3 ottobre 2010 - XXVII del Tempo ordinario

Luca (16,19-31)

In quel tempo, gli apostoli dissero al Signore: «Accresci in noi la fede!». Il Signore rispose: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sràdicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe. Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà quando rientra dal campo: “Vieni subito e mettiti a tavola”? Non gli dirà piuttosto: “Prepara da mangiare, strìngiti le vesti ai fianchi e sérvimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu”? Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti? Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”».


Tra le braccia di Dio

«Aumenta la nostra fede» (Lc 17,6). I discepoli di ogni tempo vivono provocati dall’esperienza: la gioia e il dolore di ogni avvenimento, la fatica di crescere, la fedeltà e il tradimento chiedono risposte capaci di coniugare il sì credente con la concretezza della propria storia. Ogni azione, mossa nel quotidiano, è impegno per affermare il proprio essere uomini, collocato in un qui e in un’ora nella ricerca della maturità personale e nell’equilibrio di avere i piedi ben piantati al suolo e lo sguardo proteso dinanzi, al futuro.
Impresa non facile, per chi ha scelto il Maestro, quella di essere coerente con la parola data alla sua Parola. Spesso il discepolo ripete a sé stesso quello che l’Apostolo diceva: «So il bene che debbo fare e mi ritrovo a fare il male che non voglio fare» (Rm 7,19), perché il cuore è pronto ma la carne è debole. Contraddizione tra la consapevolezza del proprio essere e il dover essere. «Aumenta la mia fede », allora, è invocazione di chi cerca la forza di restare fedele, malgrado il turbinio degli avvenimenti, e di intercettare anche nell’oscurità del significato la luce che permette di superare ogni prova. «Aumenta la nostra fede» è una richiesta per comprendere il significato delle cose quando le risposte vengono a mancare e nonostante il dolore delle prove, il sapore cocente delle sconfitte, riuscire ad abbandonarsi alla volontà di Dio che vince il mondo.
La fede è scegliere per sé la volontà di chi è forte, certezza di sapersi fidare di chi ha promesso che «Soccombe colui che non ha l’animo retto, mentre il giusto vivrà per la sua fede» (Ab 2,4). È la fede che rende visibile in percorsi tortuosi una possibile via d’uscita, che arma il braccio del debole rendendolo forte in battaglia. Custodire la fede è farsi quotidianamente sorreggere dalla speranza di non essere mai delusi dalla Parola di colui che ci ha promesso di non lasciarci soli, di non avere paura.
Chiunque abbia fede e creda che Dio sia dalla sua parte, potrà chiedere che gli venga aumentata la fede. Egli sa bene che avere fede è sapere che si è in braccio a Dio, sicuri del suo amore, e questo basta. Altro, invece, è chiedere di essere custoditi nella propria fede, protetti dall’attacco dei nemici di ogni tempo, pronti ad aggredire i giusti per quello in cui credono, per quello che testimoniano.
E per custodire la fede è necessario non vergognarsi mai del Vangelo ricevuto, mai «della testimonianza da rendere al Signore nostro... ma soffri anche tu insieme con me per il vangelo» (2Tm 1,8). Un briciolo soltanto di fede, un granellino di abbandono in Dio, muove un coraggio inaudito, cambia il mondo. Anzi, la fede è proprio la vittoria che sconfigge il mondo (cfr 1 Gv 5,4).

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26 settembre 2010 - XXVI del Tempo ordinario


Luca (16,19-31)

In quel tempo, Gesù disse ai farisei: «C’era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti. Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta, coperto di piaghe [...]. Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. Stando negli inferi fra i tormenti, alzò gli occhi e vide di lontano Abramo, e Lazzaro accanto a lui. Allora gridando disse: “Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito e a bagnarmi la lingua, perché soffro terribilmente in questa fiamma”».


Il paradiso non si compra

   «Tra noi e voi è stabilito un grande abisso» (Lc 16,26). Tra il ricco e il povero Lazzaro la distanza sembra incolmabile, difficile farli incontrare, eppure la vita li aveva messi vicini, uno di fronte all’altro. Il banchetto lautamente preparato, imbandito di vergogna e di insensibilità, saziava chi, con la pancia piena, rimaneva sordo al lamento del povero in cerca di molliche ai piedi della tavola.

   Nemmeno una lasciata per compassione: l’ingordigia non sente ragioni, anche i cani a leccare le ferite del disperato. Un grande abisso tra chi ha tutto e chi niente, tra chi diventa sempre più ricco e chi, per ingiustizia, si sente abbandonato da Dio e dagli uomini, perché vede la sua acqua rubata, il suo pane divorato, i suoi figli venduti, la sua terra occupata.

   Il ricco e il povero, che il Maestro mette di fronte al giudizio dei farisei, raccontano la storia dell’umanità divisa in sé stessa tra chi crede di dovercela fare da solo contro gli altri e chi subisce. Dimentica il ricco dove il Padreterno posa il suo sguardo, quale predilezione egli dichiari per chi ha fame e sete: «Beati voi che ora avete fame, perché sarete saziati» (Lc 6,21). Predilezione che supera il tempo e rende giustizia a chi ha subìto il giogo iniquo dei potenti: «Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli nel seno di Abramo» (Lc 16,22).

    Mai il Maestro di Galilea fu così diretto nel descrivere il futuro del povero in paradiso e quello del ricco egoista all’inferno, dove la futura condanna sta a giudicare un presente corrotto, impossibile da accettare. Agli occhi di Dio è un peccato mortale che milioni di esseri umani siano privati del sostentamento del cibo, mentre una piccola parte del mondo consuma, spreca e getta nell’immondizia le risorse necessarie a tutti. Il povero Lazzaro, pertanto, è l’icona di una condizione che chiama in giudizio economie diaboliche che rendono invivibile la Terra. Dio non fa sconti a quanti non sono capaci, sia pure con l’iniqua ricchezza, di rendere meno dura la vita dei poveri. Egli non ammette repliche a quanti non danno spazio alla compassione: «cesserà l’orgia dei buontemponi» (Am 6,7).

    A differenza dell’amministratore disonesto, che scoperto nel suo limite si è attrezzato per il futuro, il vizio di fondo del ricco egoista è di credere che il potere economico possa garantirgli la vita eterna. Il paradiso è altra cosa, non si compra nelle banche, nei titoli o nelle proprietà. Il regno è per chi lo cerca, è per chi sa che il vero tesoro è quello del cielo dove né ruggine, né ladro potranno mai portarlo via. C’è speranza anche per i ricchi, se la compassione vince e i poveri Lazzaro da spettatori del banchetto potranno sedersi alla tavola della condivisione.

