06/05/2013
"Il potere logora chi non ce l'ha", è la massima più celebre di Andreotti
Per un battutista arguto come lui non deve essere il massimo passare alla storia per una battuta non sua. «Il potere logora chi non ce l’ha», senza alcun dubbio l’aforisma più famoso tra i tanti di Giulio Andreotti, appartiene infatti al celebre politico e diplomatico francese del ‘700, Charles Maurice de Tayllerand. Ma è bastato che il Divo Giulio, qualche secolo dopo, lo riproponesse come metafora di un certo modo di intendere (e fare) politica perché diventasse «sua». Alle soglie dei 90 anni, riconoscendolo come un autentico marchio di fabbrica, dirà: «È una massima eterna».
Potere (tanto), nemici (molti) e ironia (moltissima). È su questo terreno che nascono tutte le battute di Andreotti. Per i suoi nemici e detrattori era Belzebù, l'emblema di un potere che si alimenta nelle zone d’ombra e nei legami opachi con la mafia. E lui, di rimbalzo: «A parte le guerre puniche, mi viene attribuito veramente tutto». A chi lo accusava di essere un politico troppo incline al compromesso e alla mediazione pur di tenersi stretto il potere replicava: «Meglio tirare a campare che tirare le cuoia». E ancora: «Essendo noi uomini medi, le vie di mezzo sono, per noi, le più congeniali». Una fissa, lo "stare in mezzo". Politicamente, con la Democrazia cristiana, e non solo. Tanto da ispirargli il suo epitaffio: «Non si ritenne né un nano né un gigante, lieto di appartenere a una mediocrità aurea».
Sullo sfondo delle lotte con i compagni di partito e nemici vari spiegò: «A parlare male degli altri si fa peccato, ma spesso si indovina». Ogni volta che in Parlamento si discuteva delle aziende statali indebitate spiegò: «I pazzi si distinguono in due tipi: quelli che credono di essere Napoleone e quelli che credono di risanare le Ferrovie dello Stato». E a chi lo accusava di avere una visione miope e "inciucista" della politica replicò: «So di essere di media statura ma... non vedo giganti intorno a me».
L’ironia, d’altra parte, non gli ha mai fatto difetto. Come quando si prendeva burla della retorica di certi epitaffi (e chissà in questo momento cosa starà pensando ascoltando i suoi): «Aveva spiccato il senso della famiglia. Infatti ne aveva due ed oltre», commentò una volta su un personaggio.
Alla voce "morte e affini" di battute ne troviamo parecchie. «In fondo, io sono postumo di me stesso», disse una volta. E al medico che gli consigliava di tenersi in movimento lo fulmino così: «I miei amici che facevano sport sono morti da tempo». Scena peraltro immortalata nel film Il Divo di Sorrentino. Era il 21 ottobre 2011 quando Andreotti prese carta e penna per smentire personalmente i rumors che lo davano ricoverato da qualche giorno. E lo fece a modo suo scegliendo Dagospia. «In questi giorni», scrisse, «mi giungono voci insistenti su un mio ricovero per aggravamento di salute. Capisco che molti attendono un mio passaggio a "miglior vita", ma io non ho fretta e ringrazio tutti coloro ai quali sta a cuore la mia salute e in particolare il Signore per l'ulteriore proroga…». In un’altra occasione diceva: «La morte? Non sono pronto. Spero di morire il più tardi possibile». Per poi lasciarsi andare ad un auspicio: «Ho visto nascere la Prima Repubblica, e forse anche la Seconda. Mi auguro di vedere la Terza». Solo il film di Sorrentino Il Divo gli fece perdere il solito aplomb: «È molto cattivo, è una mascalzonata, direi. Cerca di rivoltare la realtà facendomi parlare con persone che non ho mai conosciuto». Toni poco andreottiani. E difatti poco dopo fa retromarcia: «Ha vinto (al Festival di Cannes) il film su di me? Se uno fa politica pare che essere ignorato sia peggio che essere criticato. Dunque...».
Allergico ai moralisti e perbenisti («La cattiveria dei buoni è pericolosissima», ripeteva spesso), quando in Consiglio dei ministri doveva mettere a tacere qualche ministro un po' intemperante diceva: «Non basta avere ragione: bisogna avere qualcuno che te la dia».
Antonio Sanfrancesco