03/05/2013
Lo psicologo Simone Feder della Casa del giovane di Pavia
Pavia, dicembre 2012
Pavia, nel gelo di dicembre, ha un’aria di vetro stranamente tersa per una città di riso e di fiume. Di solito ci si arriva per farsi curare o per studiare: la sua università, che ospita 24 mila studenti, ha compiuto 650 anni da poco. Ma sono altre, meno nobili, le ragioni per cui ultimamente Pavia finisce in cronaca. Una, non l’unica purtroppo, è il primato italiano di fortune sperperate al gioco. I pavesi bruciano ogni anno 2.123 euro a testa contro i 1.450 della media nazionale.
L’appuntamento è in una viuzza che scarta a destra rispetto al viale che dalla Minerva porta al Ticino. Nello scantinato, in cui negli anni Settanta celebrava messa don Enzo Boschetti, c’è il centro d’ascolto. Il grigiore degli albori della Casa del giovane in cui don Enzo dava riparo ai tossici disfatti d’eroina, ha lasciato posto a un’accoglienza colorata, fatta di materiali di recupero e buona volontà. Oggi per vedere don Enzo, che non c’è più da vent’anni e ha una causa di beatificazione in corso, bisogna andare in riva al Ticino. Lo si incontra, fuso nel bronzo di un monumento troppo realista per sfiorare la retorica, stretto nel suo maglione blu con la zip. Il braccio sinistro sulle spalle di un ragazzo, il destro a indicare lontano, verso la Casa del giovane dov’è ancora. Come a dire: «Se hai bisogno d’aiuto, là ci sono persone di cui ti puoi fidare».
Una di queste è Simone Feder, psicologo, anima dell’area adulti della Casa, dal 2004 impegnato nella lotta al gioco, la droga del presente che mangia soldi e anima: «Perché a Pavia si gioca di più? Facile. Perché c’è una concentrazione più elevata di macchinette. Le contiamo periodicamente. La tentazione per i gestori, soprattutto in tempi di crisi, è forte: se accetti le slot ti danno la Tv al plasma e ti agevolano sull’impianto antifurto».
Non manca chi sa dire di no, in centro di tanto in tanto una vetrina esibisce l’adesivo no-slot. «Il mio locale per fortuna», racconta Donatella titolare di "Cesare", latteria dall’aria rétro adorata dagli studenti per la cioccolata calda, «non è adattissimo alle macchinette e non me le hanno proposte con troppa insistenza, ma aderisco alla campagna perché quando vado nei centri commerciali mi angoscia vedere i vecchietti che buttano la pensione». Altri, nei dintorni, anche con locali più appetibili resistono alle lusinghe per non lucrare sulla rovina. Ma sono una minoranza. Pavia, come accade in questi casi per reazione, è ora un punto di riferimento per le famiglie dei giocatori compulsivi, che bussano alla Casa del giovane, centro nevralgico di un movimento antigioco trasversale che coinvolge associazioni di varia estrazione, con il sostegno della diocesi: «Il gioco non ha sesso né età», spiega ancora Feder, «ma a perdere tutto, qui, sono soprattutto i pensionati; e a chiedere aiuto, mentre la famiglia precipita nel gorgo dei debiti, sono in prevalenza le donne, le più tenaci nel tentare di riportare alla ragione mariti, figli, padri».
Il telefono squilla di continuo, chiamano mamme con mariti troppo assenti che non riescono a chiudere i cordoni della borsa a ragazzini aggressivi lusingati dai soldi facili. Chiamano mogli sull’orlo del baratro eppure forti e coraggiose, come Francesca (nome di fantasia), che accetta anche di raccontare: «Spero che serva ad altri, io, purtroppo, ho capito tardi. Mio marito aveva un’attività commerciale e senza entrate fisse era facile dare la colpa alla crisi, ma poi aumentavano i debiti e io, passando, troppe volte trovavo il negozio chiuso e lui dal tabaccaio. Mentiva, negava e io perdevo fiducia in lui, combattuta tra l’affetto e la rabbia, faticavo ad accettare che la sua fosse una malattia. Anche adesso è dura, ma dopo 33 anni non potevo lasciare i miei figli senza padre né madre. È brutto dirlo ma ho minacciato di andarmene se non avesse accettato di farsi curare». Dopo Natale lo aspetta la comunità. E forse si ricomincia.
Un caso, uno dei tanti, se è vero che nella città delle donne che scendono in piazza contro lo Stato biscazziere sono tante le famiglie che bussano al giudice tutelare per chiedere l’amministrazione di sostegno. «Otto anni fa, quando questo strumento giuridico è nato», spiega Cesare Beretta giudice a Pavia, «lo chiedevano in pochissimi, ora sono centinaia, anche se non tutti per motivi di gioco». Ci vuole coraggio, significa ammettere di non farcela da soli, ma spesso è quello il punto di partenza: il secchio del pozzo cui aggrapparsi per risalire.
Elisa Chiari