15/03/2011
Vincenzo Gioberti
In occasione della celebrazione del 150˚anniversario dell’Unità, il dibattito storico sulla “Questione risorgimentale” sta vivendo un momento di vivacità, a livello sia politico che mediatico.
Da varie parti, infatti, e con diverse motivazioni vengono espresse sempre di più perplessità sul modo in cui fu raggiunta l’unificazione e sull’opportunità della forma di Stato accentrato adottata dall’élite politica piemontese del tempo. Per questi “antiunitaristi” si trattò di un’operazione condotta affrettatamente, sotto l’incalzare degli eventi. La rivoluzione, nata come moto antiaustriaco, da moderata, quale in effetti la voleva Cavour, divenne radicale, quando Garibaldi e i democratici ne presero la direzione dopo il 1859. Così l’unità della Penisola, raggiunta quasi forzatamente nel giro di pochi anni, con il passare del tempo si sarebbe rivelata inadatta, anzi addirittura dannosa per gli interessi generali della nazione, poiché, sostengono gli “antiunitaristi”, sarebbe stata portata a termine senza tenere contodelle diversità radicali esistenti tra le varie parti della Penisola, segnate per secoli da modelli sociali e di sviluppo economico diversissimi.
Il Risorgimento, secondo gli storici “unitaristi” laici e cattolici, che sono in realtà la grande maggioranza, fu, invece, un processo che si è mosso secondo spinte non sempre univocamente indirizzate, e dove si sono confrontate posizioni culturali o scelte ideologiche differenti. Va ricordato che esso, almeno agli inizi, ebbe una vocazione pluralista, animata da prospettive differenti, anchese nutrite dal medesimo spirito. Nello stesso periodo vennero alla luce sia i progetti “federalisti”, messi a punto da Vincenzo Gioberti o da Massimo D’Azeglio e da Carlo Cattaneo, sia quelli rigorosamente “unitaristi”di Giuseppe Mazzini o di Giuseppe Garibaldi. Alla fine si realizzò, come è stato detto, un’unificazione artigianale piena di difetti, forse l’unica possibile.
Il Risorgimento, inteso come movimento di idee, è nato e cresciuto all’interno del pensiero politico cattolico (neoguelfismo) e all’interno di questo ha ricevuto il suo primo programma di azione. Insomma, accanto a Mazzini e prima ancora di Cavour ci sono stati Antonio Rosmini e Vincenzo Gioberti, che pensarono al nuovo assetto politico e sociale della Penisola in termini “italiani”, e che videro nel confluire di culture e tradizioni locali diverse, amalgamate dallo stesso cemento della fede cattolica, le condizioni per la nascita di uno Stato confederale sottoposto alla medesima direzione politica ed economica. Gioberti fu uno dei primi a pensare la nazione italiana in termini unitari, con il Papa «presidente naturale e perpetuo» di questa «confederazione di principi e di popoli». Ciò, egli pensava, avrebbe restituito all’Italia il «primato morale e civile» che essa in passato aveva avuto sututte le nazioni e civiltà dell’Occidente cristiano. Le teorie giobertiane avevano, inoltre, il merito di pensare l’unificazione nazionale non soltanto in chiave politica e istituzionale – come poi in effetti la ridusse la strategia cavouriana – ma anche culturale e sociale, accordandola al particolarismo delle tradizioni regionali dei diversi Stati della Penisola e utilizzando come cemento unificatore della nuova identità nazionale il grande patrimonio culturale e di fede della tradizione cattolica italiana.
Il moto risorgimentale, come si è detto, si mosse invece in altra direzione e divenne anzi, a partire dal 1860, palesemente anticlericale e a volte anche anticattolico, soprattutto quando repubblicani radicali e massoni ne presero la direzione. Il modello di unificazione che poi fu attuato non fu certo quello regionalista propugnato dai cattolici o da alcuni liberali moderati, che tendevano a valorizzare le realtà locali anche in termini di autogoverno, bensì quello accentrato, imposto dai piemontesi vincitori e ricalcato sul prototipo francese. Questo fatto creò una prima frattura tra il giovane Stato, appena unificato, e la nazione italiana, e ciò prima ancora che iniziasse lo scontro tra Stato e Chiesa e nascesse la “Questione romana”, alla quale i liberali imputarono tale dolorosa scissione.
Si può dire, insomma, che nel tumultuoso e affrettato processo di unificazione lo Stato accentratore soffocò e annientò la nazione, portatrice di istanze sociali e culturali molto diverse tra loro. Soltanto successivamente, dopo aver combattuto due sanguinosissime guerre, l’Italia divenne, nella sostanza, una e indivisibile. Per questo siamo chiamati oggi a difendere, contro i progetti politici disgregatori o in qualche modo separatisti, ciò che a fatica gli italiani hanno costruito nel corso di un secolo di lotte politiche e infiniti dibattiti, e i cattolici sono chiamati a essere parte attiva di tale impegno culturale e civile.
Padre Giovanni Sale, gesuita, storico, Civiltà Cattolica
A cura di Alberto Chiara