,
mentre gli altri dormono, il sentiero scosceso
che va alla tomba di Gesù?
No.
Non è necessario. In realtà, leggendo
bene il seguito del brano evangelico, comprendo
che, nella fatica, in questi momenti di dubbio
e di tristezza, di tormento e di fede incerta,
occorre “correre insieme” come Pietro e Giovanni,
occorre “vedere la Chiesa”, sentirsi
reciprocamente “accordati”, messi in sintonia
nella direzione della speranza, fino a ribaltare
il dubbio: davvero il Signore non c’è più?
I segni sono poveri, ma sufficienti perché la fede
si risvegli e ci renda ancora capaci di sperare,
insieme: «E vide e credette», dice l’evangelista
Giovanni di sé stesso.
Poi verrà il Signore a confermare questa
speranza, a far maturare la fede timida, “risorta”
alle prime luci dell’alba, a riavviare il percorso
interrotto nel buio della morte, della solitudine.
Il Signore verrà e parlerà a tutti, risveglierà
ciascuno dal proprio torpore. Tutti,
ciascuno... la Chiesa intera con la quale, oggi,
sostiamo davanti al mistero più grande: Gesù
speranza viva per tutti gli uomini, “passione”
di Dio che vuole salvare ogni uomo.
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Luca (22,14-23,56)
Quando venne l’ora, Gesù
prese posto a tavola e gli
apostoli con lui, e disse
loro: «Ho tanto desiderato
mangiare questa Pasqua
con voi, prima della mia
passione, perché io vi dico:
non la mangerò più, finché
essa non si compia nel
regno di Dio». E, ricevuto
un calice, rese grazie e
disse: «Prendetelo e fatelo
passare tra voi, perché io
vi dico: da questo momento
non berrò più del frutto
della vite, finché non verrà
il regno di Dio». Poi prese il
pane, rese grazie, lo spezzò
e lo diede loro dicendo:
«Questo è il mio corpo, che
è dato per voi; fate questo
in memoria di me». E, dopo
aver cenato, fece lo stesso
con il calice dicendo:
«Questo calice è la nuova
alleanza nel mio sangue,
che è versato per voi».
La sua passione per noi
Rileggo con voi i gesti più trasparenti
dell’amore di Gesù, riflesso splendido
dell’amore del Padre, e con voi riascolto
alcune sue parole del tutto singolari. Desidererei
però che, di questa lettura semplice e
di questo ascolto attento, possiate far tesoro
nella prossima Settimana santa per la vostra
preghiera e per la vostra contemplazione. Ci
sono momenti importanti in cui la nostra fede
e il nostro “sì” all’amore di Dio si traducono spontaneamente nello stupore che esclama:
«Ha fatto questo per me!».
Mi sento invitato con voi all’ultima cena di
Gesù, che ai suoi amici e a noi dice: «Ho tanto
desiderato mangiare questa Pasqua con voi»
e che ci invita al “rendimento di grazie” per
l’intera storia di salvezza compendiata in
quel pane eucaristico di cui Gesù dice: «Questo
è il mio corpo» e in quel calice presentato
con le parole: «Questo calice è la nuova alleanza
nel mio sangue, che è versato per voi».
Condivido con tutti voi il senso più bello
e impegnativo di ogni celebrazione domenicale:
«Chi tra voi è più grande diventi come
il più giovane, e chi governa come colui
che serve... Io sto in mezzo a voi come colui
che serve». Lo faccio nella speranza che
queste parole di Gesù, insieme a quelle che
seguono, possano essere autenticate dalla
nostra esperienza d’ogni giorno: «Voi siete
quelli che avete perseverato con me nelle
mie prove e io preparo per voi un regno...
Satana vi ha cercati per vagliarvi come il
grano; ma io ho pregato per voi, perché la
vostra fede non venga meno... Pregate, per
non entrare in tentazione». E ci offre sé
stesso come esempio affascinante: «Pregava
dicendo: Padre, se vuoi, allontana da
me questo calice! Tuttavia non sia fatta la
mia, ma la tua volontà».
Nel momento della
nostra estrema fragilità, ci è poi di conforto
lo sguardo di Gesù, che sentiamo su
di noi, come Pietro, pieno di misericordia e
di comprensione: «Il Signore si voltò e fissò
lo sguardo su Pietro che, uscito fuori,
pianse amaramente».
Contempliamo anche lo scambio di vittime
per il sacrificio definitivo, celebrato una volta
per tutte sull’altare della croce: il Giusto viene
scambiato con il peccatore (Barabba) perché
questi sia liberato dalla sua colpa: «Pilato rimise
in libertà colui che era stato messo in prigione
per rivolta e omicidio, e che essi richiedevano,
e consegnò Gesù al loro volere».
Insieme poi iniziamo a comprendere come
il discepolo debba seguire il Maestro: «Fermarono
un certo Simone di Cirene, che tornava
dai campi, e gli misero addosso la croce, da
portare dietro a Gesù».
