Ripubblichiamo l'intervista a Scalfaro su Giovanni Paolo II, all'epoca della beatificazione.

30/01/2012
Papa Giovanni Paolo II con Oscar Luigi Scalfaro.
Papa Giovanni Paolo II con Oscar Luigi Scalfaro.

Mi avevano parlato di quell’arcivescovo di Cracovia, prima che fosse eletto Papa. Me ne avevano parlato con ammirazione, un vescovo forte, sicuro, fede granitica, grande cultura e tanta passione per il suo popolo”. Affiorano ricordi e riflessioni nella mente del presidente Oscar Luigi Scalfaro. Il suo settennato al Quirinale si svolse nel cuore del Pontificato di Karol Wojtyla. Ma il presidente è sempre stato un osservatore attento delle cose della Chiesa e il suo impegno politico affonda radici nella passione per il bene comune che i cattolici hanno imparato alla scuola del Vangelo e in particolare nell’esperienza dell’Azione Cattolica, che allenato le menti e i cuori di molti ad una responsabilità particolare nella cura delle istituzioni e della cosa pubblica. Ora che Papa Wojtyla sarà proclamato beato, ora che quel grido “Santo Subito” risuonato in piazza San Pietro mentre il vento di Dio sfogliava e chiudeva le pagine del Vangelo sulla bara chiara del Papa polacco, il presidente in un lungo colloquio con “Famiglia Cristiana” torna agli anni di quel lungo pontificato e di Wojtyla dice: “Ha amato singolarmente ogni italiano”.

Presidente, quali furono i suoi pensieri la sera dell’elezione, quando il cardinale Felici pronunciò quel nome difficile che nessuno si aspettava?
“Fui felicissimo. Io quel Wojtyla lo conoscevo. Me ne parlavano gli amici dell’Università cattolica di Milano. Conoscevo la sua storia, la sua lotta contro il comunismo, la sua passione per la libertà del popolo polacco. Avevo in quella fine degli anni Settanta l’impressione che la Chiesa si fosse un po’ chiusa e se fosse stato eletto un’altra volta un Papa italiano ero convinto che il rischio di un ripiegamento si facesse più marcato. L’elezione di Karol Wojtyla ha permesso di nuovo di spalancare le porte. Insomma una ventata di aria nuova”.

Era la storia di quel arcivescovo polacco che la faceva sperare?
“Wojtyla aveva vissuto la tragedia della guerra, il suo Paese diviso, da una parte i nazisti, dall’altra parte l’Armata Rossa. Ha dovuto ricostruire con pazienza il tessuto di una Chiesa e di un Paese lacerato. Ha combattuto ogni avversità, ma ha saputo per tutta la vita insegnare la speranza che deriva solo dalla forza del Vangelo. E lo ha fatto insieme a cattolici veri, lavoro di squadra si direbbe oggi”.

Cosa l’impressionò delle prime parole di Wojtyla?
“Mi commosse quando disse ‘Se sbaglio mi corrigerete’. E mi fece sorridere, come tutti d’altra parte. Ma, vede, quella frase mi colpì molto, perché non si trattava, come abbiamo poi visto in quasi 27 anni di Pontificato, soltanto di una battuta circa la sua pratica con la lingua italiana. No. Papa Giovanni Paolo II autorizzava il popolo di Dio, attrettanto pratico di Vangelo, a correggerlo, a indicargli la via, a sostenerlo se avesse tentennato. Karol Wojtyla si presentava così come era: un uomo, non un pontefice regnante, sicuro di ogni cosa. Ho sempre amato quell’uomo e quel Papa”.

Qual era il suo tratto principale?
“Presentarsi allo stesso modo in privato e in pubblico. Qualche volta faceva sobbalzare chi gli stava attorno. Il giorno della prima messa in piazza san Pietro scese dal sagrato ad abbracciare gli ammalati. La sera che fu eletto parlò dal balcone delle benedizioni. Mai un Papa aveva parlato in quella occasione. Mi ricordo quando toccò al grande cardinale Stefan Wyszynski salire a rendere omaggio al nuovo Papa. Wojtyla si alzò per abbracciarlo e a momenti cadevano in due inciampando nei paramenti. Neppure la malattia lo fermò. Mai dimenticherò quando verso la fine si affacciò alla finestra e non riuscì a parlare e fece quel gesto con la mano, come stizzito. Non si nascose mai e neppure nascose la malattia. Era proprio come uno di noi e a noi ha insegnato moltissimo”.

Quante volte l’ha incontrato?
“Non ricordo, moltissime. Spesso andavo alla Messa privata all’alba nella sua cappella, con mia figlia. Io entravo e lui era già inginocchiato a pregare. Celebrava la Messa e poi tornava ad inginocchiarsi e a pregare. Devo dire che mi impressionò quel suo modo di raccogliersi in preghiera. Aveva una spiritualità eccezionale e non la nascondeva, ma aveva anche una premura incantevole verso le persone”.

