06/05/2013
Il senatore a vita Giulio Andreotti, morto a Roma dopo 7 mandati (Reuters).
Non poteva farcela, il divo Giulio, a sopportare uno Stato che va sempre più in frantumi, lui che di questa Repubblica è stato uno dei massimi artefici fin dai primi vagiti. Si è assentato solo per la rielezione di Giorgio Napolitano apersi dente della Repubblica, tanto per capire quanto Giulio Andreotti ha dato all’assetto statale di una nazione che, se non lo ha amato, l’ha in ogni caso molto rispettato.
E così mentre la Seconda repubblica ripiega su se stessa, in cupa e rassegnata attesa di chi squasserà il Palazzo in poco tempo, il rappresentante per eccellenza della Prima repubblica toglie il disturbo. Giulio Andreotti, il divo Giulio, l’uomo che ha vissuto la storia repubblicana sempre e solo dalle posizioni di comando, a 94 anni compiuti a gennaio, ha detto basta, quasi un presagio del fatto che nella nostra politica e nella vita del Paese sta davvero cambiando tutto in fretta, maledettamente in fretta, e con modalità impensabili fino a pochi mesi fa.
Indro Montanelli, che di faccende democristiane se ne intendeva e da linguacciuto toscano amava rivaleggiare narcisisticamente con Andreotti quanto a battute, diceva che in chiesa Alcide De Gasperi si rivolgeva al Signore, mentre Giulio si rivolgeva al prete. D’altronde, è chiaro che, passando da delfino di De Gasperi a sottosegretario nei primi governi repubblicani, e da lì ai ministeri più importanti, dagli Interni (il più giovane della storia nel ruolo, aveva solo 34 anni) agli Esteri, dal Tesoro alle Finanze, dalle Partecipazioni Statali alla Difesa (per ben otto volte), tanto per fare alcuni esempi, e poi sette volte presidente del Consiglio (solo il suo maestro De Gasperi lo ha superato, otto), uno è destinato a sentirsene dire di tutti colori. Così, con un’alzata di spalle immaginaria, bastava una frasetta, una battuta rapida, cinica, glaciale, letale come il morso del cobra, a riportare le cose al loro posto: sopire, troncare, manzoniana regola del potere andreottiano.
E allora ecco che bastò un “A parte le guerre puniche, mi viene attribuito veramente tutto” per mettere a tacere voci su voci di malaffari, intrighi, intrallazzi, sporcizie affaristiche. E per restare vicini agli ambienti curiali, Andreotti fece sua una frase del cardinal Mazzarino, che riduceva al silenzio gli avversari prendendoli con la mossa del cavallo, di fianco, di sbieco, mai frontalmente: “A pensare male degli altri si fa peccato, ma spesso si indovina”. Il perfido messaggio arrivava: a chi noi non lo sappiamo, lui sì. Cosicché, astuto e a suo modo raffinato, azzerava anche la possibile replica, che infatti nessuno osò mai impugnare come arma: “Allora ciò varrebbe anche per te, caro Giulio”.
Andreotti ha attraversato la fase più vitale e complessa della storia del Paese, spesso scivolando come l’acqua sul vetro, ma col merito di aver governato gli umori più impulsivi e italianamente melodrammatici con la freddezza del capo e la capacità di guardare oltre, dove molti non vedevano, chi per obbligata miopia ideologica (la sinistra), chi per naturali impossibilità intellettuali (la destra). Non ha avuto paura di utilizzare ogni mezzo lecito, perché in politica si può e si deve saperlo fare (lezione che gli eredi di De Gasperi e Nenni, di Togliatti e Almirante, di Malagodi, La Malfa e Saragat non hanno saputo mettere in pratica nella Seconda Repubblica) senza perdere l’orientamento e, soprattutto, la credibilità.
Sostanziale ma anche quella apparente, sì, perché l’immagine conta e in questo Andreotti è stato un maestro, suo malgrado. Anzi, “il” maestro. Nell’epoca dell’esaltazione del corpo, il suo è asceso al ruolo di assoluto negativo, dai capelli corvini imbrillantinati e tiratissimi all’indietro alle labbra sottili, umide, perfide. Dalle mani lunghe e magre pronte a congiungersi a - ma sì, diciamolo – a quella schiena su cui hanno esercitato grevi battute comici d’ogni risma.
Erano i tempi in cui il Pci, spacciandosi ironico, spiegava nelle piazze com’erano i nostri governanti: Piccoli, Storti e Malfatti. In quei momenti, per estensione del pensiero, l’immaginazione andava davvero al potere e la mente si volgeva ad Andreotti.
Lui niente, sshhh, silenzioso, avvolto nei suoi celebri mal di testa, da cui riemergeva per dire finalmente la sua parola, quella definitiva, che tutti attendevano, quando ormai nessuno se l’aspettava più, stroncando, algido: “Ho avuto molti amici che facevano sport. Sono morti tutti”.
