18/05/2011
Dopo aver presentato i tratti essenziali
che accompagnano la figura del
volontario e dell’impegno a cui è chiamato,
appare utile tracciare una linea
conclusiva. In primo luogo, fare volontariato
può aiutarci a non perdere
il senso della vita, sia nelle situazioni
di difficoltà che nei momenti di gioia
e felicità, a tenere lontano le paure ancestrali
del nulla e della temporalità
segnata dalla morte assoluta. Fare il
volontario rinfranca l’idea che il bene
esiste, nonostante situazioni particolari
contribuiscono a offuscarlo e a farne
perdere le tracce nelle persone e
nella realtà.
Fare il volontario può portarci tra gli intimi sentieri dell’animo umano,
quelli delle emozioni e dei sentimenti
personali che ci accomunano, perché
radicati nell’universalità del bisogno
di amare, essere amati e riconosciuti.
L’amore che dovrebbe avvolgere la
nostra vita, in quanto suo principio e
finalità; si nasce da un
atto d’amore, si vive
cercando e ricambiando
amore, si muore
nella speranza di continuare
a vivere nel ricordo,
nei gesti, nelle
parole, negli atteggiamenti
di chi abbiamo
amato e di chi ci ha
amato; i credenti
muoiono nella speranza
di ricongiungersi al
Padre nella dimensione
eterna dell’Amore.
Le parole di san Paolo
tracciano i lineamenti dell’amore nell’espressione
più alta della carità: «La
carità è paziente, è benefica; la carità
non è astiosa, non è insolente, non si
gonfia; non è ambiziosa, non cerca il
proprio interesse, non si muove ad
ira, non pensa male, non gode dell’ingiustizia
ma fa suo il godimento della
verità; a tutto s’accomoda, tutto crede,
tutto spera, tutto sopporta».
Carità che se sostanzia anche il volontario
e il suo operato, lo può aiutare
a contenere i propri difetti, le proprie
debolezze e accrescere le parti
migliori di sé.
Rossella Semplici