Liberiamo la domenica, aderisci

La campagna della Confesercenti e della Cei. La raccolta di firme fuori dalle chiese domenica 25 novembre. Cresce l'ostilità alle aperture indiscriminate degli esercizi commerciali.

Tieni il tempo, riti e cerimonie nella storia, fino ad oggi

24/11/2012

Un esempio? Prendiamo il 2012, ormai prossimo a finire. E partiamo dall'inizio. In Italia e in molti altri Paesi del pianeta, Capodanno è coinciso con il primo gennaio. Si dirà: perbacco, che notizia. Sorrisi. Spallucce. Che c’è di strano? Già. La prospettiva cambia e il sarcasmo sfuma se si pensa che lo stesso identico Capodanno una parte consistente del mondo lo ha celebrato giorni e giorni più in là.

In Cina, quasi un miliardo e mezzo di persone lo ha infatti festeggiato a partire dal 23 gennaio, data d’inizio dell’anno del Drago, simbolo del potere imperiale ed emblema di forza, ricchezza, prosperità. Stessa cosa in uno Stato confinante, il Vietnam, dove il Capodanno si chiama Tet. In Laos, e siamo sempre nella Penisola indocinese, il nuovo anno ha mosso i suoi primi passi soltanto fra il 13 e il 15 aprile. Insomma, si fa presto a dire “festa”. «Anche se con l’andar dei secoli le modalità cambiano e si differenziano, da sempre l’umanità tiene distinti il tempo del lavoro e quello del riposo», osserva la professoressa Laura Bonato, che insegna antropologia culturale all’Università di Torino. «Le prime scoperte l’uomo le fa su sé stesso e poi guardandosi intorno: il fuoco, il clan, il correre inseguendole prede durante le battute di caccia che diventa all’occorrenza danza di propiziazione o di ringraziamento. Via via vengono solennizzati sia i momenti di quiete settimanale che quelli di passaggio: il susseguirsi dellestagioni, la fine della mietitura, il termine della vendemmia, le nascite, le morti».

«In ogni civiltà, da quelle mesopotamiche a quella egizia giù giù fino a quella greca e aquella romana, molto, se non tutto, ruota attorno all’alternarsi tra luce e tenebra, un intreccio percepito spesso come “lotta”», prosegue la professoressa Laura Bonato. «Il 25 dicembre 274, a Roma, Aureliano consacra sulle pendici del Quirinale il tempio del Sol invictus, stabilendo una festa chiamata Dies natalis solis invicti, giorno della nascita del sole invitto, e facendo del dio-sole la principale divinità del suo impero al punto da indossare, egli stesso, una corona a raggi. Il cristianesimo trasformerà questa celebrazione nel Natale del Signore. Non è tutto. Con un decreto del 7 marzo 321, l’imperatore Costantino stabilisce che il primo giorno della settimana (il giorno del sole, dies solis) dev’essere dedicato al riposo. Il 3 novembre 383, sotto l’imperatore Teodosio, il dies solis, chiamato anche dies dominicus, giorno del Signore, in accordo con l’uso cristiano attestato da quasitre secoli, viene dichiarato giorno di riposo obbligatorio in cui non si possono celebrare processi né trattare affari né riscuotere debiti. Interessante notare come venga messo nero su bianco che quanti non rispettano l’editto devono essere considerati sacrileghi».

L’eco di queste scelte è giunto a noi attravers ol’evoluzione delle lingue moderne. «Nel Nord Europa sopravvive ostinatamente il giorno del sole, il dies solis, giacché in inglesela domenica è sunday, in olandese zondage, in tedesco sonntag. Italiano, francese espagnolo, con domenica, dimanche e domingo, optano per la formulazione cristiana che, come abbiamo già visto, trasforma il giornodel sole in quello del Signore, dies Domini».

Per secoli, sia le domeniche che le grandi feste cadenzano le vite dei singoli, delle famiglie, della società. «C’era il vestito bello da indossare per andare a Messa, si tirava fuori la tovaglia ricamata per apparecchiare con maggior decoro la tavola, si usavano le stoviglie di un certo tipo e anche le pietanze si facevano più elaborate», ricorda la professoressa Bonato. «Tutti segni esteriori che “testimoniavano” il primato della domenica».

E oggi, che fine ha fatto la festa? «Chi ne ha decretato la fine è stato frettoloso e impreciso», puntualizza l’antropologa. «Vale un po’ a tutti i livelli. Si lavora di più la domenica e le famiglie (già provate per altri motivi) sono spesso divise anche il “settimo giorno”, questo è fuor di dubbio. Ma i più recenti studi dimostrano che si affermano reazioni originali e fantasiose. La più diffusa è il riappropriarsi delle sere, sia quella del sabato sia quella della domenica. La voglia di incontrarsi, di dialogare, di “stare bene insieme” è insita nell’uomo e nella donna ed è più forte anche dei ritmi di lavoro più disumanizzanti».

«A livello sociale, poi, si assiste alla nascita di nuovi fenomeni o al rapido aggiornamento di antichi riti», conclude Laura Bonato. «Pensiamo al moltiplicarsi delle notti bianche, delle sagre d’ogni genere, ai flash mob, ai maxi aperitivi di piazza (in Francia vanno di moda e radunano anche 9-10 mila persone alla volta): che cosa sono se non voglia di difendere un “tempo” che è altro dal lavoro, in cui ciascuno è libero di esprimersi, di coltivare i propri interessi, di tessere relazioni interpersonali? Ma pensiamo a cosa significa il recupero del Carnevale, del Palio o di certi appuntamenti del passato, penso in particolar modo alla danza degli spadonari, che ho studiato da vicino, e che accomuna mezza Europa, dalla Romania alla Spagna, dall’Italia al Regno Unito. La stessa analisi è applicabile ad altre culture alle prese con tumultuose evoluzioni economico-sociali, dall’Oriente al Sudamerica, passando per l’Africa. Niente e nessuno possono sradicare dal nostro cuore il piacevole bisogno di fermarci qualche ora ogni settimana, qualche giorno ogni anno».

Alberto Chiara

A cura di Alberto Chiara
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