27 giu
Monica Guerritore, volto noto del cinema, del teatro e della televisione. (foto Corbis)
Forse oggi Monica Guerritore non sarebbe stata un'attrice se Čechov non fosse entrato per caso nella sua vita. A 16 anni accompagnò un'amica per un provino al Piccolo di Milano. Giorgio Strehler preparava una nuova edizione del Giardino dei ciliegi e cercava una giovane interprete per il ruolo di Ania. Si presentarono in mille, ma il grande regista notò lei. La prese per mano e le disse: «Tu resti con noi». «Non sapevo nulla di teatro, né tantomeno dell'opera di Čechov. D'improvviso, un intero mondo si aprì di fronte a me», ricorda oggi l'attrice. Da allora si è trasformata in un'appassionata divulgatrice delle opere del grande scrittore russo – di cui Famiglia Cristiana allega al numero di questa settimana Il vescovo e altre novelle per la Biblioteca universale cristiana sui narratori – tanto in teatro quanto nelle scuole e nelle università, dove periodicamente organizza incontri e seminari.
- Che cosa affascina di più i giovani dell'opera di Čechov?
«Il realismo dei personaggi, l'affettuosa descrizione delle loro fragilità. Non sono mai portatori di una verità assoluta, ma solo della loro piccola, personale visione del mondo, e questo li rende vicini all'ansia di ricerca tipica della gioventù».
- C'è un sentimento prevalente nella sua narrativa?
«La malinconia del tempo perduto è l'onda emotiva su cui viaggia Čechov, un tema che però lui declina sempre attraverso molteplici prospettive, che corrispondono ai suoi personaggi».
"Il vescovo e altre novelle", volume allegato questa settimana a "Famiglia Cristiana".
- Tuttavia questa
malinconia nelle sue opere spesso si fonde con l'umorismo. Lei come lo
definirebbe?
«In un senso molto diverso da come lo intendiamo oggi. Non
ha nulla a che fare con la comicità. È piuttosto uno sguardo tenero sui piccoli
inciampi che rendono i suoi personaggi così ricchi di umanità. Personaggi che
non suscitano in noi il riso, ma al massimo un sorriso colmo di dolcezza.
Perché, a differenza di Dostoevskij che permea di tragedia i suoi romanzi, Čechov
mantiene uno sguardo delicato sui piccoli esseri umani che si trovano a vivere
in mondo così sconfinato e in subbuglio come era la Russia del suo tempo».
– Tolstoj rimproverava a Čechov di non infondere nella
scrittura la sua stessa tensione etica. Di lui scrisse: «È pieno di talento e
ha senza dubbio un cuore buonissimo, ma al momento non sembra possedere un
punto di vista ben definito sulla vita». È d'accordo?
«A dire il vero, non molto. In Čechov era fortissima la
convinzione che il futuro sarebbe stato migliore. Lo studente del Giardino dei
ciliegi dice che la conoscenza ci permetterà di alleviare le nostre sofferenze.
Credo che si tratti più che altro di una differenza di prospettiva: Tolstoj
predilige i grandi affreschi come Guerra e pace o Anna Karenina, mentre Čechov
si concentra su piccoli uomini solo in apparenza insignificanti. Ma la tensione
etica è fortissima, specie nei racconti. Me ne ricordo uno in cui un uomo si
uccide per la vergogna di essersi presentato a teatro senza cappello. È una
scena che avrebbe potuto benissimo far parte di un film neorealista di Vittorio
De Sica come Ladri di biciclette o Umberto D. per la precisione con cui
descrive un periodo storico, quello delle tensioni in Russia che sarebbero poi
sfociate nella Rivoluzione del 1917. Nelle pagine di Čechov si avverte
fortissima l'agonia di un mondo che sarà presto sostituito da un altro».
– Il fatto che abbia alternato la scrittura alla professione
di medico quanto ha influito sulla sua poetica?
«Tantissimo. Solo chi ha toccato con mano le tempeste
emotive che traspaiono da personaggi apparentemente anonimi può raccontarle con
la credibilità e la delicatezza che innervano tutta l'opera di Čechov».
Racconta e vinci il grande cinema di Chaplin
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Anche a voi è capitato, come ai protagonisti dei racconti di Cechov, di provare un sentimento di incomunicabilità nei confronti di una persona che vi sta a cuore?
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La redazione di Famiglia Cristiana ogni settimana sceglierà il racconto migliore, che verrà premiato con un cofanetto di 13 Dvd con i grandi capolavori di Charlie Chaplin.
Pubblicato il 27 giugno 2012 - Commenti (2)
20 giu
«La sua casa milanese di via Donizetti era sempre aperta per me». Il cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio consiglio per la cultura, racconta la sua amicizia con lo scrittore Luigi Santucci, «Lillo, come lo chiamavamo affettuosamente», di cui Famiglia Cristiana proporrà la settimana prossima Il ballo della sposa per la Buc - I narratori.