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19 settembre 2010 - XXV del Tempo ordinario


Luca (16,1-13)

In quel tempo, Gesù diceva ai discepoli: «Un uomo ricco aveva un amministratore, e questi fu accusato dinanzi a lui di sperperare i suoi averi. Lo chiamò e gli disse: “Che cosa sento dire di te? Rendi conto della tua amministrazione, perché non potrai più amministrare”. L’amministratore [...] chiamò uno per uno i debitori del suo padrone e disse al primo: “Tu quanto devi al mio padrone?”. Quello rispose: “Cento barili d’olio”. Gli disse: “Prendi la tua ricevuta, sièditi subito e scrivi cinquanta”. [...] Il padrone lodò quell’amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza».


Potenza del condividere

«Chi è fedele nel poco, è fedele anche nel molto» (Lc 16,10). Il discepolo del Maestro accoglie la sua parola, non ne potrà fare a meno. Le sue stesse parole saranno condizionate dalla Parola, tanto che chi lo ascolterà saprà riconoscerlo. Fedele alla sua promessa, il discepolo si rende conto che dovrà attraversare la storia e lottare contro l’attrazione del mondo che gioca ad asservire ognuno all’idea dominante, quella utile a garantire l’interesse privato. Tentazione che propone altri modi di vivere, ma il discepolo conosce il senso e l’orientamento della vita, gli deriva dall’insegnamento ricevuto.

    Dal Maestro di Galilea ha imparato che non si può servire Dio e mammona, sa bene che scegliere la strada della verità è resistere a ogni menzogna, a ogni compromesso con le regole del mondo e orienta il suo futuro sull’orizzonte di Dio, il suo presente in ascolto del Verbo, perché «Nessun servo può servire due padroni» (Lc 16,13).

    La parabola dell’amministratore infedele racconta un paradosso: scoperto nel suo peccato, prossimo a essere cacciato via, l’amministratore scopre che può mettere perfino il suo limite a profitto e a servizio del suo futuro. Non fa più solo i conti con i capitali detratti al padrone, ma costruisce la sua salvezza sulla solidarietà con nuovi compagni che potranno garantirgli una via d’uscita.

    La disonesta ricchezza nel paradosso del racconto, la scaltra amministrazione del protagonista non sono un esempio da seguire, vanno oltre il fatto, dentro l’avvenimento: ognuno di noi amministra ciò che non è suo e comunque è in debito con il Padrone. Scoperti, nudi dinanzi a Lui, vale la pena recuperare complicità di affetti in uguali compagni di precarietà e scambiarsi la vita per quello che si ha, per quello che si è, perché è giusto organizzare la speranza insieme: «Procuratevi amici con l’iniqua ricchezza, perché quando essa verrà a mancare, vi accolgano nelle dimore eterne» (Lc 16,9).

    Tutto ciò che abbiamo è una risorsa e una opportunità: la nostra intelligenza, le sostanze materiali, le risorse economiche e la posizione sociale. Tutto è relativo rispetto al Regno, ma tutto può diventare potente opportunità se condiviso, se malgrado la storia di peccato, l’inevitabile tentazione del possesso, si rischia la compassione e la solidarietà.

    Diversamente, il Padre, che solleva l’indigente dalla polvere, sarà severo con chi ha voltato le spalle alla condivisione e alla giustizia. L’amministratore corrotto certo non è un esempio di corretta gestione economica, ma è la storia di chi, conoscendo anche la propria miseria, con l’amore sa vincere la propria prigionia: «molto ti è perdonato, perché molto hai amato» (Lc 7,47).

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12 settembre 2010 - XXIV Tempo ordinario

 
Luca (15,1-32)

In quel tempo, Gesù disse: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: ”Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. [...] Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”».

La tenerezza del Padre

«Questo mio figlio era morto ed è tornato in vita. Era perduto ed è stato ritrovato» (Lc 15,32). La festa inizia il giorno dell’incontro: lasciata alle spalle la morte causata dal peccato, la vita ritrova la sua pienezza e la gioia incontenibile dell’abbraccio del Padre.
Il figlio aveva chiesto in tempo non opportuno eredità e autonomia, il padre, che ama la libertà, pur soffrendo, aveva concesso il suo assenso. Il paese lontano è posto in alternativa alla casa paterna, lontano non solo per distanza ma per condizione e, come vicino al sole si avverte un tiepido calore, lontano dal Padre assale il freddo mortale.
La festa sono le braccia al collo, la tenerezza di un padre che aspetta con ansia di gridare il ritorno del figlio, di mettergli al dito l’anello della nuova compagnia, la veste della gioia a coprire la nudità dell’abbandono. Lontano, mercenari e prostitute tra baldorie fugaci e amori rubati ingannano il figlio presuntuoso di forze non sue, di sostanze mai guadagnate, dilapidando il patrimonio, la speranza.

    Il peccato è girare le spalle alla nostra origine e guardare in direzione opposta come fece Adamo, come fecero a Babele. La carestia è la condizione, il risultato del voltare le spalle alla casa paterna. Soli in un percorso senza senso si cerca una via d’uscita per ritrovare la strada, ma nella terra del peccato i porci di ieri e di oggi non spartiscono il proprio bottino, altro serve per ritrovare vita.

    Dalla morte è possibile uscire solo risuscitando e allora: «Mi leverò e andrò da mio padre» (Lc 15,18). Mi leverò, appunto, che è come dire mi risolleverò, risusciterò dalla morte presente causata dal tradimento dell’origine e guarderò altrove, riacchiapperò l’orizzonte perso il giorno in cui decisi di andare lontano dal Padre. Dove, se non in Dio, riposa l’anima mia? Ci si rimette in cammino verso casa, pronti a raccontare la nostra sventurata storia e a chiedere perdono, perché meglio essere servi in casa del Padre, che figli alla tavola di farabutti. Il pentimento è il principio del ravvedimento, che dice vedere meglio, nella giusta direzione, per ritrovare il senso perduto.

    Il figlio ancora lontano è sorpreso dalla tenerezza del padre che di corsa gli va incontro e lo abbraccia, lo stringe al petto, gli frena il dovuto dire e organizza la festa decisiva del riscatto. Mi commuove la corsa del padre che nello spazio intermedio tra la mia condizione e il definitivo approdo viene a riprendermi. La corsa del padre, le braccia al collo sono l’incarnazione del Figlio; la compassione del padre è la croce di Cristo, è la sua risurrezione. Tenerezza di un Dio diverso che perdona perché ama, che scioglie la corsa per abbracciarmi, nonostante il mio peccato.

