20/04/2013
Giorgio Napolitano, primo presidente della Repubblica rieletto per la seconda volta.
In questo nostro Paese di memoria corta, sarebbe utile rievocare almeno due momenti.
Riguardano entrambi il presidente Giorgio
Napolitano. Il primo è il messaggio televisivo
di fine 2012. Il secondo, quel misto di malumore e allarme con cui il Colle, poche settimane
più tardi, accolse la candidatura di Mario Monti
alle elezioni politiche.
Il capo dello Stato aveva ben chiaro il nesso
fra i guai del momento e quanto di peggio poteva derivarne.
Dopo il meritorio inizio d’opera, il
Governo Monti si era perso fra interventi mancati o sbagliati, scarsa o nulla attenzione alla ripresa economica, tasse e tagli che lo stesso Napolitano definì «indiscriminati e automatici». Ossia,
una vera e propria crisi sociale che devastava
l’economia, alimentava gli squilibri e richiedeva
«fin d’ora», subito, «uno sforzo di risanamento».
Riferendosi poi in televisione alla campagna
elettorale che stava per aprirsi, il presidente
elencava con puntiglio tutti i motivi di discredito di una classe politica che oltre agli scandali e
agli abusi di potere non aveva neanche saputo
riformare il Porcellum, la legge elettorale che
ancora ci ritroviamo.
In parallelo, sugli stessi temi, si leggeva sui giornali che delle due l’una: o
si cambiava appunto “subito”, o si apriva Montecitorio a un centinaio di deputati grillini. Cose
queste che dal Quirinale non si potevano dire, ma che là ovviamente si pensavano.
Giorgio Napolitano aveva già dimostrato
ad abundantiam
le sue doti di
fine politico,
costretto a fungere da stella polare contro gli altrui errori di percorso. Dopo la caduta di Silvio Berlusconi si era inventato una doppia promozione per Mario Monti, prima senatore
a vita e quindi guida del Governo.
Come si è visto, non nascondeva le sue critiche alla gestione ministeriale. Però
giudicava ancora Monti come un uomo
di riserva, una “risorsa”, sia pure provvisoria, in vista della prevedibile inconciliabilità fra i tre gruppi che sarebbero
emersi dalle elezioni di febbraio. Con la
sua “salita” in campo (rivelatasi una
brutale discesa), il senatore Monti spariva dal gioco. E oggi se ne vedono le conseguenze.
Anche nel gioco per il Colle. Questa funzione di alto raccordo, di faro per naviganti alla deriva, Napolitano continua tuttora a svolgerla. Già nei primi anni di presidenza, malgrado le tensioni fra destra e sinistra, sia i partiti sia i cittadini sapevano di potersi riferire al Colle come fonte di saggezza politica. Non senza stupore, in molti, per l’evoluzione di quest’uomo noto per il suo cauto riformismo ma pur sempre cresciuto nel Pci di Togliatti. Mai però come adesso, a fine mandato, preoccupa l’addio di uno statista che davvero si è rivelato al di sopra delle parti. Superfluo ricordare come da varie fonti si sia prospettata una sua conferma – almeno parziale – al Quirinale, e il rifiuto di Napolitano per ragioni di età abbia appena attenuato la pressione.
Il fatto è che, per tutta una serie di motivi, nessuno dei nomi fin qui avanzati per il ricambio, pur stimabili, offre analoghe garanzie. Se in Parlamento si sbaglierà scelta, decadranno le prospettive di pacificazione nazionale. Per questo, proprio a fine mandato, stonano le critiche a Napolitano per la nomina dei dieci “saggi”, incaricati di concludere entro pochi giorni.
Se è vero che i tecnici non si sono finora coperti di gloria, non è meno vero che i partiti da soli si sono mostrati totalmente incapaci di offrire uno sbocco. Uno stallo simile non l’avevamo mai vissuto, fra politici che non sanno fare il loro mestiere, imprenditori che arrivano al suicidio, lavoratori buttati in strada, pensionati in angoscia per il futuro. E ora se ne va anche Napolitano. Certo, se dandosi da solo una scadenza ci ripensasse...
Giorgio Vecchiato
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a cura di Francesco Anfossi e Fulvio Scaglione