10/04/2013
Alcuni dei profughi e dei rifugiati che hanno ccupato delle palazzine nell'ex Villaggio olimpico di Torino. Foto di Paolo Siccardi/Sync.
E' aprile. Ma fuori sembra di essere a novembre. E
dentro è molto peggio. Il freddo fra i muri delle tre palazzine
dell'ex Villaggio olimpico a Torino occupate da oltre 400 profughi ti
paralizza. Sono quasi tutti africani, fuggiti dalla Libia nel 2011
dopo il crollo del regime di Gheddafi. Fino allo scorso febbraio sono
stati ospitati in comunità e centri di accoglienza, come previsto dal
progetto Emergenza Nord Africa. Poi, un po' per i soliti problemi
burocratici, un po' perché i soldi sono finiti, si sono ritrovati in
mezzo a una strada, per arrivare infine qui.
Tra loro, ci sono una
ventina di donne, nove bambini e alcuni malati, tra cui due
diabetici. La cosa incredibile è che a occuparsi di tutte queste
persone, 24 ore su 24, sono solo una ventina di giovani che hanno
costituito un comitato spontaneo: ci sono studenti universitari,
ragazzi dei centri sociali e altri che hanno deciso di dare una mano
semplicemente perché abitano in questo quartiere. Carlo Maddalena,
insegnante di italiano per stranieri, è uno di loro: “Alcuni
medici di Emergency ci hanno detto che verranno qui a visitare queste
persone. Hanno bisogno di tutto: cibo, acqua, materassi, coperte,
vestiti. Per fortuna il via vai di gente che viene ad aiutarci è
continuo: da suor Livia ai tanti abitanti del quartiere che hanno
capito che non stiamo offrendo ospitalità a delinquenti, ma a gente
fuggita da guerre e persecuzioni. Una condizione che, tra l'altro,
impedisce loro di cercarsi un lavoro all'estero: molti hanno provato
ad andare in Francia, ma sono stati respinti perché la normativa
europea sui rifugiati politici impone così. Noi del comitato siamo
disposti a collaborare con le istituzioni, ma finora non si è visto
nessuno”.
L'ex Villaggio olimpico di Torino occupato da rifugiati e profughi. Foto di Paolo Siccardi/Sync.
Nelle tre palazzine, nulla deve andare sprecato. Su un
frigorifero, un foglio scritto a pennarello verde avverte: “pasta e
tacchino da consumare (portati domenica)”. In un angolo, fra un
seggiolino per bambini e un mucchio di giocattoli, spunta una
videocassetta di “Rambo III”. "Devo scrivere questo messaggio anche in arabo: c'è qualcuno che può
aiutarmi?". Irene è una delle volontarie del comitato che più
si dà da fare in questi giorni. "Per la traduzione, basta Google, ma per
scrivere ho bisogno di qualcuno". Si fa avanti Sidi Mohamed, che copia
con pazienza il messaggio sulle cose da fare per il giorno dopo su vari
fogli che finiranno appesi sulle vetrate dove già trovano spazio cartelli
con informazioni sulle mense, su avvocati e medici che offrono
assistenza gratuita e sui centri per l'impiego. Nessuno vuole restare
con le mani in mano.
Parlando con loro, tutti ripetono che in Libia
avevano un lavoro e che per loro questa condizione è umiliante.
Provengono da vari Paesi africani, hanno religioni e lingue diverse,
eppure finora il rapporto è di grande collaborazione. “Ogni tanto
c'è qualche momento di tensione”, dice ancora Carlo, “ma quando
dici che per i tuoi 4 bambini per il momento c'è a disposizione un
solo materasso è facile capire perché”. Per il momento, tutti si
mettono diligentemente in fila per il pranzo che, in assenza di gas,
consiste in una manciata di foglie di insalata e di ceci,
accompagnati da una fetta di pane.
Il flusso di gente che arriva è
continuo e, da quando si è sparsa la voce, non tutti sono rifugiati.
Aisha, per esempio, studia lingue e letterature straniere
all'Università. Con i lavoretti che fa riesce a pagarsi la retta, ma
per dormire non sempre trova un'amica disposta a ospitarla e così ha
deciso di passare almeno qualche notte qui. Ahmed, invece, è da poco
uscito di prigione: “Ho fatto 13 anni. Una casa ce l'ho, ma ho
fame”. Prende il suo piattino di insalata e ceci e si mette a
chiacchierare con gli altri. Finora, insomma, è tutto tranquillo. Ma
quanto durerà? Di sicuro, i ragazzi del comitato non possono essere
lasciati soli. E alle persone che vivono qui bisogna trovare
un'alternativa al freddo di queste mura.
Eugenio Arcidiacono
Dossier a cura di Eugenio Arcidiacono