Don Sciortino

di Card. Tettamanzi

In queste pagine potete trovare il commento alla liturgia domenicale e festiva secondo il RITO ROMANO, curata dal cardinale Dionigi Tettamanzi.

 

20 giugno - Dodicesima del tempo ordinario



Luca (9,18-24)


    Un giorno Gesù si trovava in un luogo solitario a pregare. I discepoli erano con lui ed egli pose loro questa domanda: «Le folle, chi dicono che io sia?». Essi risposero: «Giovanni il Battista; altri dicono Elìa; altri uno degli antichi profeti che è risorto». Allora domandò loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Pietro rispose: «Il Cristo di Dio». Egli ordinò loro severamente di non riferirlo ad alcuno. «Il Figlio dell’uomo – disse – deve soffrire molto, essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e risorgere il terzo giorno». Poi, a tutti diceva: «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi sé stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua».


La gente e il discepolo

«Ma voi chi dite che io sia?» (Lc 9,20). La domanda è decisiva. Il rapporto con il Maestro, la sua conoscenza, il cammino alla sua sequela impongono una risposta. Il discepolo sa che non può sottrarsi. Chi è per me Gesù di Nazaret? Vola la provocazione attraverso le corde dei pensieri, supera le barriere del tempo, entra nel quotidiano evolversi dei fatti e intorno la voce delle moltitudini affascinate dal carisma del profeta, quel giorno e oggi, segna tentazioni di possibili interpretazioni. Mai uomo ha mosso tanta attenzione, nessuno è stato mai capace di suscitare dibattito, interesse contrario o a favore, passioni amorose o rifiuti contrastanti. Nessuno più di lui nel tempo resta attuale, forte di una Parola che mai lascia indifferenti.

    La gente dice che Gesù è uno dei grandi uomini, uno tra i tanti, anche se eletto, forse ritornato in vita per rendere testimonianza al vero. La potenza dell’esperienza del Maestro è sconvolgente e come tale provoca rifiuto o ammirazione. È giusto che la gente si lasci affascinare dalla sua storia, ma la gente non è il discepolo, l’amico dello sposo si prende la responsabilità di indossare l’abito adatto.

    Il discepolo non è la gente, ne faceva parte prima. Come la moltitudine era stato toccato dal suo potere taumaturgico, dalla solarità del suo verso. Il discepolo è dietro il Maestro, conta i suoi passi, ruba i suoi sospiri, scruta la luce dei suoi occhi, è dietro di lui, gioiosamente, faticosamente: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi sé stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua» (Lc 9,23). Sì, il discepolo è costretto a non demandare ad altri il dovere della risposta, a non nascondersi in quel “si dice” generico. Lui, proprio lui, sa che per essere compagno di viaggio di Gesù dovrà dirgli il suo sì, affogare nel mare dell’incontro la parola decisiva della sua fede: «Ma voi chi dite che io sia?... Il Cristo di Dio» (Lc 9,20).

    Un incontro che reclama non una semplice risposta di parole, ma parole semplici che restano fissate come un patto, un giuramento, tra il Maestro e il discepolo. C’è da chiedersi se le nostre comunità siano gremite da discepoli o dalla gente. Se le parole che noi passiamo restano confuse tra le tante parole di chi pensa che comunque ci sia qualcosa dall’altra parte, nell’oltre, o sono la Parola che comanda un’adesione, una risposta coinvolgente. «Tu», sembra chiedere il Maestro a ciascuno di noi, «tu, proprio tu, appartieni alla gente o vuoi essere discepolo?».

    Dalla risposta dipenderà il seguito del dialogo, l’apertura dello scrigno che sottovoce svelerà, a chi avrà la costanza di seguire il passo del Maestro, che cosa significhi «risorgere il terzo giorno» (Lc 9,22).