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5 settembre 2010 - XXIII Tempo ordinario

 
Luca (14,25-33)

In quel tempo, una folla numerosa andava con Gesù. Egli si voltò e disse loro: «Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo. Chi di voi, volendo costruire una torre, non siede prima a calcolare la spesa e a vedere se ha i mezzi per portarla a termine? Per evitare che, se getta le fondamenta e non è in grado di finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, dicendo: “Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro”. Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? Se no, mentre l’altro è ancora lontano, gli manda dei messaggeri per chiedere la pace. Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo». 

La felicità della croce

«Chi non porta la propria croce e non viene dietro di me non può essere mio discepolo» (Lc 14,27). Il tempo di vacanze è ormai alle spalle: si ritorna al lavoro di sempre, perlomeno si spera. La crisi economica non ha risparmiato fabbriche, piccole e medie imprese che davano lavoro a tanta gente, che ora spera in una ripresa. Speranza che anima il cuore dei giovani, i quali consumano le ultime ore di libertà estiva prima di varcare la soglia delle aule scolastiche. Speranza di futuro, di un mondo che si apre davanti a loro potendo offrire spazio, legalità, lavoro.

     Si fa fatica, tuttavia, a coniugare il tempo presente con la parola giustizia, mentre la politica cerca risposte al disagio di chi ha perso tutto e chi ha risorse, molto spesso, le tiene ben strette. Eppure, la parola di Dio scende provocatrice nelle piaghe di questo tempo e grida l’urgenza di fare scelte adeguate al desiderio di sequela.

    Un grido di sconcertante attualità, sia per chi soffre la mancanza di giustizia, sia per chi è causa del dolore innocente. Gesù si fa spartiacque tra chi pensa di accaparrarsi il mondo vigliaccamente e chi subisce il peso dell’inganno dei potenti: «perché chiunque si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato » (Lc 18,14). Il Maestro di Galilea, infatti, offre la sua guida a coloro che sono disponibili a caricarsi di croce durante il tragitto.

    Di che croce si parla? Certo la precarietà del vivere è di per sé stessa una croce e sicuramente nessuno può pensare che a Gesù faccia piacere la sofferenza dei suoi fedeli, a Cristo importa quanto si è disponibili a rischiare per lui, tanto da decidere che gli affetti personali, i beni materiali, i riconoscimenti sociali siano secondi alla sua Parola. Se scegliere Cristo, piuttosto che il mondo, provoca dolore, è inevitabile che per seguire il Maestro bisogna portare la croce. Ancora di più è crocifissa la scelta del discepolo che deve fare i conti con la mentalità dominante del mondo, quella che premia i furbi, i corrotti, i mentitori, i funambolici venditori di fumo.

    È crocifissa la strada di chi sceglie la rettitudine come sistema, la coerenza con i propri ideali come abito da indossare. La scelta del discepolo è impegnativa, controcorrente, difficile da capire e da accettare in un mondo che trova soddisfazione nell’effimero, è una scelta che richiede passi necessari anche in vie tortuose.

    La proposta del Maestro è esigente: seguirlo è impresa non facile, ma rende felici. E sebbene la croce del distacco costi la fatica del percorso, vale la pena caricarsi del peso della giustizia, della croce soave del discepolato per essere alternativi al mondo e forse primi, non di certo in terra di peccato, ma di sicuro nel Regno di domani.

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29 agosto 2010-XXII domenica Tempo ordinario


Luca (14,1.7-14)

Avvenne che un sabato Gesù si recò a casa di uno dei capi dei farisei per pranzare ed essi stavano a osservarlo. diceva agli invitati una parabola, notando come sceglievano i primi posti: «Quando sei invitato a nozze da qualcuno, non metterti al primo posto, perché non ci sia un altro invitato più degno di te, e colui che ha invitato te e lui venga a dirti: “Cèdigli il posto!”. Allora dovrai con vergogna occupare l’ultimo posto. Invece, quando sei invitato, va’ a metterti all’ultimo posto, perché quando viene colui che ti ha invitato ti dica: “Amico, vieni più avanti!”. Allora ne avrai onore davanti a tutti i commensali. Perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato».


Il grembiule dell’umiltà

«Non metterti al primo posto» (Lc 14,8). Il Maestro non fa sconti a chi vuole fare con lui un percorso di giustizia. Non perde occasione per disegnare il volto autentico del discepolo e approfitta anche di un invito a pranzo per contrastare quella insana voglia di correre per un primato fallace, conquistato scavalcando altri senza regole, occupando posti senza autorevolezza, marcando territori senza compassione. Malato il tempo in cui si cerca solo la gloria dello stato sociale, dei titoli onorifici come soddisfazione dell’anima.

    Meglio sarebbe, a giudizio del Maestro, l’umiltà del passo che garantisce il vero primato dell’autentica dignità e protegge dal rischio di sentirsi dire: Amico, cedimi il posto, «perché chiunque si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà salvato» (Lc 14,11). Provocazione di senso che costruisce un nuovo sistema sociale e immagina una rivoluzione dal basso, tale da sconvolgere il criterio secondo cui il successo consista nel posto occupato e non nel servizio dato, la carriera sia fine a sè stessa e non contributo alla comunità.

    La consapevolezza delle proprie possibilità, la rivendicazione dei propri spazi, una sana ambizione, non possono essere trasformate in quella malata voglia di vincere a tutti i costi. Non si può imporre al proprio passo la cadenza del peccato: peccato sociale, il sovvertire tutte le regole a proprio vantaggio; peccato individuale, il venir meno a tutti i principi, l’ignorare gli insegnamenti ricevuti, il tradire tutti gli affetti, mentendo a sé stessi e agli altri.

    Il discepolo del Maestro non disdegna di occupare i primi posti, non pensa che siano inutili, a condizione che vengano conquistati seguendo percorsi d’amore con l’unico desiderio di essere al servizio degli altri. Ed è per questo che l’equilibrio tra il giusto desiderio di crescere, la sana ambizione e gli adeguati mezzi per poter raggiungere i risultati desiderati potrà ottenersi se accompagnato da un’attitudine alla libertà dal potere. D’altronde, «che giova all’uomo guadagnare il mondo intero, se poi si perde o rovina sé stesso?» (Lc 9,25).