E avrà pure partecipato alla spartizione di molte torte, come si usa dire, ma l’ha saputo fare da perfetto democristiano, sempre che l’abbia fatto: in silenzio, a passi felpati, con discrezione, da felino sempre all’erta.
E come ogni felino, carnivoro, sapeva addentare la polpa giusta. Ma capiva, comunque, che la politica non è solo spartizione delle spoglie nemiche, ma pure capacità innata di annusare gli umori dei cittadini assecondandoli, per dare l’impressione di guidare verso un luminoso futuro un popolo che invece a lui chiedeva, in definitiva, di non essere guidato ma di poter fare per proprio conto. Ti lascio gli avanzi, ma spostati ragazzino, fammi lavorare.
Giulio Andreotti: un politico rispettato, temuto, ammirato, invidiato, e odiato. (Reuters).
Certo, la sua biografia ci fa credere che abbia pensato giorno dopo giorno solo al potere per il potere, ma ha saputo rispondere anche a questo, usando il curaro travestito da motto di spirito: “Il potere logora chi non ce l’ha”, mandando in bestia i suoi “nemici-amici” del Partito comunista, che Dio solo sa quanto avrebbero voluto un pezzetto di quelle poltrone, oh sì, anche uno strapuntino, se del caso.
Poi, dopo, nei salotti della Roma che conta, discuteva amabilmente ora con Guttuso, ora con Trombadori, e in Parlamento apprezzava “tecnicamente” gli interventi al vetriolo di Paietta, salvo poi, nelle pause dei lavori alla Camera, spartire potere locale con piccoli ras fedeli ai quali prometteva gloria imperitura, ma sempre, sia ben chiaro, sotto la sua ala protettrice.
Andreotti è stato un politico di razza vincente, che non è la stessa cosa che essere un politico di razza e basta. E come tutti i vincenti, non poteva che essere rispettato, temuto, ammirato, invidiato, e odiato.
In sostanza, Giulio Andreotti ha avuto lo stravagante merito di rappresentare tutta l’italianità democristiana senza mai essere troppo amato da chi ne approvava la politica del giorno dopo giorno.
E, al contempo, di essere così poco italiano che perfino i romani non lo hanno mai preso a modello, nonostante la capacità di apparire sempre scetticamente pronto a ogni evenienza, come se, per diritto storico acquisito, per dna, insomma, niente potesse stupirlo.
Italiano atipico, capace di comprenderne le mille altrui ragioni senza batter ciglio e farle proprie, ma ugualmente d’apparenza inerte di fronte ai risvolti sentimentali della vita quotidiana.
Non per caso, l’unico personaggio della vita pubblica del Paese che l’ha avvicinato rappresentandone gli umori, nel bene e nel male, è stato un uomo di spettacolo, Alberto Sordi, romano come lui e come lui sicuro cattolico, pieno di debolezze e denso di sentimenti che chiunque di noi, in questo Paese, può non solo capire, ma anche giustificare se non, addirittura, al fin d’ogni tenzone, apprezzare.
Aeroporto Leonardo da Vinci, stragi di Stato, crisi dei servizi segreti, caso-Moro, caso-Pecorelli, mafia, tutti i tabù avevano un punto d’incontro nei sospetti, nelle accuse, nelle proteste scandalizzate. Quel punto d’incontro aveva un nome, sempre quello: Andreotti.
Ma di fronte all’accusa di essere colluso con la mafia, il divo Giulio ha lasciato che l’ordinamento sociale, politico, giuridico del Paese facesse il suo corso. Forse perché era consapevole che in un ruolo come il suo il minimo era di essere messo sulla graticola; forse perché si credeva innocente; forse perché più di tutti Andreotti aveva capito che la regola del gioco prevedeva anche quei momenti di fango, non solo quelli di gloria.
O, forse, perché forte di una serie di agende personali da tramandare ai posteri, zeppa di osservazioni e rilievi su questo o su quello, che da sole bastano a far scendere un silenzio incupito sullo scenario personale e politico del democristiano più astuto e a far tremare i polsi a tutti gli altri.
Un personaggio unico, e per questo irripetibile in un’Italia che sta deviando dalla sua storia recente in modo talmente repentino da non lasciare spazio a scommesse sul futuro. Al quale, evidentemente, anche uno come Giulio Andreotti ha deciso di sottrarsi.
Perché lui magari direbbe, con lo sguardo obliquo e sornione, che le cose che non gli appartengono sono proprio quelle che non lo interessano.
Cinico? Sì, indubbiamente ma chi, oggi, in questo Paese sfasciato e anche schiavo di un potere che ha scambiato il consenso col possesso, comprenderebbe la solitaria grandezza di tale cinismo?
Manuel Gandin