06/05/2013
Giulio Andreotti, sette volte presidente del Consiglio, dal 17 febbraio 1972 al 28 giugno 1992 (Reuters)
Parlare di Giulio Andreotti mentre al Policlinico Gemelli di Roma era ricoverato in gravi condizioni, è come dire che in quella camera
d’ospedale era ospite la storia d’Italia degli ultimi settant’anni, né più
né meno. Il primo capitolo si svolge nel monastero di Camaldoli,
dove nei giorni del luglio 1943 che precedettero di pochissimo la caduta
del fascismo e l’arresto di Benito Mussolini, l’allora giovane
presidente della Fuci prese parte a quell’incontro clandestino di
cattolici variamente antifascisti da cui uscì il documento, chiamato
appunto “Codice di Camaldoli”, che avrebbe ispirato gran parte della
politica sociale ed economica dei Governi a maggioranza democristiana
per tutti gli anni dell’immediato dopoguerra.
Fu appunto in uno di quei governi, nel 1954, che Giulio Andreotti ebbe
il primo incarico ministeriale della sua lunghissima vita: ministro
dell’Interno, sotto la presidenza di Fanfani.
Se quella ormai quasi settantennale storia delle Repubblica italiana
fosse soltanto oggetto di una disquisizione politica, niente sarebbe più
trionfale, per Andreotti, che l’elenco record dei suoi incarichi
pubblici: sette volte presidente del Consiglio, dal 17 febbraio 1972 al 28 giugno 1992 (l’estate
tremenda degli attentati alla vita dei giudici palermitani Falcone e
Borsellino ad opera della mafia); otto volte ministro della Difesa;
cinque volte ministro degli Esteri; due volte delle Finanze, del
Bilancio e dell’Industria; una volta ministro dell’Interno e delle
Politiche comunitarie.
Il tutto era cominciato nel 1947, quando Alcide De Gasperi lo
scelse come suo sottosegretario alla presidenza del Consiglio, forse –si
disse- su suggerimento di Giovanni Battista Montini, allora sostituto
segretario di Stato vaticano, che lo aveva conosciuto quando era a sua
volta assistente ecclesiastico della Fuci. Andreotti giunse allora nel
Governo del Paese a soli ventotto anni (è nato a Roma il 14 gennaio del
1919).
Naturalmente non gli mancò mai il mandato parlamentare, da quello all’Assemblea Costituente nel 1946 a quello alla Camera dei deputati fino al 1991
e poi come senatore a vita fino a oggi. Sarebbe rubare il tempo a chi
legge tentare di ricostruire tutte le personali vicende dentro il
partito della Democrazia cristiana, dopo la morte di De Gasperi,
il suo grande, incomparabile protettore; il suo profilo apparve sempre
impegnato soprattutto nel gioco delle ”correnti”, e inclinato
complessivamente sulla destra “moderata” del partito, con incarichi nel
gruppo parlamentare che lo portarono ad avere amicizie, contatti e
minoranze interne addirittura fin dopo la morte della Dc e la breve
durata della Margherita, quando fu uno dei protagonisti della caduta del
secondo Governo Prodi il 21 febbraio del 2008, astenendosi dal voto al
programma del ministro degli Esteri D’Alema. (Ma ci fu chi scrisse
che in realtà Andreotti fosse contrario a iniziative del Gabinetto
prodiano riguardo ai Dico, che avevano suscitato il dissenso del
Vaticano e della Cei).
Ma questa storia d’Italia non è soltanto politica: la
straordinaria vita di Andreotti è un continuo intreccio fra poltrone di
governo, seggi parlamentari, operazioni diplomatiche in tutto il mondo
in difesa soprattutto della pace, contatti con grandi uomini di Stato di
Usa e di Urss, relazioni strette con il Vaticano e i suoi successivi
Papi, da Pio XII in giù.
Ma anche fra denunce, inchieste giornalistiche, investigazioni di
polizia, indagini giudiziarie, processi, in tanti dei suoi incarichi di
potere: dal “caso Giuffré” quando era ministro delle Finanze
(1958) agli “scandali” lungo gli anni Sessanta, dai fascicoli di
spionaggio del Sifar e del “Piano Solo, alla P2 di Licio Gelli.
Processato e assolto in primo grado per l’uccisione del giornalista
Pecorelli che sarebbe stato in possesso di documenti che lo accusavano
di uno scandalo dei petroli, fu condannato in appello a 24 anni di
reclusione, ma questa sentenza fu annullata senza rinvio dalla Corte di Cassazione;
e poi, man mano, si snodarono i suoi rapporti veri o presunti con il
banchiere Sindona, tragicamente morto avvelenato nel carcere di Voghera;
e infine quelli, anch’essi veri o presunti, almeno fino al 1980, con
capi mafia siciliana, che costarono ad Andreotti altri tre gradi di
processo, terminati con la “prescrizione” ma con il giudizio della Cassazione secondo il quale egli avrebbe fornito ai capimafia “una concreta collaborazione”, anche se sia da escludere il reato di “concorso esterno di in associazione mafiosa”.
Andreotti si è sempre difeso, scrivendo libri e concedendo interviste
giornalistiche e televisive, insistendo sul fatto che nessuno dei reati
contestatigli non è mai stato provato, oltre le dichiarazioni di questo o
di quel “pentito”. A noi sembra che debbano essere prese come esempio
di questa sua strenua difesa di fronte alle accuse di un Buscetta, di un
Mannoia o di un Di Maggio, le parole che concludono l’introduzione al
suo libro del 1995 “Cosa loro-Mai visti da vicino”: “L’aver trattato
da parte mia molto duramente la mafia con l’azione di governo e con le
leggi, non ha rilievo. Se l’ho fatto, è per una attività di simulatoria o
di copertura. E’ molto strano che proprio chi dovrebbe agire in
profondità per combattere i mafiosi dia loro questa patente
indiscutibile di uomini incapaci di mentire. C’è da chiedersi dove siano
i confini tra Cosa Nostra e Cosa loro”.
Su Andreotti gli storici non finiranno mai di scrivere e discutere. Chi
come noi lo ricorda in colloqui giornalistici nello studio di Palazzo
Chigi non potrà dimenticare la sua prontezza spesso sorridente nel
rispondere a tutte le domande, anche quelle più delicate: ad esempio,
perché decise di non “trattare” con le Br durante il sequestro di Aldo
Moro? Perché proprio lui, democristiano “moderato”, portò avanti in quel
tempo il progetto di Governo di “solidarietà nazionale” nato
dall’intesa Moro-Berlinguer? E’ vero: Andreotti rappresenta meglio e più di chiunque altro la storia dell’Italia repubblicana.
E se questo giudizio potesse sembrare equivoco e ambiguo fino a
Tangentopoli, quando egli uscì di scena dal potere, non è che, dopo, si
sia visto di più e di meglio.
Beppe Del Colle