15/02/2013
Nel 1990, quando Macioce, venuto a mancare, viene sostituito dal “supreme knight” dei Cavalieri di Colombo Virgil Dechant, i nuovi uomini dello Ior hanno giù avuto modo di vedere i primi risultati del nuovo corso. Sempre nel dicembre del 1990, diviene segretario di Stato il cardinale Angelo Sodano, che assicurerà a Caloia diciannove anni di gestione dello Ior e lo sosterrà sempre, anche nei momenti più difficili.
Il primo maggio 1991 il regolamento interno e il relativo organigramma sono operativi, dopo la delibera del Consiglio di amministrazione, con la nuova distribuzione delle funzioni di responsabilità. Sotto il direttore generale ci sono cinque capi ufficio responsabili di altrettanti dipartimenti: Servizi esterni, Servizi interni (quest’ultimo guidato da un prelato, monsignor Recchia), Contabilità generale e Banche, Sistemi informativi, Titoli (il settore più delicato, insieme con la Tesoreria).
Dopo la vicenda dell’Ambrosiano, i consiglieri di sovrintendenza sanno che uno dei principali scopi del nuovo Ior è quello di ripristinare l’immagine di affidabilità nei confronti dei depositanti. Viene così messa in atto una “delicata opera” per riconquistare la fiducia di chi ha affidato risorse all’istituto ed era stato turbato dalle vicende legate al crack Ambrosiano. Per l’uso della firma sociale, la firma singola è attribuita unicamente al presidente del Consiglio di Sovrintendenza nella sua qualità di legale rappresentante dell’istituto. Tale prerogativa spetta dunque a Caloia, che però può utilizzarla solo per gli atti di rappresentanza legale. Per tutto il resto, come per gli altri responsabili, vale il principio della doppia firma, dal direttore generale fino ai capi ufficio, per maggior sicurezza nelle operazioni.
Con l’arrivo di Caloia, monsignor Donato De Bonis aveva abbandonato la funzione di segretario generale che deteneva dal 1970 ed esercitava le funzioni di Prelato, carica, come abbiamo visto, contemplata dallo Statuto. De Bonis fa parte della vecchia guardia dello Ior ed è l’unico del vecchio quartetto di comando che ancora lavora nel torrione (Marcinkus, Mennini e De Strobel ormai non ci sono più). Sulla carta ha perso i poteri amministrativi, ma mantiene intatto su molti dipendenti il carisma accumulato in tanti anni dentro l’Istituto e la Curia vaticana. “Molti dipendenti subivano una sorta di soggezione psicologica”, ricorderà il banchiere milanese nel libro “Finanza Bianca” di Giancarlo Galli.
Sul prelato vigila anche un altro prelato, monsignor Renato Dardozzi, un dirigente della Stet che aveva abbracciato il sacerdozio a 51 anni ed era diventato presidente della Pontificia Accademia delle Scienze, oltre che uno dei consulenti finanziari più fidati del cardinale Casaroli e poi del cardinal Sodano. Dardozzi si accorge che nell’Istituto erano stati aperti i conti di alcune “fondazioni” impropriamente dette che in realtà altro non erano che depositi serviti in alcuni casi a effettuare passaggi di denaro per sospette operazioni di riciclaggio, Caloia e Dardozzi, insieme a un ristretto numero di uomini fidati dell’Istituto, cominciano a “tallonare” il prelato e a frugare con discrezione nelle sue operazioni. Quando si verrà a capo della vicenda, un dettagliato rapporto consegnato alla segretria di Stato porterà De Bonis ad essere “promoveatur ut amoveatur” prelato dell’Ordine di Malta. Più tardi, quando la Procura busserà alle porte del Vaticano, il processo Enimont rivelerà che si trattava di titoli di Stato consegnati da uomini della Ferruzzi (Luigi Bisignani, Carlo Sama e Sergio Cusani) nelle mani di De Bonis. I titoli, dopo esser stati cambiati, finivano in successivi conti svizzeri e da lì ad importanti uomini politici italiani. Si trattava di parte della maxi tangente Enimont, la madre di tutte le tangenti come disse Di Pietro al processo. La Procura di Milano presentò una serie di rogatorie che vennero accolte dal Vaticano. La piena collaborazione dello IOR portò all’individuazione di gran parte di quel fiume di denaro. De Bonis e il presidente della Commissione Castillo Lara sosterranno sempre di essere stati raggirati dagli uomini dei Ferruzzi (che al processo Enimont avvaloreranno questa versione). Ma come abbiamo detto, anni prima Caloia e Dardozzi, quando ancora non sapevano da dove venivano e dove finivano quei titoli, ma avevano capito che si trattava di possibili operazioni di riciclaggio, erano comunque riusciti a ottenere l’allontanamento dallo Ior di de Bonis. Gli amanti del genere, possono ritrovare la vicenda in libri, saggi e articoli usciti sull’argomento. Una pubblicistica che spesso e volentieri inserisce documenti veri in un contesto impreciso, fuorviante e a volte capziosamente ideologico.
Fatto sta che, superata la grana “Enimont” (che peraltro spinse definitivamente il Consiglio di Sovrintendenza e la Commissione cardinalizia a introdurre regole di controllo e trasparenza ancor più restrittive), l’Istituto, nel 1993 riprese il suo processo di rinnovamento. Un anno dopo, per volere del Consiglio di Sovrintendenza e della Commissione dei Cardinali, arrivarono anche i revisori “esterni” dei conti: gli austeri e inflessibili analisti svizzeri della Price Waterhouse & Cooper, che con stampo calvinista analizzarono i bilanci fino all’ultimo numero prima di dare il loro nulla osta.
(7-continua)
Francesco Anfossi