23/07/2011
«Il figlio non è dunque un dono?
Viene solo per prendere e non per dare?
» (n. 11). Per risposta, la Lettera invita,
senza indulgere a contrapposizioni,
a un nuovo modo di pensare e mostra
come nessun altro bene-valore regge
a confronto con il bene-valore del figlio,
nella famiglia e nella società.
Come la generazione è compresa
nell’orizzonte dell’amore degli sposi,
così è anche l’educazione, che è generazione
che continua. C’è un nesso intrinseco
tra educare e generare: la relazione
educativa s’innesta nell’atto
generativo e nell’esperienza di essere
figli. La famiglia diviene comunità
educante nel suo essere famiglia, cioè
relazione che va dai genitori ai figli,
ma anche dai figli ai genitori: «Maestri
di umanità dei propri figli, essi la
apprendono da loro» (n. 16).
È un cerchio che si allarga: «Svolgono un ruolo singolare, da un lato, i genitori dei genitori e, dall’altro, i figli dei figli». Spesso la realtà, purtroppo, non si allarga, ma si restringe. La Lettera lamenta l’incresciosa situazione della sposa di essere spesso lasciata sola nella maternità e nell’educazione dei figli, e per di più di non essere considerata e stimata. Esige che il lavoro della donna sia riconosciuto anche economicamente, in quanto il suo lavoro non teme confronti con altri lavori e prestazioni. «La fatica della donna che, dopo aver dato alla luce un figlio, lo nutre, lo cura e si occupa della sua educazione, specialmente nei primi anni, è così grande da non temere il confronto con nessun lavoro professionale » (n. 17). La Lettera raggiunge un alto livello pedagogico nel considerare l’educazione come partecipazione alla pedagogia divina: «Se nel donare la vita, i genitori prendono parte all’opera creatrice di Dio, mediante l’educazione essi diventano partecipi della sua paterna e insieme materna pedagogia». Da qui «prende il via ogni processo di educazione cristiana che, al tempo stesso, è sempre educazione alla piena umanità» (n. 16).
Luigi Lorenzetti