    È necessario un atteggiamento di solidarietà che apre spazi di compassione a chi diverso non gode la stessa posizione, così: «Quando offri un pranzo o una cena non invitare i tuoi amici..., né i ricchi vicini... ma poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato perché non hanno da ricambiarti» (Lc 14,13-14). Grande provocazione quella di Gesù: avendo indossato il grembiule dell’umiltà al servizio degli altri, non poteva che chiedere ai suoi discepoli uguale sostanza. La domanda interpella il nostro tempo di tavole imbandite per soli potenti, senza nemmeno le briciole per il resto del mondo.

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22 agosto 2010 - XXI domenica Tempo ordinario


Luca (13,22-30)

In quel tempo, Gesù passava insegnando per città e villaggi, mentre era in cammino verso Gerusalemme. Un tale gli chiese: «Signore, sono pochi quelli che si salvano?». Disse loro: «Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, io vi dico, cercheranno di entrare, ma non ci riusciranno. Quando il padrone di casa si alzerà e chiuderà la porta, voi, rimasti fuori, comincerete a bussare alla porta, dicendo: “Signore, aprici!”. Ma egli vi risponderà: “Non so di dove siete”. Allora comincerete a dire: “Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza e tu hai insegnato nelle nostre piazze”. Ma egli vi dichiarerà: “Voi, non so di dove siete. Allontanatevi da me, voi tutti operatori di ingiustizia!”. Là ci sarà pianto e stridore di denti, quando vedrete Abramo, Isacco e Giacobbe e tutti i profeti nel regno di Dio».


Per la porta stretta

«Signore, sono pochi quelli che si salvano?» (Lc 13,23). La domanda cade all’improvviso lungo la strada. Il Maestro sale a Gerusalemme mentre si lascia indietro città e villaggi. Bella l’immagine che recupera frontiere di futuro, orizzonti di speranza per chi, verso la Gerusalemme celeste, guarda il tempo alle spalle, cerca risposte confortanti dinanzi.

    I discepoli non si trattengono dal provocare il Maestro, dal cercare orizzonti possibili per decifrare terre sicure cui approdare. È dei discepoli di sempre provocare il maestro ed è di chi guida il gruppo l’arte di trasformare la provocazione in profezia. Gesù di Nazaret non si sottrae alla domanda, anzi, rilancia e a chi chiede soluzioni a breve, costruisce percorsi formidabili di significato: «Sforzatevi di entrare per la porta stretta» (Lc 13,24).

    Che relazione c’è tra la domanda e la risposta? A una prima osservazione sembrerebbe nessuna, al discepolo che gli chiede quanti siano i possibili eletti, il Maestro risponde offrendo immagini certo non facili. Tuttavia, a ben pensarci, proprio la singolarità della risposta chiama a decifrare il senso e il significato della salvezza. Esiste una convocazione universale al regno, tutti i popoli della terra sono chiamati a dare onore a Dio e a ricevere da lui le coordinate della felicità. La proposta è per tutti i popoli dall’Oriente all’Occidente, la convocazione è per ogni uomo, la risposta è circoscritta a quanti saranno capaci di aprirsi all’amore di un Dio Padre pronto a spalancare le proprie braccia: «Dio vi tratta come figli» (Eb 12,7).

    La porta stretta disegnata dal Maestro, allora, certo racconta l’impegno del sì credente come risposta al Signore con la propria vita, con la coerenza delle scelte, con la testimonianza tangibile del proprio comportamento, come armonia tra il dire sì a Dio con le labbra ma anche con la vita.

    Una porta stretta che descrive la grande sfida della coerenza e supera il rapporto intimo con Dio, diventando risposta a una provocazione, quella autentica, che investe il sentirsi salvato con il dovere di muovere passi per la salvezza del mondo, di tutto il mondo, entrando in una nuova prospettiva: o ci salviamo tutti o ci danniamo tutti.

    Entrare per la porta stretta è allora non credere di essere salvati in ogni caso per discendenza o eredità, perché potremmo trovarci nella stessa condizione di quegli operatori d’iniquità descritti dal Maestro di Galilea che rivendicavano un posto per diritto di nascita e che invece rischiano la sorpresa di sentirsi dire: «Non vi conosco, non so di dove siete» (Lc 13,25).

    La porta stretta è ricordare che da solo non mi salvo. Vale la pena lottare per convincere qualcuno a fare la strada con me.

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15 agosto 2010-Assunzione Beata Bergine Maria

 
Luca (1,39-56)

In quei giorni Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda. Entrata nella casa di Zaccarìa, salutò Elisabetta. Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo. Elisabetta fu colmata di Spirito Santo ed esclamò a gran voce: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me? Ecco, appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo. E beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto». Allora Maria disse: «L’anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore».


Il privilegio della madre

«Tutte le generazioni mi chiameranno beata» (Lc 1,48). Il canto della Vergine di Nazaret sciolse il grido di gioia, inno di ringraziamento per il dono fatto all’umanità, in lei, del Figlio divino.  Esultava la Vergine per la carne nella sua carne concepita senza intervento d’uomo, per quella speranza che sentiva realizzarsi dentro di lei. Certezza di un mondo trasformato dalla Parola, suo Figlio, che avrebbe per amore disperso i superbi, rovesciato i potenti, rimandato a mani vuote i ricchi, ricolmato di beni gli affamati, dando dignità agli umili.

    Tutto il Vangelo è scritto nel poema della Vergine: sintesi di un percorso, il Magnificat racconta quanto grande sia l’Onnipotente che ha inviato ai perduti d’Israele, ai poveri di ogni tempo, quanto aveva promesso. Grazie al Figlio benedetto, che ora esultava nel grembo di Maria, la salvezza avrebbe visitato la terra. Vinte le tenebre, ora nasceva la speranza: ogni uomo in virtù della Parola avrebbe potuto superare per sempre la barriera della morte.

    Nella Vergine ebbe inizio il futuro e nel suo grembo fu inaugurato il tempo definitivo: la carne del Figlio, nella sua carne, sarebbe stata partorita per il riscatto di tutti e tutti nel Figlio di Maria avrebbero potuto vedere il cielo aperto sulle attese dell’uomo: «Poiché se a causa di un uomo venne la morte, a causa di un uomo verrà anche la risurrezione dei morti» (1Cor 15,21).