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13 giugno - Undicesima del Tempo ordinario

Luca (7,36-8,3)

In quel tempo, uno dei farisei invitò Gesù a mangiare da lui. Egli entrò nella casa del fariseo e si mise a tavola. Ed ecco, una donna, una peccatrice di quella città, saputo che si trovava nella casa del fariseo, portò un vaso di profumo; stando dietro, presso i piedi di lui, piangendo, cominciò a bagnarli di lacrime, poi li asciugava con i suoi capelli, li baciava e li cospargeva di profumo. [...] Gesù disse al fariseo: «Per questo io ti dico: sono perdonati i suoi molti peccati, perché ha molto amato. Invece colui al quale si perdona poco, ama poco». Poi disse a lei: «I tuoi peccati sono perdonati».


Sui passi del perdono

     «I tuoi peccati sono perdonati» (Lc 7,48). Togli Signore la mia colpa e il mio peccato. Il giusto di ogni tempo ha cercato risposte al suo disagio interiore, il desiderio di liberazione è connaturale alla ricerca di senso e di armonia: «Beato l’uomo a cui è tolta la colpa e coperto il peccato» (Sal 31,1). Un canto di liberazione che il salmo veste di gioia per la nuova condizione ritrovata, per il sentiero della pace interiore che fa i conti con il vero da dire, il vero da dirsi: «Ti ho fatto conoscere il mio peccato, non ho coperto la mia colpa» (Sal 31,5).

    Per l’uomo del Libro non sempre il desiderio di riscatto si coniuga con la certezza di essere stato esaudito e il rischio che la colpa resti muove disagio. Conoscere la propria colpa, gridarla fuori per renderla libera di correre, è già un grande vantaggio,ma essere certi che il Signore, il Dio d’Israele, ha rimosso ciò che rendeva prigioniero e schiacciava la sostanza della vita è altra cosa, è certezza che insieme al peccato lavato si è liberati dall’angoscia interiore, si è protetti dalla condanna futura. Solo Cristo è in grado di dare risposta, solo in lui il desiderio di liberazione si sposa con la piena attuazione del progetto per cui gli uomini non vengono condannati per la colpa, ma liberati dall’amore che supera qualsiasi legge e garantisce l’armonia del cuore a chi sa abbandonarsi alla misericordia del Padre in Gesù.

    Chi sa quanto avrà aspettato la peccatrice alla porta del fariseo Simone. Forse nascosta tra la folla, troppo appariscente per la luce del giorno, camuffata, confusa tra quegli stessi che al solo tatto saprebbero riconoscerla, furtivamente si presenta nel mezzo della festa e tra parole dotte il suo silenzio dice di più. Muta si prostra ai piedi del Maestro, affoga di pianto i suoi piedi, li carezza di tenerezza con i suoi capelli.

    Mai abbandono è stato più eloquente, mai parola è stata più gridata dal silenzio di una donna che dice fede senza professare, che chiede perdono senza mostrare veli.

    Resta agli occhi del mondo la peccatrice da pagare nel segreto, da denunciare all’aperto, il suo peccato è evidente e tale resta ai benpensanti senza via d’uscita. Donna che cercava il Maestro e che con altre compagne già redente forse avrebbe voluto essere famiglia: «C’erano con lui i dodici e alcune donne... Maria, chiamata Maddalena...» (Lc 8,2.3). La peccatrice di suo porta i capelli e le lacrime, la risposta del Maestro è un macigno sull’arroganza degli ignoranti: «Sono perdonati i suoi molti peccati, perché ha molto amato» (Lc 7,47).

    L’amore rende liberi, la ricerca dell’amore muove i passi al perdono, per tutti: «Il Signore ha rimosso il tuo peccato: tu non morirai» (2Sam 12,13).

