18/09/2010
Uno scorcio di Kigali, la capitale ruandese. Sulla destra, un passante indossa la maglietta col volto del presidente Paul Kagame.
Distretto di Byumba, Ruanda
È strana questa capitale africana. Per chi c’è stato durante il genocidio, per quante volte ci si ritorni, permane quel senso di disorientamento nel vedere oggi una grande città di un milione e mezzo di abitanti, con traffico intenso, strade perfette (almeno le arterie principali), negozi, discoteche, pub, alberghi che aprono in continuazione, mentre i ricordi richiamano una Kigali spettrale, percorsa dalle bande di miliziani (chiamati interahamwe) e di soldataglia che dava la caccia ai tutsi.
Tornano alla mente i massacri, la violenza inaudita che questa città ha visto compiersi in non più di 100 giorni: un milione di morti, in gran parte dell’etnia tutsi, e molti di coloro – anche dell’altra etnia, gli hutu – che non aveva accettato la logica dell’essere vittima o carnefice, senza via di scampo.
Allora gli abitanti di Kigali non superavano il mezzo milione. Il memoriale del genocidio, sorto da pochi anni in città, ospita i corpi di 270 mila vittime, raccolti nella capitale e nelle vicinanze. Una mattanza che non ha eguali nella storia del Novecento, per rapidità e quantità: in quei cento giorni venivano uccise mediamente 7 persone al minuto. In Ruanda oggi non c’è una famiglia che non pianga almeno qualche partente ucciso, o viceversa qualcuno finito in carcere.
Il piccolo Paese africano si sta risollevando con sulle spalle il gioco di questo tragico avvenimento, che ha segnato un prima e un dopo nella storia del Paese. La sua economia cresce, ma è fragile: quasi il 70% del Pil è frutto di aiuti internazionali.
Il Governo vuole investimenti, più che aiuti, ma non può fare a meno del sostegno delle agenzie umanitarie, delle missioni, delle Ong, perché la povertà estrema è ancora tanta. Riguarda più di metà della popolazione.
Quanto allo stato di salute della democrazia, non è proprio in ottime condizioni: le recenti elezioni hanno vistodi nuovo vincitore il presidente uscente Paul Kagame, col 93% dei consensi. Troppi per un Paese libero. Troppi per un Paese che nei mesi precedenti il voto ha assistito alle pesanti pressioni sull’informazione, all’arresto di candidati politici dell’opposizione, allo scoppio di diverse bombe nella capitale, ad alcuni inquietanti omicidi eccellenti.
Sul piano dello sviluppo, tuttavia, il Governo vuole far vedere che il Ruanda ce la fa. A tutti i costi, anche nascondendo “sotto il tappeto” quello che non va. Ad esempio, la povertà delle zone rurali, quelle tradizionalmente più arretrate nelle zone più remote del “Paese delle mille colline”, o le sacche di miseria che sussistono anche nei quartieri poveri della capitale Kigali o della città universitaria di Butare.
Ma lo vuol far vedere con il suo programma d’interventi, massiccio e su tutti i fronti: dal sistema sanitario alla diffusione dell’energia elettrica e dell’acqua potabile, dal sistema stradale, all’impetuosa informatizzazione, dalla scolarizzazione massiccia agli investimenti in infrastrutture produttive.
Luciano Scalettari