Un'amicizia nata dall'ammirazione: «Ero ancora studente di teologia, e a Roma, passando un giorno da una libreria, avevo acquistato uno dei suoi primi romanzi (anzi, quello che lo avrebbe svelato al grande pubblico), Il velocifero. Da quella lettura era nato il desiderio – considerato allora impossibile – di conoscere l'autore. In seguito, nel 1967, sacerdote da un anno avevo scoperto quello che considero il suo capolavoro, Orfeo in paradiso. E avevo accanto ancora mia madre, quando – ormai insegnante nei seminari milanesi – durante le vacanze natalizie del 1971, avevo seguito la trascrizione televisiva di quel romanzo, un emozionante sceneggiato di Leonardo Castellani». Poi l'ammirazione si trasformò in contatto e in amicizia. «Fu la moglie amatissima di Lillo, Bice, la sua "Beatrice", donna straordinaria, ad accorciare le distanze. In casa loro ero accolto come un fratello o un figlio da una famiglia unita e numerosa, pronta a festeggiare ogni comune ricorrenza, spesso unendo a essa anche la mia famiglia». Una frequentazione che divenne più intensa dal 1990, «quando Lillo riuscì a trovare per mio padre e le mie due sorelle una casa estiva accanto alla sua a Guello di Bellagio. Lassù, davanti a un panorama mozzafiato, dinnanzi al lago manzoniano per eccellenza, quello di Lecco- Como, e all'incombere frontale delle due Grigne, ogni giorno ad agosto, Santucci – salendo una piccola erta e superando un varco nella siepe divisoria dei due giardini – si presentava cercando di "sorprendermi" mentre ero intento nella lettura o nella scrittura».
Santucci, conclude il cardinale, «era un uomo festoso, attaccato alla vita, capace di giocare a tennis fino a pochi mesi prima della malattia che lo portò alla morte il 23 maggio 1999, pronto alle battute folgoranti, a ospitare amici, a comporre per loro dediche e stornelli, a lasciarli incantati con le sue straordinarie "recite" o certe stupende letture dantesche ». Riprendere in mano i suoi libri ha anche il senso di ripercorrere, attraverso la scrittura, la fede di un uomo: «Ha sempre cantato la gioia semplice e umile, deposta come un seme microscopico nel terreno della vita. Ha fatto intravedere, con i suoi scritti, il paradiso che altro non è che la felicità "capillare", cioè quella che si cela, come diceva Santucci, "entro il battere di ogni nostra ora"».
La copertina de "Il ballo della sposa" di Luigi Santucci, disponibile in edicola e in parrocchia a partire da giovedì 21 giugno.
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Pubblicato il 20 giugno 2012 - Commenti (0)
12 giu
Giulio Scarpati
L’attore Giulio Scarpati, deve la sua
straordinaria popolarità soprattutto
alla serie Tv Un medico in famiglia, dove
interpreta il ruolo del dottor Lele
Martini accanto a Lino Banfi (nonno Libero).
E della fortunata fiction, che ha esordito nel
1998, sta girando ora a Roma l’ottava serie.
Ma Scarpati si è spesso dedicato al teatro, spaziando
da Goldoni a Šechov a Koltès. Nella
prossima stagione verrà diretto da Alessandro
Gassman in L’oscura immensità della
morte di Massimo Carlotto, insieme a Claudio
Casadio.
Scarpati, interprete nella stagione teatrale
1999-2000 de L’idiota di Fëdor Dostoevskij,
insieme a Mascia Musy, con la regia di Gigi
Dall’Aglio, parla del suo rapporto con Dostoevskij
di cui Famiglia Cristiana allega al numero da domani in edicola e in parrocchia Le notti bianche,
nella collana Biblioteca universale cristiana /
I narratori.
«Quando ho scelto di interpretare proprio
Dostoevskij», ricorda l’attore romano, sposato
con la regista di teatro Nora Venturini, e
padre di due figli, Edoardo di 24 anni e Lucia
di 17, «ero appena diventato famoso come
protagonista della prima serie di Un medico
in famiglia e molte persone, mai state
prima a teatro, sono venute a vedermi incuriosite
dalla mia popolarità: ne sono stato
contento perché ho avvicinato un vasto pubblico all’autore russo che, al di là delle conoscenze
scolastiche e universitarie, per me è
sempre stato affascinante e coinvolgente
emotivamente».
Scarpati ammira il principe Myškin de
L’idiota, per la sua spontaneità perché parla
sinceramente con ingenuità e a fin di bene.
Dopo essere stato in Svizzera, per curarsi
dall’epilessia (malattia di cui soffriva anche
Dostoevskij), ritorna in Russia, ma si scontra
con persone ipocrite che vivono ancora condizionate
dalle regole della società feudale.
«Myškin», commenta l’attore, «coinvolge i
lettori, poiché a chiunque, per amore di verità,
piacerebbe dire ciò che pensa: è un uomo
buono, ma la sua bontà inconsapevolmente
provoca danni e reazioni contrastanti, come
quando si offre d’istinto di sposare Nastas’ja,
una donna disonorata che, pur amandolo,
rinuncia a lui per non rovinare la sua
reputazione, andando incontro a una tragica
fine.
Efficace appare la tirata politica del
principe contro la pena di morte, a cui lo
stesso Dostoevskij era stato condannato
per attività sovversiva e poi graziato dallo
zar Nicola I. L’approssimarsi della morte suscita
nel condannato una forte reazione emotiva
perché ogni minuto che resta da vivere
diventa prezioso e fa capire quanto tempo si
è sprecato inutilmente. Bisognerebbe infatti
poter attribuire valore a ogni momento della
vita come se fosse l’ultimo».
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Pubblicato il 12 giugno 2012 - Commenti (0)
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