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6 giugno 2010 - Corpo e sangue di Cristo

Luca (9,11-17)

In quel tempo, Gesù prese a parlare alle folle del regno di Dio e a guarire quanti avevano bisogno di cure. Il giorno cominciava a declinare e i Dodici gli si avvicinarono dicendo: «Congeda la folla perché vada nei villaggi e nelle campagne dei dintorni, per alloggiare e trovare cibo: qui siamo in una zona deserta». Gesù disse loro: «Voi stessi date loro da mangiare». Ma essi risposero: «Non abbiamo che cinque pani e due pesci, a meno che non andiamo noi a comprare viveri per tutta questa gente». C’erano infatti circa cinquemila uomini. Egli disse ai suoi discepoli: «Fateli sedere a gruppi di cinquanta circa». Fecero così e li fecero sedere tutti quanti. Egli prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò su di essi la benedizione, li spezzò e li dava ai discepoli perché li distribuissero alla folla. Tutti mangiarono a sazietà e furono portati via i pezzi loro avanzati: dodici ceste.

Il corteo dei poveri di Dio

«Io sono il pane vivo disceso dal cielo, se uno mangia di questo pane vivrà in eterno» (Gv 6,51). Le strade si coloreranno di festa, i balconi mostreranno la gioia negli addobbi, nei fiori, nelle coperte stese ad aspettare il santo passaggio. Vicoli e contrade allargheranno gli spazi per fare posto ai pellegrini in cerca del divino Maestro. Gli ostensori innalzati al cielo, liberi da mura, racconteranno di miracoli passati, in cui un pezzo di pane fu irrorato di vero sangue nelle mani incredule di un prete. Memoria di passaggio di santa reliquia di città in città, tra cori osannanti di popolo ammirato, cortei di chierici in solenni paramenti, autorità civili e religiose pronte per l’ossequio.

     È tradizione che resta fedele al desiderio di portare Cristo crocifisso e risorto nel suo vero corpo lungo le strade del quotidiano vivere, nei borghi dei consumati giorni, perché tutto venga da lui benedetto e al suo passaggio ogni ginocchio si pieghi.

     Passaggio eucaristico che dice grazie a colui che ha dato sé stesso per la nostra salvezza. Pane vivo che dà vita, donato agli uomini nella cena delle consegne. Pane, memoria di compagnia: «Fate questo in memoria di me» (Lc 22,19), pane e vino, ostia di salvezza, pane in carne, vino in sangue.

     Il corpo del Signore passa dove la vita passa, raccoglie sentieri di speranza, briciole di nostalgia, carezze di sostegno. Accoglie il grido di dolore, asciuga lacrime disperate. Passa dove la vita passa e mentre come pane si mostra vivo nel suo vero corpo, in anima e divinità, mostra il dono di sé all’umanità in cerca di futuro. Rimane presente nelle braccia di chi lo cerca e ancora passando spezza il pane, lo moltiplica perché a nessuno manchi, rendendo sazio l’affamato e libero il prigioniero. Spezza il pane della giustizia e ricorda ai convenuti per la festa che il pane non condiviso è un pane rubato. Rimanda al giorno in cui la compassione del Maestro dinanzi alla folla affamata provocò l’inaudito miracolo della moltiplicazione.

     Ai discepoli, preoccupati per mancanza di cibo, la sua parola ricordò che la ricerca del Regno passa per le strade del pane spartito: «Voi stessi date loro da mangiare» (Lc 9,13). Uno strettissimo legame sussiste tra il memoriale eucaristico e la condivisione compassionevole, tra l’offerta, il sacrificio e la misericordia. Difficile avvicinarsi all’offerta senza praticare le vie della giustizia.

     Le strade in festa attendono il passaggio del Corpus Domini, dietro di lui, se gli occhi non si lasceranno ingannare, i poveri di Dio in corteo: ciechi, storpi, affamati, perseguitati. Allora riconosceremo il Signore nel corteo dei cristi crocifissi e tutto sarà chiaro: «Voi stessi date loro da mangiare».

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30 maggio 2010 - Santissima Trinità

Giovanni
(16,12-15)

In quel tempo, disse Gesù ai suoi discepoli: «Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando verrà lui, lo Spirito di verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da sé stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future. Egli mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà. Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà».

