03/05/2013
Michele Moresco, 31 anni, ingegnere elettronico, davanti al Mit di Boston.
«Emigrare è arricchirsi nel
senso ampio del termine»,
riflette Michele Moresco,
31 anni, di Roma, ingegnere
elettronico impegnato in un
dottorato al Mit di Boston,
il celebre Massachusetts
Institute of Technology.
Dopo 7 anni nella mecca
mondiale della scienza
e dell’innovazione, spiega:
«Dell’America mi piacciono
le opportunità, i nuovi
sbocchi dietro l’angolo:
nel mio piccolo, nonostante
la crisi, ho già avuto dieci
proposte per dieci carriere
differenti».
Certo nel suo
caso la crisi è attenuata
dal settore: i semiconduttori
per microchip in cui è
specializzato sono alla
base di tutta l’elettronica
di largo consumo. Ma le sue
convinzioni sono quelle di
tutti gli italiani che sbarcano
da questo lato dell’oceano
con un titolo di studio e in
testa tanta voglia di fare:
«Cercavo un luogo con più
opportunità e meritocrazia:
non che meritassi più di
altri, però l’idea di un futuro
cosi ostile ai giovani mi
spaventava». E aggiunge:
«Nel mio laboratorio siamo
dodici, di 12 nazioni. Ognuno
porta la sua esperienza e
arricchisce il gruppo. Trovo
magnifico che questo Paese, gli Stati Uniti d'America, riesca ad attrarre talenti da
tutto il mondo».
La violenza
dilagante negli Usa, anche
quella che nei giorni scorsi
ha toccato proprio il Mit,
non lo preoccupa. E come
per quasi tutti gli italiani
emigrati l’idea di tornare
in Italia è sempre presente,
ma più passa il tempo più
ha un valore solo affettivo.
«Purtroppo vedo l’Italia con
preoccupazione, soprattutto
per i coetanei», confida
Moresco. «Qualcosa nella
macchina-Paese ha smesso
di funzionare». Nostalgia
di casa? «Ho trovato una
stupenda comunità di
italiani», conclude, «dalla
quale sono stato adottato.
Giovani pieni di speranze e
ambizioni che hanno scelto
di lasciar casa. Molti di noi
forse non torneranno mai».
Stefano Salimbeni
a cura di Laura Ferriccioli e Pino Pignatta