L'Africa che spera 3 - L'Uganda sorride

Famiglia Cristiana nella terra sconvolta da 23 anni di guerra: saccheggi, stupri, massacri. Ora la pace è tornata, tra enormi problemi e un tessuto sociale da ricostruire.

L'oasi di Kalongo: dove si insegna la speranza

02/09/2010
Prisca Ojok con alcuni bambini che vivono alla periferia di Kalongo
Prisca Ojok con alcuni bambini che vivono alla periferia di Kalongo

Kalongo, Nord Uganda

Il monte si chiama Oret, che significa “montagna del vento”. Lo si vede da molto lontano, il suo profilo si staglia netto. È l’unica, in un vasto raggio di questa parte remota della terra degli Acholi. Cinque anni fa le sue pendici erano costellate da una distesa di capanne circolari, quelle tradizionali ugandesi, fatte di rami e mattoni di fango: 45 mila persone, forse 50 mila, nessuno le ha mai censite.

    L’Oret ospitava uno fra le decine di campi profughi, nei quali l’esercito governativo aveva radunato la popolazione per cercare (con scarsi risultati, per la verità) di proteggerla dalle scorrerie dei ribelli dell’Lra, i guerriglieri capitanati dal sanguinario Joseph Kony.

    «Nei campi la gente aveva perso ogni rispetto reciproco», dice suor Mary Tarcisia Lakot, dell’ordine delle Piccole sorelle di Maria Immacolata e direttrice della scuola del Centro Santa Bakhita. «Erano abbrutiti dall’impotenza, dagli abusi subiti, dalla promiscuità forzata. Erano ridotti ad animali. Il nostro primo impegno è stato quello di ridare loro speranza nella vita».

    Oggi quelle miserabili capanne sul monte sono un ricordo, non ce n’è più una. Appena più sotto, dove finisce la pianura, c’è la missione comboniana e lo storico ospedale, fondato nel 1956 dal Servo di Dio Giuseppe Ambrosoli, medico e missionario comboniano, e a lui intitolato.

    Qui accanto è nato il Santa Bakhita. Un progetto iniziato dalla tenacia di una giovane donna Acholi che voleva fare qualcosa per la sua gente, Prisca Ojok, e dalla determinazione di un esperto della Cooperazione italiana, Cesare Forni, che aveva capito – quando ancora la guerra era in corso – quanto fosse urgente “ricostruire” un’intera generazione di ugandesi prima ancora che le case e le strutture.

    Prisca era nel nostro Paese da molti anni, dal 1992, oggi è cittadina italiana. «Ma quando ho potuto ritornare qui dopo tanto tempo», racconta, «mi sono resa conto che la mia Kalongo doveva ricominciare da zero. Le mie vacanze le passavo qui. Ho riportato ai propri villaggi d’origine 800 persone».

    Poi l’incontro con Forni, e l’idea di ripartire da coloro che più avevano sofferto durante la guerra: le ragazze e le donne. Finiti i lavori per la costruzione del centro, nel 2007, Prisca, Suor Mary Tarcisia (diventata una delle colonne del Centro) e gli altri collaboratori hanno cominciato a girare per i villaggi e i campi degli sfollati per individuare i casi più disperati: «Le studentesse che oggi vede ridere e scherzare nelle loro divise bianche e blu erano quasi tutte sole, abbandonate a se stesse, spesso con figli frutto di violenze», spiega. «Erano profondamente traumatizzate, ma soprattutto rassegnate a non avere un futuro».

    Sono tutte fra i 18 e i 23 anni. Oltre a completare gli studi interrotti dalla guerra, imparano un mestiere: sartoria, tessitura, informatica, segreteria d’azienda. «Alcune», aggiunge Prisca, «rapite giovanissime, non hanno gli strumenti culturali per fare i corsi triennali. Così abbiamo pensato per loro una preparazione più breve, di due anni, che permetta subito di lavorare».

    Per quasi cinque anni il Centro è stato sostenuto dai fondi della Cooperazione Italiana. Ora il progetto è finito, nel marzo 2010, e l’opera si sostiene con l’aiuto di donazioni private e il sostegno a distanza. A questo scopo è nata anche un’associazione Mar Lawoti, che in lingua Acholi significa “Amatevi gli uni gli altri”, con sede a Bassano del Grappa, la cittadina dove vive Prisca.

    «Ma stiamo lavorando anche per l’autosufficienza», aggiunge Prisca. «Perciò abbiamo realizzato la fattoria, la falegnameria, il frantoio per l’olio, la produzione di tessuti e prodotti d’artigianato. Tutto con un pugno di collaboratori e le nostre diplomate della scuola. Il prossimo passo sarà un piccolo ristorante. L’obiettivo è che il Centro Santa Bakhita riesca a reggersi con le sue gambe».

Luciano Scalettari
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