Un Dio di comunione

«Molte cose ho ancora da dirvi, ma  per il momento non siete capaci di portarne il peso» (Gv 16,12). La domenica dopo Pentecoste, la liturgia ci introduce nel fondamento primo della nostra fede, l’unità e trinità di Dio, il punto di partenza di ogni percorso credente.

     Difficile immaginare di comprendere il mistero insondabile del Dio uno e trino,  e certo le parole   del Maestro ricordano ai discepoli di ieri e di oggi che molte cose è difficile agguantare, incapaci come siamo di portarne il peso.

    Ma proprio il Maestro aggiunge che con la forza dello Spirito è possibile intuire ciò che altrimenti sarebbe impossibile. «Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità» (Gv 16,13).

    Intuizione che non esaurisce la conoscenza totale di Dio, impossibile per l’uomo, ma consente di lasciarsi attrarre dal mistero trinitario. Mistero che ha affascinato i dotti Padri che hanno sondato le vie del cielo e tentato di coniugare con parole umane il desiderio di abbracciare Dio trinità.


    Amore trinitario che ha trasformato la ricerca dei mistici in estasi quotidiana, desiderio di approdo nell’infinito mare dell’assoluto. Ma ciò che i dotti e i mistici hanno agguantato non è escluso a chi, benché semplice, cerca nella parola “credo” la Trinità beata. Non una ricerca arrogante di chi vuole   contenere in un catino l’oceano, ma di chi senza parole traccia sulla sua storia un percorso di abbandono alla Trinità. Una traccia che parte dalla fronte, passa per il cuore e arriva alle braccia. Un segno di croce che rimanda ogni giorno al cuore stesso della Trinità, alle azioni, alle emozioni, a ogni intenzione protetta dalla benedizione del Dio d’amore. Con quel segno di croce anche il semplice traccia la vita alla ricerca del Dio trinitario e toccando la fronte consegna i suoi pensieri al Padre, toccando il cuore il suo amore al Figlio, toccando le spalle le sue azioni allo Spirito, tutta la sua vita alla Trinità.


    Consegna che è fatta in nome di Cristo  che con la sua croce stampata nel corpo di ogni battezzato parla del Padre e dello Spirito, parla del presente e del futuro. Quello stesso segno di croce consegna all’uomo, sul suo stesso corpo, la certezza di una compagnia divina: lamano alla fronte si alza in ragione dell’alto, la mano al cuore si abbassa per amore di dono, la mano alle spalle si muove come alito di vento.


    ll Padre altissimo, tenerezza assoluta, il Figlio disceso nella carne umana, amore donato, il soffio del vento dello Spirito, forza inesauribile, tutto in un solo segno di croce stampato sul nostro corpo. Un Dio comunione che chiama alla comunione con lui: «Quanto è mirabile il tuo nome su tutta la terra, o Signore» (Sal 8,2).
 

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23 maggio 2010 - Domenica di Pentecoste

Giovanni (14,15-16.23-26) 

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Se mi amate, osserverete i miei comandamenti; e io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre. Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui. Chi non mi ama, non osserva le mie parole; e la parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato. Vi ho detto queste cose mentre sono ancora presso di voi. Ma il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto»   