    L’ottimismo della fede nasce dalla certezza che le nostre esperienze non sono ridotte dal tempo in scatole chiuse, ma trasfigurate in vasi comunicanti dove la storia di oggi si ritrova con la storia di chi ci ha preceduto e di chi verrà dopo di noi. Il canto della Vergine, il Magnificat, è la voce dell’umanità che, finalmente libera dal compromesso di un tempo mortificato, sprigiona l’entusiasmo per la buona notizia che annuncia la sconfitta di un tempo malato.

    Calpestata la morte dal Figlio di Maria, il tempo ha trovato il giusto compimento: «L’ultimo nemico a essere annientato sarà la morte » (1Cor 15,26).

    Ma c’è di più, la promessa di futuro per il credente nel Vangelo non è semplice promessa di futura esistenza. La vita oltre non è un esserci senza consistenza. Lo scandalo della croce si coniugherà con l’assurdo della risurrezione della carne, con la straordinaria notizia: saremo un corpo ritrovato, salvato, redento, resuscitato, il nostro definitivo corpo.

    Cristo, risorto nella sua carne, è la primizia. Il privilegio di seguirlo per prima è della Madre, assunta in cielo nel suo vero corpo. Avere fede in Gesù è credere in cieli nuovi e terre nuove, è dare speranza a carne redenta, rinnovata, risorta, la nostra, per sempre. Oggi è il giorno di Maria, un giorno che ci riguarda.

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8 agosto 2010 - XIX domenica Tempo ordinario


Luca (12,32-48)

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Siate pronti, con le vesti strette ai fianchi e le lampade accese; siate simili a quelli che aspettano il loro padrone quando torna dalle nozze, in modo che, quando arriva e bussa, gli aprano subito. Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità io vi dico, si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli. E se, giungendo nel mezzo della notte o prima dell'alba, li troverà così, beati loro! Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora viene il ladro, non si lascerebbe scassinare la casa. Anche voi tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo».



Pronti per la festa

«Siate pronti, con la cintura ai fianchi e le lucerne accese» (Lc 12,35). L’attesa vigilante è struttura credente. Ogni discepolo, che ha scelto la via del Maestro, ha per vocabolario la sua parola e non nasconde il desiderio irrefrenabile di poterlo incontrare. Sempre e comunque il suo grido sarà: «Maranà tha: vieni, Signore Gesù» (1Cor 16,22).

    Aspettare la festa, il futuro dell’incontro, è la condizione del credere, abito che indossato guadagna linguaggi e pensieri di gioia, determina percorsi di nuova conoscenza della vita, della storia, della relazione tra gli uomini.

    Era dei primi cristiani vivere l’attesa come festa anche negli avvenimenti più dolorosi tanto che, come ricorda la lettera a Diogneto, benché vivessero normalmente meravigliavano chi li incontrava per il diverso sapore che sapevano dare all’esistenza.

    A nessuno è dato conoscere il momento in cui il Maestro farà ritorno, ma quel giorno arriverà e la verità mostrerà il suo volto consentendo alla storia individuale e a quella collettiva di comprendere finalmente sé stessa senza più domande irrisolte. E se quel giorno è la festa nuziale, l’attesa sarà ripagata, comunque essa sia stata vissuta per il dolore patito o per la gioia assaporata.

    È la festa il sapore del credere, è sempre festa il desiderio credente e dire festa è saper coniugare il verbo della gioia in ogni caso. Aspettare, vigilare sono la condizione, la cintura ai fianchi e le lucerne accese sono la modalità. La cintura ai fianchi è di chi è pronto per partire, ma anche del servo che conoscendo il suo mestiere, il dovere del servizio, cinge i fianchi, arrotola in su la veste per lasciare liberi i piedi alla corsa, liberi da ogni inciampo. La lanterna nelle mani è di chi vuol restare sveglio, di chi fa luce anche nella notte più profonda e sa orientare lo sguardo per scrutare oltre, coraggioso tanto da sfidare il buio, preparato alla notte.

    Il discepolo è in attesa della festa, non rassegnato al tempo che deve passare ma convinto di dover dare significato al tempo che gli è stato concesso: «A chiunque fu dato molto, molto sarà chiesto; a chi fu affidato molto, sarà richiesto molto di più» (Lc 12,48).
Pronti a fare in modo che la carità trionfi, che l’amore diventi sostanza di nuovi incontri, di messaggio capace di cambiare i connotati dell’egoismo generato dal peccato.

    L’attesa della festa, i fianchi cinti per servire, la luce negli occhi per dirsi il vero gridano la nuova consapevolezza che non ci sarà altro tesoro, nessun altro guadagno, per chi ha scelto il Maestro, che il Regno. La gioia la condizione, la festa il desiderio, insieme il vero tesoro: «Dov’è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore» (Lc 12,34).


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1 agosto 2010 - XVIII Tempo ordinario


Luca (12.13-21)

In quel tempo, uno della folla disse a Gesù: «Maestro, di’ a mio fratello che divida con me l’eredità». Ma egli rispose: «O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?». E disse loro: «Fate attenzione e tenetevi lontano da ogni cupidigia perché, anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che egli possiede». Poi disse loro una parabola: «La campagna di un uomo ricco aveva dato un raccolto abbondante. Egli ragionava tra sé: “Che farò, poiché non ho dove mettere i miei raccolti? Farò così – disse –: demolirò i miei magazzini e ne costruirò altri più grandi e vi raccoglierò tutto il grano e i miei beni. Poi dirò a me stesso: Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; riposati, mangia, bevi e divèrtiti!”. Ma Dio gli disse: “Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà?”. Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce presso Dio».


Vanità della ricchezza

«Tenetevi lontani da ogni cupidigia» (Lc 12,15). In tempo di crisi, mentre i mercati fanno fatica a venir fuori dai guai provocati da chi diabolicamente ha considerato l’economia solo come profitto personale, l’invito del Maestro di Galilea sembra contrassegnato da altri umori, da altre condizioni. Dov’è la ricchezza? Chi può permettersi l’abbondanza in tempo di carestia, se non quei pochi che hanno concentrato la gran parte del bene comune nel loro egoistico forziere?

Tuttavia è proprio in questi tempi di crisi che si erge potente la parola del Maestro. Una parola che rimarca il susseguirsi degli avvenimenti che hanno descritto il declino della società opulenta, la rovina di chi avendo dimenticato il Vangelo ha investito la sua stessa vita solo nel benessere materiale.

Potente il richiamo di Gesù che ancora sigilla il percorso e il senso della vita su quei valori che rendono umano l’uomo e lo aprono alla compassione, alla condivisione, alla giustizia, alla distribuzione equa dei beni.

