22/04/2013
L’affido condiviso? Il suo riconoscimento legislativo e la sua
diffusione nella prassi delle separazioni italiane sono un fatto molto
positivo, che ha consentito di riportare i padri sulla scena educativa e
affettiva nella relazione con i figli. «Ma un coinvolgimento
significativo non significa, necessariamente, una suddivisione al 50% di
tutte le responsabilità organizzative e genitoriali. Ogni separazione è
una storia a sé. Se l’affido condiviso deve trasformarsi in una lotta
per avere tutto doppio, diventa una follia». Costanza Marzotto è psicologa, mediatrice familiare, direttore del Master biennale in Mediazione familiare e comunitaria
all’Università Cattolica e membro dell’équipe del Servizio di
Psicologia Clinica per la coppia e la famiglia che da anni ha istituito
anche i Gruppi di parola per i figli dei genitori separati (www.unicatt.it/serviziocoppiafamiglia).
Rispetto alle dinamiche e alla riuscita dell’affido condiviso in Italia
ha una visione estremamente lucida, che tiene conto anche del panorama
internazionale in cui questa esperienza ha già una lunga e importante
storia da raccontare.
Nell’ultima legislatura si è discusso di una proposta per incentivare
ulteriormente l’affido condiviso, facendo sì che i figli dei separati
abbiano davvero due domicili, due abitazioni, doppi luoghi degli interessi e degli affetti. Cosa ne pensa?
«Da un lato, penso che ci troviamo in una fase in cui l’esperienza
dell’affido condiviso è ancora fortemente rivendicata, soprattutto dai
padri, dunque si pretende il 50% di tutto per essere certi di essere
coinvolti nella vita dei figli. Ed è vero che attualmente il genitore
“collocatario” ha una posizione “dominante”, mentre l’altro, in una
posizione più accessoria, finisce per diventare maggiormente
rivendicativo soprattutto sul fronte economico, disposto per esempio a
pagare solo per le spese sostenute quando il figlio è con lui. Ma questo
non è il cuore del problema. E qual è, allora? Il problema è che i
genitori devono essere aiutati a chiedersi quale fosse, durante il
matrimonio, la loro delega di responsabilità genitoriale. Se un
padre, per esempio, aveva già un ruolo periferico nella vita dei figli –
e ciò avviene spesso, perché in Italia la struttura familiare vede
ancora un genitore principale e uno accessorio – sarà molto difficile
costruire “in laboratorio” un affido condiviso in cui all’improvviso
diventa presente e condivide esattamente a metà ogni responsabilità
educativa e familiare. Sappiamo che non è nemmeno questo che serve ai
figli».
In che senso?
«Una recentissima ricerca anglosassone, condotta su un campione di 400
giovani adulti che hanno ripercorso la separazione dei genitori, ha
fatto emergere il bisogno di un progetto il più possibile
personalizzato, che tenga conto dell’età e dei bisogni del singolo
bambino, basato più sulla qualità della relazione che sulla quantità.
Facciamo un esempio: per la qualità della relazione, forse è più
importante che un padre porti ogni settimana il proprio figlio a calcio o
a nuoto, piuttosto che gli imponga di condividere, magari fin dalle
prime settimane della separazione, una nuova casa in cui vive anche un
nuovo partner magari con altri figli».
Dunque è meglio non imporre una divisione della vita familiare “con il bilancino”...
«Esattamente, soprattutto, lo ripeto, se prima della separazione il
ruolo del padre era in qualche modo accessorio rispetto a quello della
madre. Questo non significa escludere un genitore, ma incoraggiarlo e
coinvolgerlo in una relazione davvero significativa. E’ quello che ci
chiedono anche i ragazzi: vorrebbero percepire che il genitore
collocatario incoraggia e sponsorizza il rapporto con l’altro genitore,
invece accade spesso che gli incontri sono vissuti con estrema tensione e
ansia di controllo».
Per questo si cercano strumenti giuridici per dare maggiore concretezza all’affido condiviso…
«Certo, abbiamo molte esperienze all’estero in questo senso: in
Canada, per esempio, l’alternanza tra una casa e l’altra è una realtà. L’affido
condiviso alternato, che impone al bambino di vivere a settimane
alterne in due case diverse, è però al centro di un fortissimo
ripensamento in Francia: sono stati i padri stessi a capire che il
cambiamento continuo del setting alimentare, educativo, organizzativo
era fonte di grande stress per i bambini e i ragazzi».
Allora, che fare?
«Accedere a una mediazione familiare precoce, avere un
orientamento informativo preventivo per stabilire accordi significativi
da proporre direttamente al giudice della separazione. In questi ultimi
tempi ho visto funzionare molto bene una soluzione che prevede
l’alternanza dei genitori nella casa familiare. E’ un’esperienza che
prevede che entrambi abbiano una casa “di riserva”, magari quella
dei nonni o di un nuovo partner, ma permette di lasciare invariate le
abitudini dei bambini, di evitare la famosa “valigia in mano” e di
introdurre i cambiamenti della separazione con estrema gradualità,
condividendo davvero ogni situazione, spesa, difficoltà nella gestione
domestica ed educativa».
Benedetta Verrini
A cura di Orsola Vetri