Il fuoco dello Spirito

«Lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto» (Gv 14,26). Il Maestro di Galilea lo aveva promesso, ora si realizzava il suo disegno, mai avrebbe abbandonato il gregge che il Padre gli aveva affidato: «Non vi lascerò orfani» (Gv 14,18), vi manderò un altro Consolatore. Un tuono fragoroso squarciò la falsa quiete del tempo e una luce, come di un lampo, scosse la presunzione dell’arroganza umana, un vento impetuoso bussò alla porta del cenacolo e i compagni di cordata del Crocifisso risorto uscirono allo scoperto, avvolti dalla luce di una nuova consapevolezza. Gridarono la fede, la paura era stata messa a tacere da una voce più forte, la verità non poteva essere più taciuta.
Un fuoco ora si era posato nelle loro membra e bruciava come fiamma inestinguibile di amore, capace di far correre le parole, quelle costrette alla gola per troppo tempo, non pienamente comprese quando la sofferenza, il tradimento, la fuga, la difficoltà dell’abbandono  ne impedivano il significato. Parole ricevute dal Maestro di Galilea ora prepotentemente riemerse per potere dello Spirito e liberate perché chiunque, di qualsiasi lingua fosse padrone, ne ricevesse la forza e la carezza. Il fuoco dello Spirito provocava coraggio, il coraggio smuoveva la paura del racconto sottoposto a pietre di compromesso, il racconto emozionava di pensieri, rimandava ad affetto condiviso, a passioni e lotte compagne di avventura, a visioni di avvenimenti passati insieme, capaci ora di dare forza alle membra fiacche, di dare corsa ai piedi stanchi. Fuori, uscirono fuori, allo scoperto, gli apostoli del Maestro, allo scoperto sfidarono l’opinione avversa, il giudizio dei benpensanti, la presunzione dei dotti ragionamenti, fuori.  Allo scoperto mostrarono sé stessi nudi, come nuovi nati pronti a rendere ragione del gioioso vagito di una nuova nascita. Per la forza dello Spirito, per il loro coraggio, scoperto mentre correva Pentecoste, tanti poterono acchiappare quel vagito e commossi sognarono di poter come loro piangere di gioia: «Erano stupiti, e fuori di sé per la meraviglia» (At 2,7). Il grido del coraggio, nato per potere dello Spirito, fece giustizia dell’antico danno che provocò la presuntuosa torre, sfida temeraria al cielo avvertito tiranno. Quel grido fece giustizia di lingue disperse a confondere la fraternità umana, parole di uomini, difficili nodi da sciogliere, ora suoni di compagnia per fratelli che si conoscono e riconoscono. Il tempo dello Spirito è allora il tempo del coraggio della fede, i templi bui di un credo museale raccontano invece di lingue confuse, attaccate ai palati, incapaci di correre la vita.

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16 maggio 2010 - Ascensione del signore

Luca (24,46-53)
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni. Ed ecco, io mando su di voi colui che il Padre mio ha promesso; ma voi restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall’alto». Poi li condusse fuori verso Betània e, alzate le mani, li benedisse. Mentre li benediceva, si staccò da loro e veniva portato su, in cielo. Ed essi si prostrarono davanti a lui; poi tornarono a Gerusalemme con grande gioia e stavano sempre nel tempio lodando Dio.

Il cielo aperto dal Figlio

«Si staccò da loro e veniva portato su, in cielo» (Lc 24,51). I compagni di cordata del Maestro di Galilea lo videro ascendere e restarono con gli occhi sgranati dinanzi all’incanto: colui che dal cielo umilmente era sceso, ora al cielo faceva ritorno e, ritornando, abbracciava il mondo intero salvato dal suo amore. Il sacrificio della croce restituiva all’uomo la sua dignità, riconsegnava il cielo a chi lo aveva perso il giorno in cui aveva scelto di andare altrove, lontano dal Padre. Il cielo ora rimaneva definitivamente aperto e il primo dei risorti tracciava il percorso per tutti, pioniere di senso, perché i perduti, ora ritrovati, gli abbandonati, ora riabbracciati, i morti, finalmente vivi, sapessero quale via prendere, come rispondere a quel richiamo invincibile che da sempre dentro ogni uomo rimanda all’origine della vita, al principio di ogni cosa. Ora era tempo di tornare a casa, ora le braccia del Padre di ognimisericordia potevano serrare al petto, nel Figlio, il figlio andato lontano per cercare fortuna. Tradito da falsi amici, da porci e prostitute, ora consapevole che la casa del Padre è l’unico posto sicuro. L’ora della salvezza è compiuta, l’itinerario è tracciato, ma nessuno potrà seguire il Figlio se non risponderà in lui, per lui, con lui alla consapevolezza e alla responsabilità di sollevarsi in ragione del dono ricevuto. Ognuno per la propria parte dovrà fare per intero la sua opera: «Uomini di Galilea perché state a guardare il cielo?» (At 1,11). Il richiamo che allora gli uomini dalle bianche vesti rivolsero agli attoniti testimoni del cielo squarciato, testimoni della gloria del Figlio crocifisso e risorto, è rimando alla storia presente, agli uomini di ogni tempo che mai debbono coniugare la propria fede come fuga dal mondo. Nessuno può giustificare il suo sì credente perché crede nell’Alto se questo non significa impegno, lotta per l’amore, lotta per e con i fratelli.Il cielo aperto dice speranza, avvenire, racconta di future vittorie, di sicuri approdi. È certezza che il Padre accoglierà ognuno nella sua casa, ma è anche provocazione a costruire pensieri diversi, a immaginare parole luminose, a stabilire relazioni capaci di vincere il potere dell’egoismo, la tentazione del solo interesse personale e lottare per un mondo più giusto, più vero, più vivo. È certezza che quel cielo aperto cambia i connotati dell’esistenza, per questo è bandita ogni tristezza, è vinto ogni pessimismo, è sconfitta definitivamente la morte nel suo manifestarsi più potente, più doloroso. È tempo di attesa di futuro, è tempo di vivere la gioia: «Ed essi si prostrarono davanti a lui; poi tornarono a Gerusalemme con grande gioia» (Lc 24,52).