Gli spararono in piazza San Pietro. Lei cosa ricorda di quel giorno?
“Scendevo dal treno a Milano, stava andando a Novara per un comizio. Rimasi di sasso: un attentato in piazza San Pietro, il Papa ferito da colpi di pistola. Devo dirle, oggi, che ebbi paura per la Chiesa. Il Papa ferito era come la rappresentazione di una Chiesa fragilissima e in pericolo. Ero sgomento. Pregai in treno verso Novara, per quel Papa, che sentivo vicino a me all’Italia”.

Qual è la frase che le torna in mente più spesso?
“Aprite le porte a Cristo. La sento risuonare con quella sua voce squillante, decisa, senza tentennamenti. E’ l’impronta dell’intero Pontificato: non abbiate paura, aprite, anzi spalancate le porte a Cristo. Ecco la frase, che deve essere scolpita nella mente di ogni cristiano e che ogni cristiano deve ripetere agli altri”.

Era preoccupato per l’Italia?
“Voleva bene all’Italia, ma non si è mai occupato, né ha cercato di inserirsi nelle questioni politiche italiane. E’ stato in questo senso un uomo di grandissima saggezza”.

Uno dei momenti più intensi fu quando lanciò l’invettiva contro la mafia nella valle dei Templi ad Agrigento...
“Parlò come un profeta. E’ vero quel discorso resta fondamentale. Nessuno lo può dimenticare. Non entrò nella polemica tutta italiana sulla mafia. Parlò con la convinzione di difendere il suo popolo, il popolo italiano, da uno mali peggiori della convivenza civile”.

E si schierò contro la guerra in Iraq approvata invece da quasi tutti...

“In quella occasione rimase profondamente deluso, come tradito dai governanti. Ricordo il suo volto quando cercava di scongiurare la guerra. Sembrava quello di una persona ferita. Io sono convinto che il Papa fosse in quei momenti davvero il capo dell’umanità, oggi si direbbe un leader globale, l’unico. Chi era contrario alla guerra credente o non credente lo riconosceva come tale, perché Giovanni Paolo II fu davvero l’unico a dire un no motivato, insistente, ardito, un no potente e intransigente. Purtroppo non bastò”.

Perché lo ricorda?
“Perché le motivazioni del Papa contro la guerra sono le stesse della nostra Costituzione. Nella carta c’è scritto che l’Italia ripudia la guerra. Quando votammo quell’articolo nell’Assemblea costituente eravamo tutto d’accordo a scegliere quel verbo: ripudia. Si tratta di un no totale, senza dubbi, né scappatoie. Ripudia è un verbo fortissimo, che non ammette repliche. Dovremmo tutti insieme esserne più convinti”.

Quando incontrava il Papa quali erano i temi più ricorrenti?

“Parlavamo di molte cose, ma su questo ho deciso di mantenere per sempre il riserbo”.

Lui, il Papa, di cosa era più preoccupato?
“Della sua Polonia: prima per la crisi di Solidarnosc, lo stato d’assedio, la faticosa ricerca della libertà. E poi per il consumismo e il relativismo portato dall’Occidente caduto il Muro. Ricordo che mi hanno sempre impressionato i suoi viaggi in Polonia, i discorsi che sembravano quelli di un vero leader politico oltre che spirituale. Soffriva per la sua terra”.

E per l’Italia?
“Amava il popolo italiano e la nostra gente lo ha sempre ricambiato. Durante i sette anni al Quirinale ho potuto sperimentare l’amore dell’Italia per Karol Wojtyla. Non l’amore da parte della Chiesa e dei credenti, quelli che riconoscono il Papa capo della Chiesa. Ho incontrato tanta gente che mi ha detto di essere andata a rendere omaggio alla sua salma in Vaticano, stando ore e ore in fila senza essere credente, solo per ricambiare l’attenzione che il Papa ha sempre avuto per questo nostro Paese. Ha viaggiato per l’Italia in lungo e in largo, parlava con sempicità eccezionale, tutto lo capivano. Quando gli italiani soffrivano lui era lì accanto. Non dimentichi l’Irpinia, il terremoto, il Papa che volle a tutti costi andare per essere vicino a chi soffriva. Ma era allo stesso tempo fermo sui principi, sul valore della vita. Diceva: ’Sono romano’ per dire che era ‘italiano’. Il suo esempio credo che durerà nei secoli”.

E il suo rapporto come Capo dello Stato?
“Ho sempre cercato di distinguere il piano del rapporto istituzionale da quello della mia personale adesione al capo della Chiesa cattolica. E Wojtyla lo sapeva e apprezzava. Una volta mi disse ‘Io sono uno di voi, sono italiano’. Non aveva il tono di chi diceva ‘Io sono il Papa’. E non mancava mai anche durante le funzioni pubbliche di salutare, magari anche solo con un cenno del capo e un piccolo inchino il Capo dello Stato italiano. Questo per me era un grande onore, un grande onore per l’Italia”.

                                                                         Alberto Bobbio

a cura di Pino Pignatta
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