20/04/2013
È un racconto che mi ha fatto Franco
Grassi, già giornalista di punta
al Mattino e, nel dopoguerra, comunista
come lo erano a Napoli tanti
giovani intellettuali. Anno 1945. C’è fermento
in federazione dove attendono
il compagno Ercoli, mitico leader appena
sbarcato dall’Urss.
Tutti in piedi
quando arriva. Piccolo e vestito di blu,
il compagno Ercoli attraversa l’atrio
senza salutare nessuno e si chiude in
una stanza con il segretario federale.
Qualcuno sussurra che Ercoli in realtà
si chiama Palmiro Togliatti, è un torinese
che ha fondato il partito con Gramsci,
dialoga alla pari con il compagno
Stalin.
Chissà che messaggio sta recando
agli italiani. Quando esce, di nuovo
senza fermarsi, tutti si assiepano ansiosi
intorno al federale.
Questi, racconta Grassi, se ne stava in
piedi, silenzioso, dondolando sui piedi
fra tacco e punta, con i pollici fra cintola e
pantaloni. Qualche attimo di tensione,
poi uno azzarda: «Allora, compagno, facimmo
’a rivoluzione?». E quello: «No,
facimmo ’o Governo con Badoglio».
Niente dittatura del proletariato, è l’ora
del calcolo politico. Chissà se quel giorno,
nella Napoli descritta da Eduardo e Malaparte, tremendo degrado e solo un filo di speranza, c’era anche quel giovanotto che doveva diventare capo dello Stato, molto più alto di Togliatti, bello, somigliante a re Umberto, medesima aura da gran signore e pochi capelli in testa.
Giorgio Napolitano era tornato al Sud
dopo un periodo di studi a Padova. Dettaglio
strano per chi legge adesso, ma
normale a quel tempo, proveniva dal
Guf, Gruppi universitari fascisti.
Che
erano in effetti – parole dello stesso Napolitano
– «un vero vivaio di energie intellettuali
antifasciste, mascherate e fino a un
certo punto tollerate».
Verissimo, come
ebbero a testimoniare gli Ingrao, i Moro,
i tanti coetanei che negli anni si avviarono
per tutt’altre strade. Analoga mistura
nelle scuole di Mistica fascista, cui parecchi
carrieristi dedicarono un celebre motto:
chi non mistica non mastica.
Subito impegnato nell’organigramma
del Pci, Napolitano si laureò con una tesi
sul mancato sviluppo industriale del Mezzogiorno,
ma non tardò a estendere i suoi
interessi. In Campania era già il numero
due dopo Giorgio Amendola, non ancora
leader della corrente che fu poi chiamata
“migliorista”.
Il comunismo era allora
un blocco staliniano che non ammetteva
eresie. Un personaggio indomabile come
Terracini fu a lungo emarginato, anche
durante il carcere per antifascismo. Quando
Togliatti lo rivide, dopo decenni, il suo
saluto fu: «Ah, sei qui?...». Amendola e Napolitano,
come gli altri, o credevano al
dogma o si adeguavano.
Al capo dello Stato qualcuno rinfaccia
ancora l’assenso alla repressione sovietica
in Ungheria, anno 1956. «Per me è stato
un grande tormento autocritico», ha
detto Napolitano. Certo, per lui come
per altri, la rivolta ungherese fu un detonatore,
l’inizio di una maturazione.
Quando sopravvennero i fatti di Praga,
tutto era cambiato. Come più tardi
per la guerra sovietica in Afghanistan, la
sua reazione fu di aperta condanna.
In un partito d’opposizione come il
Pci, allora ben lontano dall’allevare rottamatori,
la carriera procedeva sempre a
tappe. Così avvenne per Napolitano.
Nel privato, riservatissimo e riuscitissimo, il matrimonio con Clio Bittoni, figlia di un gagliardo comunista che – ebbe a commentare il genero – era piuttosto un bastian contrario. In politica, attività culturali fra il 1969 e il 1975: incarico nobile ma, ai fini della gestione interna, non operativo. Fino al 1979 la responsabilità della politica estera; come si disse, era una specie di ministro-ombra.
Però, nella tormentata fase dopo la scomparsa di Togliatti, si era intanto rafforzata l’immagine autorevole e a suo modo differenziata del Napolitano “migliorista”. Oggi si direbbe riformista. Aggettivi del genere venivano visti con sospetto dai nostalgici di Stalin, con fervore da chi puntava a un Pci meno sclerotico. Parve che il migliorista Napolitano dovesse assistere Longo come vicesegretario, carica che resse praticamente per due anni, ma senza sanzione ufficiale. Certo sarebbe stata una svolta. Scelsero però Berlinguer, col quale Napolitano si trovò in conflitto anche per la questione morale, la cosiddetta “diversità” dei comunisti italiani.
Diversi in che cosa? La strada da battere era semmai quella del socialismo democratico, di stampo europeo. Già un grande socialista, Riccardo Lombardi, aveva tenuto memorabili lezioni sul tipo di società che andava costruito non “sulle macerie dello Stato borghese” bensì al suo interno. Una linea che Amendola e Napolitano, nella sostanza, avevano anticipato. Via via ci arrivò lo stesso Enrico Berlinguer.
Il quale, oltre a sentirsi più sicuro sotto l’ombrello Nato che sotto i sovietici, finì col denunciare come ormai esaurita la “carica propulsiva” della Rivoluzione d’ottobre. Morto Berlinguer fra il generale compianto, senza che nulla lasciasse prevedere le critiche successive, la competizione per la leadership si poneva fra i miglioristi e, detto schematicamente, il gruppo Ingrao. Fu eletto quello che appariva un personaggio mediano e meno impegnativo, Alessandro Natta. Ma intanto scorrevano gli anni, un intero sistema si avviava alla crisi.
Il Pci cambiò a più riprese nome e segretario, per gli altri partiti si profilava il crollo. I miglioristi progettavano un’intesa con Craxi, ma Tangentopoli fece saltare tutto. Il prestigio di Giorgio Napolitano rimaneva comunque intatto, anzi in ascesa. Nel 1992 presidente della Camera, nel 1996 non più ministro-ombra in un partito ma ministro dell’Interno nel Governo Prodi, primo ex comunista in quel delicatissimo incarico. Washington, Harvard che lo invitavano e lo consultavano, pure questo senza precedenti. Nel 2005, infine, senatore a vita, nominato dal presidente Ciampi. Per quest’uomo dal sovrano equilibrio, rispettato e ammirato anche dagli avversari politici, era l’ultimo passo verso il Quirinale. Da oppositore a risolutore di crisi. Re Giorgio, come l’ha chiamato la stampa americana.
Giorgio Vecchiato
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a cura di Francesco Anfossi e Fulvio Scaglione