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9 maggio 2010 - Sesta domenica di Pasqua

Sesta domenica di Pasqua (anno C) - 9 maggio 2010

La pace, solo la pace
 
«Vi lascio la pace, vi do la mia pace» (Gv 14,27). Il primo dono del Risorto è la pace. Nel cenacolo chiuso, il rumore della paura, l’incertezza del futuro, l’incapacità di comprendere il senso degli avvenimenti lasciavano il cuore in guerra. Che sarà di noi, avranno pensato gli apostoli mentre ancora riconsideravano le ore d’angoscia del Maestro. Avranno ripensato alle sue parole: «Se trattano così il legno verde, che avverrà del legno secco?» (Lc 23,31). Ma nel cenacolo chiuso la carezza risolutrice, che allontana la paura, arriva all’alba del terzo giorno. Un soffio, un alito d’amore: «Pace a voi». La risurrezione di Gesù ristabilisce ciò che il peccato aveva rubato: la pace interiore. Nel cenacolo, gli occhi sgranati degli increduli apostoli raccolsero la luce che permise loro di illuminare di senso i fatti e le circostanze: non ebbero più paura e abbracciarono per la prima volta il significato vero della pace. Il Maestro di Galilea ne aveva annunciato il significato quando era con loro. Avevano sentito parlare della pace dal Maestro, ma era difficile per loro capirne perfettamente il corso. Pace con chi, perfino con i nemici? E quelli che ti odiano e ti perseguitano? Non potevano dimenticare quando il cielo segnò l’alito del Maestro che, dall’alto della montagna, firmò il definitivo patto: «Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio» (Mt 5,9). Più volte avevano riflettuto se la pace dovesse essere coniugata con la giustizia, se potesse ristrutturare i confini disastrati dell’arroganza umana, se mai potesse diventare cattolica, universale. La parola suadente del Maestro li aveva catturati ma non sempre erano riusciti ad acchiapparla per intero. Solo ora capivano: il Risorto era la luce che rischiara ogni uomo, ora riuscivano a intendere cosa avesse voluto dire nella cena delle consegne quando nel consumare lo stesso pane divennero consanguinei: «Vi lascio la pace non come la dà il mondo, io la do a voi» (Gv 14,27). Il soffio del Risorto ora spostava cumuli di storia e rendeva evidente la verità: il senso della vita, il suo orientamento sarà la pace, solo la pace. Non la dolce apatia desiderata come fuga dall’impegno, non l’egoistica chiusura che impedisce di perforare le mura sicure nelle quali ci si imprigiona. La pace, foriera di significato, genitrice di una nuova umanità, è lotta all’ingiustizia che opprime il debole, alla volgarità che offende il semplice, all’arroganza che schiaccia il diverso. È provocazione di significato: è lottare per un mondo di uomini che con orgoglio si riconoscono fratelli, con generosità ricostruiscono il dialogo, con ottimismo colorano il futuro, con compassione soffrono l’uno per l’altro, con fede sognano cieli nuovi e terre nuove. Quel giorno il grido della pace fece irruzione nel cenacolo delle paure. Ancora oggi quel grido provoca a uscire allo scoperto.