Infine le parole più attese: «Padre, perdona
loro perché non sanno quello che fanno». Sono
parole pronunciate perché tutti siamo storditi
dall’inconsapevolezza o dall’indifferenza.
Ma c’è anche e soprattutto la parola della
misericordia, detta a uno solo, nel quale però
tutti vorremmo essere identificati: «In verità
io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso».
Il Vangelo giunge così al suo vertice
più alto, là dove non contano le
nostre parole e i nostri gesti, a
volte stolti e presuntuosi
nell’autosufficienza, ma
conta solo la passione
di Dio per noi: un dono
di sofferenza che
sfocia nel dono della
vita risorta e gloriosa.
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Giovanni (8,1-11)
Gli scribi e i farisei gli
condussero una donna
sorpresa in adulterio, la
posero in mezzo e gli
dissero: «Maestro, questa
donna è stata sorpresa in
flagrante adulterio. Ora
Mosè, nella Legge, ci ha
comandato di lapidare
donne come questa.
Tu che ne dici?». [...] Ma
Gesù [...] disse loro: «Chi di
voi è senza peccato, getti
per primo la pietra contro
di lei». E, chinatosi
di nuovo, scriveva per
terra. Quelli, udito ciò, se
ne andarono uno per uno,
cominciando dai più
anziani. Lo lasciarono solo,
e la donna era là in mezzo.
Allora Gesù si alzò e le
disse: «Donna, dove
sono? Nessuno ti ha
condannata?». Ed ella
rispose: «Nessuno,
Signore». E Gesù disse:
«Neanch’io ti condanno;
va’ e d’ora in poi
non peccare più».
Misericordia esagerata
In questa domenica passiamo dal Vangelo
di Luca a quello di Giovanni, ma per ascoltare
ancora, e ne abbiamo tutti tanto bisogno,
un racconto sul mistero della misericordia
“esagerata” di Dio, l’unica misericordia
che, in verità, gli si addice! Protagonista è una
donna che viene spinta davanti a Gesù perché
la giudichi. Ma egli, inizialmente perplesso
(che senso ha mai quel suo gesto di fermarsi a
scrivere chissà cosa per terra, nella polvere?),
sta forse meditando come riuscire a inculcare
ancora e con maggior forza nei suoi interlocutori
che la misericordia di Dio è infinita sino
all’estremo: infatti raggiunge anche le donne,
a dispetto (anzi, proprio in ragione di questo)
del fatto che gli scribi e i farisei professavano
l’inferiorità della donna di fronte alla legge
e, quindi, di fronte a Dio.
I “duellanti” sono nientemeno che, da un
lato, i più esperti conoscitori della legge di Mosè
e, dall’altro, l’Autore stesso di questa legge!
A questo punto si fa vivissima in noi l’aspettativa
d’una autorevole e definitiva risposta: ciò
di cui dovremo convincerci è che, proprio secondo
la volontà di Dio, nessuno è lontano
da quel perdono misericordioso del Signore
già annunciato in modo incisivo la scorsa domenica.
La nostra conversione quaresimale
approda proprio qui: in questa certezza di fede
e pertanto in questo atto di speranza indubitabile
e del tutto liberante.
Proviamo però ad analizzare alcuni particolari.
Il primo, fa da sfondo a tutto il racconto, è
Gesù seduto nel tempio, nell’atteggiamento
del Maestro che parla ai suoi discepoli: oggi a
noi. Subito entra in scena la peccatrice, il suo
flagrante adulterio, l’accusa estrema verso una
donna che per la legge di Mosè è già condannata.
Non c’è via d’uscita. E Gesù lo sa.
L’evangelista Giovanni è abilissimo nel
creare un clima di attesa tormentata: a che
scena assisteremo? Ci aspettiamo una lapidazione:
questa è la pena per la donna. Forse
anticipando parte del pensiero di Gesù, ci
possiamo domandare: con chi questa donna
ha commesso adulterio? Con un uomo, è evidente!
Ma lui, lui dov’è?
Forse Gesù scrive nella polvere un’addizione
disattesa dagli accusatori. Persino la verità
matematica, per i furbi, ha le sue eccezioni e 1
più 1 può fare sempre 1: bisogna essere in
due per compiere certi peccati, ma a pagare
è sempre il più debole. Questo a Dio non va
bene! È il Vangelo!
Così, credo di aver capito
perché Gesù si astiene dal giudicare e chiede
senza paura: «Chi ha peccato con lei?». La risposta,
per una volta, è sincera e, per certi versi,
bellissima: «Tutti abbiamo peccato con lei. E,
per questo, nessuno tirerà il primo sasso».
Il finale è stupendo: la prima, tra tutti i presenti,
ad avere il perdono, è l’unica imputata...
forse agli altri bruciava l’idea che l’esito
della loro messa in scena potesse essere la
misericordia. Sì, ancora e sempre la misericordia!
E non lo accettano e se ne allontanano:
a loro discapito!
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