09/06/2013
Un poster dei Beatles in un Apple store in California (Reuters).
È passato mezzo secolo dal primo album dei Beatles e quasi sessant'anni da quella Rock around the clock che segnò l'avvento dell'epopea rock'n'roll.
Ma se dal punto di vista squisitamente stilistico il rock è sempre lì, con le sue luci e le sue ombre, coi suoi sempiterni capolavori ancora capaci di regalare brividi anche ai giovani di oggi, così come di sopravvivere in un'infinità di nuove band in grado di riprodurne gli schemi, dall'altra è fuor di dubbio che ha perso gran parte della sua capacità propulsiva e innovativa, riproducendosi in canoni espressivi che raramente riescono ad affrancarsi dai modelli primigeni.
Del resto la Musica s'è sempre evoluta nello stesso modo, da Palestrina agli U2: un genere considerato “di moda” viene pian piano insidiato da una nuova tendenza (di solito bollata come “sbagliata” o eccessivamente iconoclasta dai maestri dello stile considerato dominante), e tuttavia destinata a scalzare la norma stilistica di quel determinato momento fino a ridurla a retroguardia manieristica; per poi divenire essa stessa la nuova norma, per quanto destinata, a sua volta, a venir abrogata da lì a poco dall'avanguardia successiva... E così via.
Ma la domanda - il rock è roba da vecchi? - appare ancor più legittima se andiamo ad analizzare il rock dal punto di vista sociologico, ideologico, come fenomeno di mercato o di costume.
Il rock primigenio è nato e s'è sviluppato anche grazie a un'evidente contraddizione interna: una forma di comunicazione creativa in aperto conflitto con un sistema socio-economico nel quale era in realtà perfettamente integrata; contraddizione che già il leggendario festival di Woodstock del 1969 aveva portato platealmente allo scoperto. Non a caso per molti analisti quei “tre giorni di pace, amore e musica” rappresentarono insieme l'apogeo e l'inizio della decadenza del rock.
Da allora è stato un susseguirsi di epitaffi più o meno legittimi o
pretestuosi, decretati non già da una nuova generazione di innovatori,
ma piuttosto da nuovi presunti restauratori dello spirito ribellista
primigenio (basti pensare al punk), o da virtuosi più o meno
tradizionalisti (dall'hard-rock al grunge), o ancora, da una nuova
generazione di artisti smaniosi di emanciparne i consunti canoni
espressivi (buona parte degli esponenti della cosiddetta sub-cultura
hip-hop).
Stiamo ovviamente semplificando troppo, ma al di là della schematicità
di questi assunti non v'è dubbio che ciò che oggi chiamiamo rock (e
anche sull'indeterminatezza del termine molto ci sarebbe da dire) è per
molti versi comprimibile in una specie di ossimoro: un morto vivente;
una specie di zombie che ancora possiede nelle fattezze il riverbero del
suo imprinting, ma sempre più deformato dalle pressioni di una
pluralità frammentata di panorami sociologici (e stilistici) ben più
complessi e infinitamente lontani da quelli che fecero da sfondo alla
sua genesi.
E' un'ipotesi ovviamente, legittima e parziale come mille altre: perché
non v'è dubbio che per molti ragazzi del Terzo Millennio questa
etichetta continua a racchiudere o sottintendere, ad amplificare o
sintetizzare un'immutata ansia valoriale – a tratti politica, a tratti
spirituale – così come non si può non rilevare una ancor più accentuata
subalternità degli slanci creativi ai diktat dei mercati come agli
imperativi dei mutamenti tecnologici in corso, primo fra tutti il
passaggio epocale dal concetto di possesso a quello di accesso alla
musica imposto dal consumo in streaming.
Certo è che ciò che resta del
rock oggi è qualcosa di infinitamente più ondivago, sfuggente e
contraddittorio di quello delle origini: ad immagine e somiglianza delle
inquietudini del popolo dei suoi fruitori. E almeno in questo riflesso,
sì, il rock continua ad essere quello che è sempre stato.
Franz Coriasco
a cura di Paolo Perazzolo