Giovanni (14,23-39)

In quel tempo, Gesù disse (ai suoi discepoli): «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui. Chi non mi ama, non osserva le mie parole; e la parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato. Vi ho detto queste cose mentre sono ancora presso di voi. Ma il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto. Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi. Non sia turbato il vostro cuore e non abbiate timore».

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2 Maggio 2010 - Domenica V di Pasqua

Quinta domenica di Pasqua (anno C) - 2 maggio 2010 

Giovanni (13,31-33.34-35) Quando Giuda fu uscito (dal cenacolo), Gesù disse: «Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato, e Dio è stato glorificato in lui. Se Dio è stato glorificato in lui, anche Dio lo glorificherà da parte sua e lo glorificherà subito. Figlioli, ancora per poco sono con voi. Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avete amore gli uni per gli altri».

Il metro per la felicità
 
«Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avrete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,35). Un comandamento nuovo è dato perché ogni uomo, immagine di Dio, riconosca la sua originaria vocazione. In principio l’Amore creò l’uomo per la vita, a immagine dell’Amore lo creò, per questo ritornare alla sostanza dei primi giorni è riappropriarsi della propria dignità. Solo l’amore è fondamento di vita, solo l’amore resta come decisiva legge. Si può diversamente intendere il verbo amare, pensando ad affetto, devozione, passione. Si può descrivere come amicizia, complicità, sodalizio. Si può perfino dire: amo giocare, amo dipingere, amo la musica. Dire amore è anche questo. Ma di quale amore è sostanza il comandamento che cambia i destini della storia? L’uomoè immagine di Dio e tendere a lui è la forza dell’amore, desiderio di Dio che diventa energia trainante degli avvenimenti, senso e orientamento dei gesti, struttura dei pensieri: «Come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri» (Gv 13,34). Questo amore non esclude i diversi intendimenti del verbo amare, ma non si esaurisce in essi, se in essi non è presente la prova assoluta del dono gratuito: «Come io vi ho amato». Questo è il metro per la felicità, questo è il giudizio sul percorso umano, questo rende nuovo il dire amore e rimanda alla vera natura umana, immagine di Dio. Giovanni descrive il giorno della salvezza definitiva e mentre vede trapassate le terre di prima, scorge all’orizzonte la definitiva gioia. La voce che ascolta racconta qualcosa di straordinario, la tenda di Dio è posta in mezzo agli uomini: «Egli sarà il Dio con loro, il loro Dio» (Ap 21,3). La voce del visionario di Patmos sembra quasi vibrare nel profondo per ciò che ascolta e, con la consapevolezza del suo essere profeta, annuncia ciò che ha visto e udito. Felice racconta la notte superata, il dolore guarito, la morte divorata: «E asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non vi sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno perché le cose di prima sono passate» (Ap 21,4). Dio ha posto la sua tenda tra gli uomini, il suo esserci nella storia umana ne ristruttura i connotati: le lacrime vengono asciugate, i prigionieri liberati, la morte cancellata. Dio è amore, il suo amore è tra gli uomini, e per amore ha inviato suo Figlio nella storia umana: «Il Verbo si è fatto carne ed è venuto ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14). La tenda di Dio tra gli uomini è Cristo che ha comandato l’amore perché il Padre fosse da tutti riconosciuto come speranza del mondo attraverso l’amore dei discepoli, perché là dove c’è amore, lì c’è Dio. La tenda di Dio, il suo esserci nella nostra storia, asciuga le lacrime di ogni sofferenza. È il suo amore nel nostro amarci, la sua tenda, presenza di futuro che mostra in anticipo i cieli nuovi e la terra nuova, nel volersi bene, nel lottare per la giustizia. Amore che racconta a chi lo cerca che Dio esiste, è Padre e ama ogni uomo attraverso di noi.