Il Maestro mette in guardia dalla provvisorietà del tempo e dalla follia di illudersi di poterlo fermare a forza di denaro: «Anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende dai suoi beni» (Lc 12,15) che un niente può disperdere come polvere al vento. Pur essendo necessario investire anche in sicurezza materiale, bisogna tenere un occhio vigile a ciò che nessuna ruggine può sciupare.

«Vanità delle vanità», dice Qoèlet, «vanità delle vanità, tutto è vanità» (1,2). Chi ha lavorato per accumulare sulla Terra dovrà lasciare comunque e comunque non vale la pena faticare una vita intera per lasciare tutto e non guadagnare nulla. L’insegnamento di Gesù di Nazaret provoca questo nostro tempo che ancora si lecca le ferite di un benessere economico dilapidato, aspettando che il benessere ritorni senza aver imparato che tutto era vanità.

Se l’inganno della ricchezza non produce giustizia, ma anzi rende più povero l’uomo, più vuoto di sé stesso, se rende tale sia chi abbonda perché è distratto dal suo destino, sia chi manca perché è costretto a essere privato delle sue possibilità, dei suoi sogni e quindi della sua dignità, non si può desiderare quel passato di svendita di umano come il meglio per l’uomo.

«Non mentitevi gli uni gli altri. Vi siete infatti spogliati dell’uomo vecchio con le sue azioni e avete rivestito il nuovo» (Col 3,9). E chi diventa uomo nuovo dà valore a ciò che conta, a ciò che resta e permette di rendere possibile il sogno che nonostante la “disonesta ricchezza” (Lc 16,9) si possa costruire un mondo dove è bello pensare che non ci sia il ricco e il povero, dove tutti abbiano la dignità di dire: ogni uomo è mio fratello.

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25 luglio 2010 - XVII Tempo ordinario


Luca (11,1-13)

Gesù si trovava in un luogo a pregare; quando ebbe finito, uno dei suoi discepoli gli disse: «Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli». Ed egli disse loro: «Quando pregate, dite: “Padre, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno; dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano, e perdona a noi i nostri peccati, anche noi infatti perdoniamo ad ogni nostro debitore, e non abbandonarci alla tentazione”». [...] Ebbene, io vi dico: chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Perché chiunque chiede riceve e chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto».


La tenerezza del Padre

«Signore, insegnaci a pregare» (Lc 11,1). Abbandonarsi a Dio e sentirsi protetti dall’amore del Padre è per il discepolo fonte di coraggio, certezza di essere sostenuti nell’ora della prova. Le parole non sempre, quasi mai, riescono a descrivere il bisogno di tenerezza e protezione di chi cerca in Dio l’abbraccio di fortezza. Le parole sono deboli quando tracciano percorsi che tentano di sfondare il cielo e provocare risposte alle domande di senso che il credente pone all’Alto. Tutta la Sacra Scrittura è un dialogo tra le nostre misere, fragili, contraddittorie parole e la Parola che non tradisce, che rende possibile la comunicazione impossibile tra il tutto e il niente.

Ma il discepolo chiede le parole adatte, capaci di sfondare il tempo e agguantare l’eterno. Non è follia che pretenda la risposta dal Dio degli eserciti e le parole adeguate per presentarsi dinanzi al roveto ardente senza rimanere fulminato dalla potenza di Dio. Il povero invoca e Dio l’ascolta, ripete il salmista, e la sua risposta è sollievo nella sofferenza, lotta per la giustizia, braccio teso in battaglia. Ma il Maestro di Galilea sorprende il povero che invoca.

Spiazza il discepolo che cerca parole per raccontare la vita al Signore degli eserciti, che resta il Dio della potenza, il totalmente Altro che pretende giudizio di bestemmia e debita condanna al solo pronunciare il suo nome. Gesù supera il desiderio delle parole richieste, accetta la sfida e provoca il discepolo a chiedere perché gli sarà concesso, a bussare perché gli verrà aperto, a cercare perché troverà ma a una condizione: aprirsi alla conoscenza vera di quel Dio a cui si rivolge perché mostrando il suo volto conceda la grazia. Pregare è mettersi nudi dinanzi alla verità di Dio, è abbandonarsi al suo progetto, è cercare il suo regno, è fare la sua volontà, è essere pronti a condividere il pane, benedizione di Dio, e disponibili a rendere il perdono.

Pregare è trovare le parole che insieme dicono la fedeltà del discepolo e la consapevolezza di potersi fidare di un interlocutore che non mente, non tradisce, non abbandona, non vuole la morte del peccatore ma che trovi la strada per tornare a casa. Il Maestro sconvolge i suoi compagni quando, avendogli chiesto: «Insegnaci a pregare», più che parole consegna l’assurdo del Vangelo: Dio ti è padre, tuo padre, anzi di più, Abbà, babbo, papà. Balbettio di tenerezza che solo un bimbo riesce nella sua semplicità a pronunciare, pronto a cercare la carezza della guancia paterna che sfiora la propria, a sentire le sue braccia potenti tirarlo in alto al petto e avvolgerlo di sicurezza. Quando pregate dite: «Padre», e lasciatevi fasciare dalla tenerezza di un Dio diverso.

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18 luglio 2010 - XVI domenica Tempo ordinario


