L'Africa che spera 4-Il Ruanda rinasce

Il Paese delle mille colline dopo il genocidio è ripartito da zero. Resta molta povertà, ma sugli Obiettivi del Millennio ha fatto passi da gigante. E con le donne "in prima linea".

Nel nome di don Bosco, contro la povertà

18/09/2010
Un'istantanea della periferia di Kigali, la capitale ruandese
Un'istantanea della periferia di Kigali, la capitale ruandese

Kigali, Ruanda
 
«La povertà c’è, ed è molta. Qui a Kigali, città ormai di un milione e mezzo di abitanti, è meno visibile. Le mille luci della capitale ingannano, ma se esci dal Centro, appena qui dietro c’è un quartiere che dieci anni fa contava 3 mila abitanti, oggi ne ha 30 mila, ed è tutta gente molto povera. Le case le fanno ancora coi mattoni di fango. Sulle colline poi, è peggio, si soffre ancora la fame».

    Padre Frans Vandecandelaere, belga, è missionario in Africa da 40 anni, dei quali una quindicina passati in Ruanda. Per avere il termometro della situazione sulla povertà e sui giovani occorre andare dai salesiani. È così anche in questo piccolo Paese africano. I “preti di don Bosco” – come li chiamano anche qui – nella capitale Kigali sono presenti con due grosse realtà: Gatenga – di cui padre Frans è direttore – un grosso centro che, fra le mille cose di cui si occupa, punta soprattutto sulle attività più caratteristiche dei salesiani, cioè scolarizzazione di bambini e giovani, preparazione professionale, alfabetizzazione, orientamento al lavoro (in collaborazione con l’Ong di Bologna Amici dei Popoli).

    «Abbiamo oltre 700 studenti», aggiunge il missionario, «150 dei quali in internato. Facciamo scuola professionale su due livelli, corsi biennali e triennali. I nostri studenti provengono quasi tutti dal ceto sociale più povero. Una nostra indagine ci ha permesso di appurare che il 95% di loro non ha alle spalle una famiglia, nel senso tradizionale del termine. Ci sono orfani, ragazzi che hanno uno solo dei genitori, altri che vivono con i fratelli o parenti più lontani. La stragrande maggioranza delle situazioni di povertà è dovuta alle conseguenze del genocidio».

    Anche in Ruanda colpisce la precarizzazione del lavoro. Non si assume più a tempo indeterminato, e nemmeno per lunghi periodi: «Tutti contratti brevi», spiega il salesiano. «Due mesi, tre, massimo sei. Il problema del lavoro è in testa alle priorità».

    Il Ruanda era uscito azzerato dalla guerra civile del 1994. Il tentato genocidio dei tutsi e degli hutu moderati aveva provocato un milione di vittime e la devastazione dell’intero Paese. Padre Danko Litric, confratello salesiano di origine croata, quei terribili momenti li ha vissuti in prima persona. Ha assistito impotente al massacro di oltre mille persona nella chiesa di cui allora era parroco, nella missione di Musha. E i miliziani estremisti hutu avevano già deciso di eliminare anche lui, scomodo testimone. Era stato salvato all’ultimo minuto da un commando di militari belgi.

    «Il Paese è ripartito da zero», dice. «Negli anni Ottanta quasi tutti andavano ancora in giro senza scarpe. Oggi è cambiato tutto. Poi, in questi 16 anni, seguiti al genocidio, si sono fatti enormi passi avanti in alcuni ambiti, come nella sanità, nell’accesso all’energia elettrica e all’acqua, nelle infrastrutture e nelle strade. Ma non nella lotta alla povertà. Gli ultimi provvedimenti, poi, quali il divieto di vendere carbone da legno, di coltivare nei fondo valle, o l’imposizione delle colture a seconda delle zone del Paese, potrà portare benefici in futuro, ma al momento ha impoverito ulteriormente le fasce più vulnerabili della popolazione. Non esagero se dico che il 60 per cento dei ruandesi vive ancora sotto la soglia di povertà».

    Padre Danko oggi è l’economo provinciale dei salesiani, e gestisce anche l’altro enorme complesso scolastico della congregazione a Kigali, l’Ifak, Istituto di formazione apostolica di Kimihurura. Vi è ospitata una scuola primaria con 800 bambini e una secondaria con altri 600 giovani. Il missionario croato sottolinea che lo sviluppo tumultuoso di questi ultimi anni è stato tutt’altro che omogeneo: «È cresciuta la distanza fra ricchi e poveri, come pure fra le condizioni di vita in città e nelle colline».

    Padre Danko non dimentica un’altra delle “ferite aperte” del Ruanda: le prigioni, ancora affollate dai responsabili del genocidio. «Due volte al mese vado a visitare i carcerati di una delle due prigioni di Kigali», spiega. «Più della metà dei detenuti sono reclusi per reati legati al genocidio. Sono molti quelli che si confessano per aver ucciso o per aver istigato a uccidere. C’è anche chi confessa di aver accusato qualcuno ingiustamente, mentendo. In carcere mi è capitato di trovare anche qualcuno dei miei ex catechisti», aggiunge triste. Alcuni di loro in seguito sono stati rilasciati, perché hanno dimostrato la loro innocenza. Ma altri, purtroppo, sono stati condannati per partecipazione ai massacri».

    «In ogni caso», conclude, «negli anni mi sono convinto di una cosa: il genocidio non è stato voluto dalla gente. È stato voluto e pianificato dai capi, politici e militari. Ma tante persone comuni non hanno saputo sottrarsi al conivolgimento».

Luciano Scalettari
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