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25 Aprile 2010 Domenica IV di Pasqua

Giovanni (10,27-30) In quel tempo, Gesù disse: «Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano. Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. Io e il Padre siamo una cosa sola».

Chi è la nostra guida?

«Le mie pecore ascoltano la mia voce» (Gv 10,27). La quarta domenica di Pasqua è consacrata al Buon Pastore. Tenerezza di un evento che supera l’iconografia gentile di un biondo pastore con candide pecorelle in spalla, difficile da coniugare con l’asprezza della vita pastorale, con i combattimenti delle quotidiane transumanze. Il Buon Pastore dà la vita per le pecore, mette a repentaglio l’esistenza per la difesa del gregge: la vita delle pecore è la vita del pastore. Il Bel Pastore non sfigura di fronte alla verità del suo sacrificio, non è banalizzata la sua offerta se il più bello tra i nati di donna trasfigura sé stesso sfigurando il proprio viso per fare scudo ai suoi amati dall’aggressione dei lupi. Il Bel Pastore non è un mercenario che fugge nell’ora del pericolo e volta le spalle alla responsabilità di proteggere il futuro del gregge con la propria vita. Il Bel Pastore non è un falso pastore, menzognera guida che baratta la vita del gregge per il suo personale vantaggio. È altra da quella sciagurata guida raccontata da Ezechiele che ruba il latte e la lana, divora la carne, «non difende le pecore deboli, non va in cerca delle disperse» (Ez 34,4). Per colpa dei falsi pastori il gregge rischia la dispersione, mentre la voce del Buon Pastore richiama le pecore lontane, consola quelle scoraggiate e conforta quelle ferite. È la sua voce che permette nella notte di orientarsi per rintracciare l’ovile e far ritorno a casa. L’Agnello- Pastore, che ha dato e dà la vita, conosce una a una le sue pecore e le «guiderà alle fonti delle acque della vita» (Ap 7,17). Si metterà dinanzi a loro e passo dopo passo segnerà il percorso: «Non avranno più fame, non avranno più sete, non li colpirà il sole, né arsura alcuna» (Ap 7,16). La sicurezza del gregge è la sua voce riconosciuta tra tante e tra tante unica a garantire la salvezza della vita. Se il Pastore è con il suo gregge, le pecore possono camminare anche in una valle oscura, saranno al sicuro, ogni paura sarà vinta. Grazie al Pastore ogni dolore, ogni tormento troverà ragione: «E Dio asciugherà ogni lacrima dai loro occhi» (Ap 7,17). La sua voce continua ogni giorno a parlare al cuore del suo gregge e a suscitare significati di vita, orientamento di percorsi, segno di speranza e di misericordia. La sua voce, la sua Parola, percorre le strade degli avvenimenti e racconta di un Dio, amante dell’uomo, che vuole che nessuno si perda. Egli scende a rintracciare i perduti della storia, a rincorrere le pecore sbandate, a riprendersi le smarrite: «Il Padre mio, che me le ha date, è il più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre mio» (Gv 10,29). La sua Parola passa di storia in storia, di vita in vita, per la testimonianza di chi l’ha resa sostanza della propria esperienza, di chi ha scelto di essere servo della voce,ministro della Parola perché come ha ordinato il Signore si «porti la salvezza sino all’estremità della terra» (At 13,47). Noi siamo il suo popolo, gregge che egli guida, recita il salmo, il Signore è buono e «noi siamo suoi, suo popolo e gregge del suo pascolo » (Sal 100,3). Il Bel Pastore rende bella la nostra speranza, seguirlo è salvezza.

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