22/07/2011
Scaviamo di nuovo nel termine fecondità
in riferimento al figlio: poiché
molto/troppo è dato per scontato
nella feriale relazione genitore figlio,
al punto che diviene quasi scontato
l’arbitrio, cioè il volere il figlio “a
propria immagine e somiglianza”,
cioè secondo i propri desideri e progetti.
La Lettera alle famiglie ci mette in
guardia in modo radicale da questo
pericolo, richiamando un principio
che è il principio proprio della fecondità:
«I genitori, davanti a un nuovo
essere umano, hanno o dovrebbero
avere piena consapevolezza del fatto
che Dio vuole quest’uomo “per sé stesso”
(9). Dio stesso tratta i nostri figli
ciascuno per sé stesso; «essere uomo è
la sua fondamentale vocazione: essere
uomo a misura del dono ricevuto»
(9): uno stupendo rispetto che è iscritto
nel codice della fecondità non è generare
un figlio per un qualche motivo
estrinseco a Lui (perfino, ci diceva
una giovane: «I miei mi hanno voluto
come banca del sangue per mio fratello
gravemente malato»); e quanti aspiranti
genitori vogliono un figlio a tutti
i costi, con tutte le tecniche possibili,
perché – ci diceva una madre (inconsapevolmente)
spudorata – mi
manca un figlio per sentirmi pienamente
realizzata.
Il principio della fecondità batte
ben altre strade: una coppia diviene
feconda nella misura in cui il figlio è
ricevuto come dono, cioè gratuitamente
lasciato essere. Ogni altra fecondità
(leggi: il bisogno del figlio
per sé, anche in termini adottivi) assomiglia
tanto... alla pecora Dolly, a un
delirio di clonazione per garantirci
una sorta di continuità. Sana è, invece,
la famiglia in cui un figlio adulto
può dire, riguardo alla sua storia nella
famiglia in cui è nato, «mi hanno
voluto per me stesso», tant’è che ora
mi hanno riempito lo zaino e mi lasciano
andare, anche se le mie scelte
vocazionali non erano certo nei loro
progetti. Ecco la fecondità: lasciar essere
l’altro come altro da sé.
Ma perché un figlio va voluto per sé stesso? La nostra Lettera ci viene in aiuto: «Dio vuole elargire all’uomo la partecipazione alla sua stessa vita divina; la genealogia della persona è pertanto unita innanzitutto con l’eternità di Dio e solo dopo con la maternità e la paternità che si attuano nel tempo » (9): è a dire, il figlio non è un prodotto casalingo, è stato pensato, voluto e amato per un destino che mai nessun genitore umano potrebbe consegnare a un figlio, per quanto amato: diventare divino, far parte della famiglia di Dio. La genealogia di nostro figlio risale a Dio (altro che genogramma!) è scaturita da lì, dal cielo: e come potrei osare io genitore di pensarlo “fatto da me” e quindi manipolabile a mio piacimento? La fecondità, in ultima analisi, risale a Dio.
Mariateresa Zattoni e Gilberto Gillini