20/04/2013
Bersani in lacrime dopo la rielezione di Giorgio Napolitano
Nessuno stupore, nessun militante che si senta orfano. Il giorno dopo le dimissioni del segretario Pier Luigi Bersani nei circoli del Pd si respirano sia malcontento sia il naturale senso di smarrimento di una nuova fase, si azzardano ipotesi sui 101 traditori che hanno impallinato Prodi al quarto scrutinio, ma nessuno si straccia le vesti a vedere andare via l'uomo che doveva smacchiare il giaguaro e che invece ha solo sporcato il curriculum di due padri fondatori del partito, Prodi e Marini.
«C'è una chiarissima frattura tra la base e il gruppo dirigente, gli iscritti ci stanno mandando decine di mail piene di rabbia. Hanno sbagliato tutto, da Di Traglia (portavoce molto ascoltato di Bersani, ndr) in su», dice Stefano Fundelizzi nella storica sezione di via dei Giubbonari di Roma, a due passi da Campo de' Fiori.
«Bersani voleva a tutti i costi diventare premier e dimostrare l'unità del partito, che non c'era. Come si fa a proporre Marini? E allora perché non direttamente Andreotti?», chiede con un sorriso provocatorio. Mentre Stefano si sfoga alla porta del circolo bussano più giornalisti che militanti, ma la cosa non lo sorprende.
«Non siamo riusciti a fare un partito compatto, questo è soltanto un insieme di piattaforme», dice, aggiungendo che non crede all'alibi fotografico esibito dagli ex popolari, Fioroni in testa. «Quella foto è falsa, o meglio, non l'ha scattata lui. Rappresenta un solo voto ed è stata mandata a molti per sms». Al circolo di Montesacro, quartiere nordovest della capitale, la sconfitta maggiore è scoprire che nel partito non ci sia democrazia interna. «Non mi interessa sapere chi siano questi 101, dico solo che potevano pensarci prima e discuterne», dice la coordinatrice Luisa Palumbo.
«In quella situazione Bersani non poteva che dimettersi. Ora spero che Napolitano riuscirà a farci uscire da questo stallo, ma è difficile dire cosa sia meglio in una situazione che cambia di minuto in minuto».
Una cosa è certa: nessuno vede la rielezione di Napolitano come una conquista, anzi. «Rieleggerlo significa che si rinuncia a prendere una decisione, significa che preferisci congelare la crisi, e a questo punto io pretendo dal mio partito una scelta chiara su quale deve essere la prospettiva futura», dice Simone Fusco, coordinatore del circolo Pigneto Prenestino. «Ho visto la gente che bruciava le tessere in piazza, e capisco i militanti che sono pronti a dire basta e andarsene, ma questo secondo me è il momento di aumentare la partecipazione e di avere il coraggio di dire "tu hai finito". Perché se poi rimangono sempre quelle dieci persone a decidere tutto, non cambia niente».
Discutere, sì, ma nei circoli, possibilmente, perché non bastano le primarie a formare la classe dirigente di un partito: «Anche se sei scelto con le primarie ed eletto con alte percentuali, poi deve riascoltare sempre tutti. E allora chi è che ti dà la legittimazione?». Quasi nessuno si sbilancia a parlare del prossimo segretario o per futuro candidato premier. «Non sappiamo se Napolitano farà una riforma della legge elettorale, e come la farà". Le possibili scissioni, insomma, dipenderanno anche da quello. Renzi? «Sì, ha preso un buon risultato alle primarie, ma magari potrebbe dire qualcosa anche sul programma, sul suo impianto di partito, su come sciogliere tutte queste questioni…», dice Simone, che invece apprezza l'apporto di Fabrizio Barca: «Ha scritto un documento aperto alla discussione, ma non mi sembra intenzionato a candidarsi subito».
Diverso il pronostico a via dei Giubbonari: «Ero qui quando è venuto a iscriversi», racconta Stefano, «e quando un'ora dopo è andato in televisione a Otto e mezzo ho ricevuto tantissime chiamate e mail, c'era molto entusiasmo intorno al suo nome». Dimesso un segretario, insomma, se ne fa sempre un altro.
Claudia Andreozzi
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a cura di Francesco Anfossi e Fulvio Scaglione