06/05/2013
Andreotti ha giocato un ruolo fortemente controverso nella gestione del sequestro Moro (Ansa).
Cordiale senza emozioni. Mi aveva ricevuto subito – appena una telefonata – nel salottino del suo ufficio da senatore a vita. Si parlava dei 30 anni del sequestro Moro e dei giorni della prigionia. Se con Cossiga il colloquio era stato rilassato e ironico, con punte da melodramma (“ho ucciso io Moro, ho ucciso io Moro”, continuava a ripetere quasi gridando l’ex presidente della Repubblica), con Giulio Andreotti la conversazione era stata monocorde, quasi piatta.
“Eravamo amici alla Fuci, anzi fu lui che insistette perché io ne diventassi presidente”, spiegava per dire che aveva molto sofferto “per lo stato delle cose”, ma che non era responsabile della morte di Aldo Moro.
Cossiga si macerava “perché ero ministro dell’Interno, ero responsabile, non ho fatto tutto il possibile, sono stato ingenuo, non ho capito davvero che stava succedendo”. Andreotti non aveva sensi di colpa: “Non li ho perché so che non c’era assolutamente niente da poter fare”.
Inutile scrutare i lineamenti, non un muscolo tradiva i reali pensieri, quasi come se il sangue non scorresse nelle vene.
Aveva risposto a tutte le domande sempre con la stessa intonazione. E ribadendo la stessa linea di fermezza che aveva avuto da presidente del Consiglio fin dal primo giorno del suo insediamento quel 16 marzo 1978, dopo la strage di via Fani: “In quel momento bisognava non trattare. Il trattare significava riconoscere che fossero una forza politica, un’alternativa politica allo Stato, quello che volevano loro. La questione si era posta proprio sotto questo profilo del riconoscimento politico che significava una lotta contemporaneamente alla Dc e al partito comunista che, secondo loro, aveva tradito. Bisognava che i veri comunisti reagissero, secondo le Br. Su questo terreno non si poteva andare e non si andò”.
Secondo Andreotti neppure il Vaticano aveva mai realmente chiesto di aprire alla trattativa. “Macchi veniva tutte le sere a casa mia per vedere cosa si poteva fare”, raccontava Andreotti, “ma non fece mai richieste di trattativa”. E anche davanti alla lettura di una conversazione telefonica intercorsa la sera del 6 maggio tra lui e il cardinale di Firenze Giovanni Benelli, Andreotti non aveva tradito emozioni.
Nella telefonata, avvenuta alle 11 di sera, il cardinale sosteneva: “È fuori dalla lista dei tredici (elenco di detenuti da scarcerare fatto pervenire dalle Br, n.d.r.) ma si potrebbe esaminare il caso di un detenuto che per il suo stato di malattia chiede di essere trasferito a Napoli”, aggiungendo che per quel detenuto si poteva firmare la grazia e aprire qualche spiraglio alla liberazione di Moro. In modo un po’ improbabile Andreotti sosteneva, invece, che “con me Benelli non ha mai parlato di questo. Non esiste questa telefonata”.
Così come aveva smentito quello che lui stesso aveva affermato nel corso della presentazione di un libro di Maria Fida Moro sul rapimento di suo padre. E cioè che sapesse in anticipo del falso comunicato del lago della Duchessa (dove si sarebbe dovuto trovare il corpo di Moro).
“Rispondere adesso per allora è difficile”, mi aveva detto ricordando, però, che “si stava lavorando per un riscatto che avrebbe pagato il Vaticano ed era stato chiesto di dare una prova che la persona che si faceva da tramite fosse realmente collegata. Questo doveva mandare un biglietto oppure dare un tipo di prova effettiva. Ma non ricordo se fosse legato al falso comunicato. In ogni caso il tipo era un imbroglione, coinvolto in una rapina e poi finito male”.
L’impressione, parlando con lui, era che non ti avrebbe mai fatto capire la verità. Ogni frase e il contrario di essa era pronunciata con la stessa determinazione, serietà, senso di autorevolezza. L’unico punto sul quale non era mai tornato indietro era il ribadire la linea della fermezza. La stessa linea, a suo dire, che aveva anche il Vaticano.
“Non ho mai influenzato il Papa”, ricordava parlando del famoso appello di Paolo VI agli uomini delle Brigate rosse e a quelle due parole “senza condizioni” che, a detta di molti, avevano reso inutile la lettera del Papa.
“Anche amici di Moro, in buona fede, dicono che ho fatto aggiungere questa frase, ma il Papa se l’è fatta da solo quella lettera, è una leggenda”, ripeteva, “ma quando una frase uno la ripete cento volte è un precedente. Ottiene il risultato”.
Di fronte ad Andreotti
sentivi la forza del Potere che "crea" la verità. E, senza tentennamenti, mi aveva congedato dicendomi: “Non ho rimorsi. Naturalmente la famiglia è rimasta, salvo Maria Fida, in un’altra posizione.
Non li ho più visti. Posso capire”.
Annachiara Valle