02/09/2010
Alice Lakott, 23 anni, rapita dai ribelli quando ne aveva sedici, con in braccio il figlio più piccolo. È madre di un altro bimbo di 5 anni.
Kalongo, Nord Uganda
Quello che ha passato Alice è persino difficile da ascoltare. È una delle 206 ragazze accolte nel Centro Santa Bakhita di Kalongo. Sono tutte vittime della guerra civile che per 23 anni ha insanguinato il Nord Uganda. Sono giovani rapite dai ribelli, alcune quando ancora erano bambine di 9 o 10 anni. Tutte hanno subìto violenze sessuali e di ogni altro genere. Una parte di loro sono state obbligate ad addestrarsi e a combattere, e oltre che vittime sono anche diventate carnefici.
Il centro di Kalongo è nato nel 2005 per volontà di Prisca Ojok, ugandese naturalizzata italiana, e di Cesare Forni, allora esperto della Cooperazione Italiana di Kampala e oggi volontario al centro. Il Santa Bakhita oggi è una grossa realtà: oltre alla cura e al reinserimento delle 206 ragazze, fa corsi di alfabetizzazione per un migliaio di donne; ha creato due scuole materne, una per 600 e l'altra per 400 bambini; insegna un mestiere a queste giovani donne: taglio e cucito, tessitura, ristorazione, segreteria, informatica; gestisce un'azienda agricola su un terreno di oltre 450 acri.
Le ragioni che hanno spinto Prisca e Cesare Forni a realizzare tutto ciò si comprendono ascoltando la vicenda di Alice Lakot, oggi ventitreenne con due bambini, il più grande di 5 anni, il piccino di pochi mesi. È fra le studentesse di taglio e cucito. Voce incolore e sguardo fisso nel nulla, racconta.
«Sono stata rapita dai ribelli nel 2004, a Wallrogo, il mio villaggio, non lontano da qui. Avevo 16 anni. Ero nel campo a lavorare. Sono stata rapita insieme a mia sorella. I miei genitori e il marito di mia sorella sono stati uccisi subito. I ribelli mi hanno violentata quello stesso giorno. Poi mi hanno portata via con loro. Mia sorella non l'ho più vista. E non l'ho mai più rivista. Dopo sei anni non ho molte speranze che sia viva».
«Gli abusi sessuali erano continui, anche in pubblico, davanti a tutti. Sono rimasta incinta. Quando la gravidanza è avanzata, non potevo camminare veloce. I gruppo di ribelli si spostava in continuazione, e io faticavo a star loro dietro. Allora mi bastonavano, mi prendevano a calci. Qualcuno aveva pietà di me e mi prendeva in braccio. Altrimenti mi avrebbero uccisa».
«Poi sono riuscita a scappare. Dopo quanto tempo? Non lo so. Sei mesi, un anno. Sono tornata qui, in un campo di sfollati. Non avevo più nessuno. Vivevo da sola in una capanna con mio figlio. Una notte mi hanno violentata di nuovo. E ho avuto il secondo bambino».
Alice, oggi ha spesso incubi notturni, si sveglia urlando. In certi momenti si chiude e non parla più per molte ore. Nonostante tutto, Alice ora ha progetti per il futuro: «Voglio fare l'insegnante di taglio e cucito», dice, «Ho due figli e non ho nessuno. Ora sono sicura di poterli mantenere. Non ho più preoccupazioni. Sono sicura che posso farcela, e che inizierò a lavorare appena finita la scuola».
Le 206 ragazze assistite dal Centro Santa Bakhita sono una piccola parte delle miglaia che in Nord Uganda potrebbero raccontare una storia simile.
Luciano Scalettari