Il servizio e l’ascolto

«Una sola è la cosa di cui c’è bisogno. Maria si è scelta la parte migliore » (Lc 10,42). Le sorelle di Lazzaro, Marta eMaria, aprono la loro casa all’amico Gesù. Il Maestro sa che ogni volta che passerà da Betania potrà bussare alla loro porta e troverà rifugio, calore familiare. Un affetto consacrato da parole di verità, dalla ricerca sincera di uno scambio fiducioso, aperto alla compassione. Con gli amici ci si scambia la vita, ma se si sceglie di essere compagni di Gesù, si sceglie la sua Parola.
Accettare la proposta di colui che ripete «Vi ho chiamato amici» (Gv 15,15) è aprirgli la propria casa, come Marta e Maria. Accoglierlo è liberare l’ingresso alla Parola che in diverso modo colora di senso la vita e la orienta al bene.
Diverso modo di indirizzare la propria esistenza rispondendo con la propria singolare storia alla proposta esigente dell’amico, così come le due sorelle nel diverso atteggiamento, in ascolto del Verbo, sembrano ripetere: «La tua parola, Signore, è verità: consacraci nel tuo amore» (Gv 17,17.19).
Diverso darsi e dire, ma non opposto, il porsi di Marta e Maria descrive percorsi di ricerca, modalità di risposta alla Parola. Entrambe sono comunque al suo servizio, entrambe sono beate perché custodiscono la parola di Dio che porterà copioso frutto.
La Parola resta al centro, in ogni caso. Per chi accoglie l’invito del Maestro solo la Parola, la sua, rimane il motivo centrale dell’amicizia con lui. Se da discepolo, e perciò da amico, pensassi di convertire il mondo senza essere compromesso dall’ascolto del Verbo, se volessi comprendere il mio itinerario credente lontano dalla Parola, tradirei la sua amicizia.
Marta si lamenta della mancanza di Maria, tutta presa dalla voce di Gesù, affascinata dalle sue parole di verità. Pensa, e non sbaglia, che ospitalità sia mettersi al servizio, indossare il grembiule della disponibilità, apparecchiare la tavola della condivisione, lavare i piedi della compassione. Ma il richiamo del Maestro rimanda al dovere di orientare ogni cosa in ragione della sua Parola.
Troppo impegnati a decidere se un cristiano debba essere dedito alla vita contemplativa o al servizio dei fratelli si perde di vista che chi sceglie il Maestro di Galilea, sceglie comunque la sua Parola. Sceglie l’ascolto, l’abbandono e, grazie alla Parola, sceglie anche il servizio ai fratelli, la corsa entusiastica del Vangelo gridato con la vita. La parte migliore che Maria si è scelta non è una fuga dal servizio ma il necessario spazio di silenzio, libertà di parole da acchiappare per dare senso a tutto il resto.
Mentre il mondo ci dice che siamo vivi solo se ingurgitiamo il tempo, il Vangelo lancia la sfida a un tempo significativo in armonia con la Parola.

Luca (1038-42)

In quel tempo, mentre erano in cammino, Gesù entrò in un villaggio e una donna, di nome Marta, lo ospitò. Ella aveva una sorella, di nome Maria, la quale, sedutasi ai piedi del Signore, ascoltava la sua parola. Marta invece era distolta per i molti servizi. Allora si fece avanti e disse: «Signore, non t’importa nulla che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti». Ma il Signore le rispose: «Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose, ma di una cosa sola c’è bisogno. Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta».

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11 luglio 2010 - XV domenica Tempo ordinario


Chi è il mio prossimo?

«Maestro, che devo fare per ereditare la vita eterna?» (Lc 10,25). Come per dire: cosa devo fare per essere felice? La domanda posta dal dottore della Legge sfonda il muro della presunzione di chi pensa che a forza di norme sia possibile trovare risposta al senso della vita. Amare Dio sopra ogni cosa, amare il prossimo come sé stessi, questo il comandamento per ereditare la felicità. La legge trova la sua sintesi perfetta nello svolgimento ordinato della vita di ogni uomo che provocata dal futuro avanza nel presente a ritmo dell’amore, verso l’Amore. Dio è primo, tuttavia nella esperienza umana Dio si svela dopo gli uomini, dentro gli uomini.
Il bambino incontra prima il volto della madre. Sarà lei a presentargli Dio che, primo come assoluto, nell’esperienza umana arriva attraverso gli altri. Ecco perché non posso amare Dio che non vedo se non amo gli altri che mi stanno accanto (cf. 1Gv 4,20). Il comandamento va oltre e racconta di un amore possibile, dato all’altro perché originato da un sé riconosciuto e riconoscibile: ama l’altro come te stesso, a dire che nessuno può dare agli altri quello che non ha. Posso amare se mi accetto, se mi voglio bene, se sono in armonia con me stesso, se conoscendomi riesco anche a perdonarmi. In tal caso amare Dio passa attraverso il sé, amare l’altro ugualmente è dono di sé.
Ma chi è il mio prossimo? Il Maestro non sfugge all’interrogativo e mentre riannoda il passato della legge, consegna il comandamento nuovo, forte di un amore uguale al suo, un amore capace di compassione. La parabola del samaritano è la tragedia di un inganno risolto grazie alla gratuità. Il sacerdote e il levita passano oltre colui incappato nel dolore, come tanti che parlano di giustizia e di fraternità, ma non la praticano. Un diverso per razza e religione si lascia invece provocare dal dolore innocente e riconosce nell’afflitto l’umano che gli appartiene. La conseguenza è la pietà, che muove il miracolo dell’abbondanza in tempo di carestia.
Il Maestro porta all’estrema conseguenza la sua rivoluzione. Chi è il prossimo? Colui che ha bisogno, che è aggredito, lasciato da solo agonizzante. Ovvio, chi altro. Ma la domanda del Maestro sconvolge: chi è il prossimo dell’aggredito? Chi è il prossimo del povero? E così facendo capovolge i ruoli dei protagonisti, anzi rende entrambi ugualmente protagonisti: il mio prossimo non è solo chi riceve perché è nel bisogno, ma anche chi dona è prossimo di chi è nel bisogno e gli rende la gioia di servirlo.
Forse c’è grande consolazione nel rendersi disponibili verso quanti sono nel dolore, ma è esaltante superare le barriere perché gli altri amandomi scoprano nel dono le frontiere splendenti della gioia.


Luca (10,25-37)

In quel tempo, un dottore della Legge si alzò per mettere alla prova Gesù e chiese: «Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?». Gesù gli disse: «Che cosa sta scritto nella Legge? Come leggi?». Costui rispose: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso». Gli disse: «Hai risposto bene; fa’ questo e vivrai». Ma quello, volendo giustificarsi, disse a Gesù: «E chi è mio prossimo?». Gesù riprese: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gèrico e cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto».

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4 luglio 2010 - 14° Domenica Tempo Ordinario

Luca (10,1-12.17-20)  

In quel tempo, il Signore designò altri settantadue e li inviò a due a due davanti a sé in ogni città e luogo dove stava per recarsi. Diceva loro: «La messe è abbondante, ma sono pochi gli operai! Pregate dunque il signore della messe, perché mandi operai nella sua messe! Andate: ecco, vi mando come agnelli in mezzo a lupi; non portate borsa, né sacca, né sandali e non fermatevi a salutare nessuno lungo la strada. In qualunque casa entriate, prima dite: “Pace a questa casa!”. Se vi sarà un figlio della pace, la vostra pace scenderà su di lui, altrimenti ritornerà su di voi. Restate in quella casa, mangiando e bevendo di quello che hanno, perché chi lavora ha diritto alla sua ricompensa. Non passate da una casa all’altra. Quando entrerete in una città e vi accoglieranno, mangiate quello che vi sarà offerto, guarite i malati che vi si trovano, e dite loro: “È vicino a voi il regno di Dio”.    

    
Messaggeri  della Parola

 
«Andate: ecco io vi mando come agnelli in mezzo ai lupi» (Lc 10,3). Il coraggio dell’annuncio si coniuga con il rischio. Il discepolo ha imparato alla scuola del Maestro di Galilea la gioia di gridare al mondo la verità che ha ricevuto, ma anche la consapevolezza che non sempre, non tutti sono disponibili ad accogliere la parola di verità.      
L’imperativo assoluto del Vangelo è partecipare agli altri ciò che si è ricevuto,       rendere   consapevoli tutti gli uomini che «è vicino il regno di Dio» (Lc 10,11). Regno sta per promessa mantenuta, per liberazione offerta ai prigionieri, per avvento dell’anno di grazia del Signore. È la profezia che diventa carne, sostanza degli avvenimenti, storia rinnovata per amore e solo per amore. Regno sta per acquisizione di un nuovo linguaggio per dire vita, di un’esperienza che superi il tormento del passato provocato da una relazione malata tra Dio e l’uomo, che impediva di leggere nella verità la tenerezza del Padre che ama e perdona: «Come una madre consola un figlio, così io vi consolerò» (Is 66,13).
L’annuncio gioioso della festa ritrovata è l’unica sostanza che riempie la bisaccia del messaggero, è l’unica ricompensa, è l’unico potere che lo spinge a cercare nuovi compagni d’avventura. Fedele al mandato ricevuto  consegna la Parola non sua, la vive come propria, la protegge come tesoro geloso, non la confonde con le parole vacue del mondo,  non la scambia con nessun’altra.  
A chi consapevolmente, provocato dalla testimonianza del discepolo, l’accoglie è data la pace.  A chi si oppone al Verbo l’oscurità di senso e il giudizio del messaggero: «Anche la polvere della vostra città che si è attaccata ai nostri piedi, noi la scuotiamo contro di voi» (Lc 10,11).
I messaggeri della Parola sanno di essere agnelli in cerca di altri agnelli, pronti come loro a far parte del gregge per superare definitivamente i giorni di lutto.   Agnelli consapevoli   di dover fare i conti con il branco sciolto di lupi feroci, pronti a contrastare il passo gioioso del messaggero di Dio,  a rubargli parole e trasformarle da entusiastica speranza in agonia.
Il discepolo sa che deve affrontare il buon combattimento dell’annuncio con il coraggio della fede per confondere i lupi di ogni tempo. La testimonianza dei settantadue di allora, e di quelli di oggi, sarà creduta se essi saranno credibili, se la verità del Verbo si sposerà con la loro verità sofferta, ricercata a tutti i costi, superando ogni ostacolo e tentazione. Né sicurezza umana, né tornaconto personale potranno mai favorire la corsa del Vangelo: i piedi del messaggero correranno liberi se il suo vanto sarà la libertà provocata dal primo comandamento: «Non avrai altro Dio all’infuori di me».       

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27 giugno - Tredicesima del Tempo ordinario



Luca (9,51-62)


    Per la strada, un tale gli disse: «Ti seguirò dovunque tu vada». E Gesù gli rispose: «Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo». A un altro disse: «Seguimi». E costui rispose: «Signore, permettimi di andare prima a seppellire mio padre». Gli replicò: «Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu invece va’ e annuncia il regno di Dio». Un altro disse: «Ti seguirò, Signore; prima però lascia che io mi congedi da quelli di casa mia». Ma Gesù gli rispose: «Nessuno che mette mano all’aratro e poi si volge indietro è adatto per il regno di Dio».


Un Maestro esigente

    «Egli si diresse decisamente verso Gerusalemme» (Lc 9,51). La corsa del Vangelo è esigente, inarrestabile il passo del Profeta. Egli sa che il tempo concesso è luogo formidabile per rintracciare i perduti e renderli liberi. Un passo che chiama a raccolta e costringe a una risposta significativa. La sequela è futuro di luce acchiappata: «Io sono la luce del mondo; chi segue me... avrà la luce della vita» (Gv 8,12). Una convocazione provocata dalla Parola che chiede adesione non emotiva, che cerca compagni di cordata non occasionali e offre percorsi impegnativi e tuttavia esaltanti.

    Una chiamata che prospetta libertà definitiva ma comporta fatica, impegno, coerenza e soprattutto fedeltà al Maestro di Galilea, abbandono al suo progetto: «Fratelli, Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi; state dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù» (Gal 5,1). Una chiamata che implica fiducia lungo la strada anche quando la croce sembra rubare la luce del traguardo, anche quando le esigenze del quotidiano sovrastano i pensieri, confondono le domande di senso, nascondono il vero.

    «Ti seguirò dovunque tu vada» (Lc 9,61) è desiderio fondamentale del discepolo, ma la sequela è esigente. Nessuna comodità, nessun privilegio sono garantiti: «Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo» (Lc 9,58). Giudizio di percorso altro da chi sceglie il solo potere umano, la stabilità del successo. Né potere della Terra, né compromesso umano saranno barriera al dovere del Vangelo: «Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu va’ e annuncia il regno di Dio» (Lc 9,60). È difficile corrompere il Giusto, impossibile ridurlo al proprio bisogno, al proprio egoistico progetto. Abbandonarsi al Maestro di Galilea è rischiare il suo verbo, lasciarsi prendere dal suo disegno, tendere ai suoi pensieri, volere la sua volontà. Perfino gli affetti più cari, i legami di sangue, potranno limitare il discepolo, corromperlo nel suo percorso.

    Nonostante il comandamento: «Amerai il prossimo tuo come te stesso» (Mc 12,31), sebbene nessuno sia più prossimo di un figlio o di un genitore, anche il sentimento più profondo sarebbe tradimento della verità, se fosse contrario alla giustizia, al vero amore che discende da Dio: «Nessuno che ha posto mano all’aratro e poi si volta indietro, è adatto per il regno di Dio» (Lc 9,62).

    Ti seguirò dovunque tu vada è il giusto desiderio di chi sente che il Maestro conduce alla felicità assoluta. Seguirlo è del discepolo, i passi sono del discepolo, la strada è la vita: il ritmo, il gioco del percorso, è di chi sta dinanzi. Pretendere altro è scegliere altra guida.

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In queste pagine potete trovare il commento alla liturgia domenicale e festiva secondo il RITO ROMANO, curata dal cardinale Dionigi Tettamanzi. 

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