26 lug
Il regista Mario Martone, dopo aver portato le "Operette Morali" a teatro, ora girerà un film sulla vita del poeta di Recanati.
In seguito a uno di quegli incontri spirituali,
misteriosi e fecondi, che avvengono fra un artista
e un personaggio, da un po’ di tempo il
regista Mario Martone sta indagando la figura
di Giacomo Leopardi. «Mi ero già interessato
a lui, nel 2004, con L’opera segreta. E da qualche
anno ero intrigato dalle Operette morali.
Quando il Teatro stabile di Torino mi ha chiesto
una programmazione per i 150 anni
dell’Unità d’Italia, ho avuto l’intuizione che
quel testo non avesse solo una dimensione filosofica,
ma che racchiudesse anche un segreto
drammaturgico. Il teatro fu importante nell’infanzia
di Leopardi: da bambino metteva in scena
con la sorella Paolina testi di sua invenzione.
Era un gioco catartico, che lo liberava da sé.
Nelle Operette c’è traccia di quel bambino,
di quella voglia di giocare, con un’attenzione
a temi alti che non esclude la disponibilità
al sorriso. C’è una voglia di travestimento
straordinaria, un pensiero mai schematico, in
forza del quale si proietta in diverse figure, da
Giove a Tasso al venditore di almanacchi».
Spesso sfugge una sensazionale coincidenza
cronologica: le prime edizioni delle Operette
morali e dei Promessi sposi del Manzoni furono
pubblicate nello stesso anno, il 1827.
«Mentre il grande romanzo del milanese aveva
una forma riconoscibile e assurse a testo nazionale,
l’opera dell’autore di Recanati fu percepita
come “laica” ed ebbe una sorte ben diversa,
anche perché la mescolanza di dialoghi
e prosa lo rendevano meno “comprensibile”»,
osserva Martone. «Ancora oggi lo conosciamo
solo nelle sintesi scolastiche, ma non si è ancora
imposta l’idea di assumerlo come un libro
intero, una grandiosa cosmogonia alla stregua
delle Mille e una notte o del Decamerone».
Un ritratto del Leopardi.
Come tutti i classici, anche le Operette morali
hanno molto da dire a noi contemporanei. «Diversi
elementi colpiscono la nostra immaginazione
», osserva il regista. «Pensiamo a quanto è
centrale, oggi, il rapporto fra l’uomo e la natura;
oppure all’idea che la società sia dominata
dall’ipocrisia... Sono questioni diventate manifeste
ai nostri occhi e che Leopardi anticipò, deluso
dagli sviluppi politici. Mazzini non lo
amava, proprio a causa di questa sfiducia,
ma guardando la storia a posteriori ci si rende
conto di quanto vedesse lungo... Aveva
capito che l’organizzazione della società non
tendeva all’afflato fra gli uomini, a quell’umana
compagnia identificata come unico senso
del vivere. Una visione lucida e disincantata».
A voler leggere con mente aperta le Operette
morali, si ha la sensazione di essere al cospetto
di un laboratorio da cui attinsero
Nietzsche, Schopenhauer, Brecht, Pirandello...
Leopardi è un profeta? «È in costante dialogo
con il passato e il futuro. È innegabile
che la sua denuncia e il suo sguardo rivelino
tratti profetici, ma possibili solo grazie a una
conoscenza profonda degli antichi: sono essi
a metterlo nella condizione di attraversare il
tempo con una visione ampia».
La trasposizione teatrale dell’opera leopardiana,
vincitrice del Premio Ubu per la regia
e del Premio La Ginestra, non ha esaurito
l’interesse di Martone, al lavoro su un film
dedicato al poeta. «Ho la sensazione che il
cantiere sull’Ottocento che si è improvvisamente
aperto nella mia vita, dal quale sono
germogliati Noi credevamo, la rivisitazione di
capolavori di Verdi e Rossini e la versione teatrale
delle Operette, darà un ulteriore frutto.
Il film uscirà l’anno prossimo». Dovrebbe
trattarsi del racconto della vita del grande
poeta, mentre non è ancora stato deciso l’attore
che lo interpreterà. Di sicuro, ci permetterà
di conoscere meglio questo padre intellettuale
del nostro Paese.
La copertina delle "Operette Morali" di Giacomo Leopardi, da oggi in edicola con "Famiglia Cristiana".
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Pubblicato il 26 luglio 2012 - Commenti (2)
19 lug
Dacia Maraini, scrittrice, saggista e autrice per il teatro.
«Come non leggere tutte le opere
di Lev Tolstoj? È una pietra
miliare della letteratura mondiale
». A parlare del grande
scrittore russo (1828-1910), autore di capolavori
come Guerra e pace e Anna Karenina, è
Dacia Maraini, scrittrice prolifica, romanziera,
autrice di saggi, poesie, testi per il teatro e
sceneggiature, rientrata di recente da uno
dei suoi innumerevoli viaggi per il mondo.
Destinazione Colombia: «Un Paese di enormi
contraddizioni», osserva la scrittrice, «ricchissimo
e insieme miserabile, ma dove si coltiva
uno straordinario interesse per la letteratura,
la poesia, il teatro». La Maraini ora sta lavorando
alla stesura di una raccolta di racconti,
che uscirà a settembre. Filo conduttore:
la violenza sulle donne.
– Alcuni anni fa lei ha scritto un testo per il
teatro intitolato Casa Tolstoj. Può raccontarne
la genesi?
«Casa Tolstoj è un testo nato dalla lettura
dei diari personali di Sofia Bers, la giovanissima
moglie che Tolstoj sposò nel 1862 quando
lei aveva appena 18 anni, mentre lui era molto
più anziano. Si sposarono dopo una settimana
di fidanzamento, ma già si conoscevano
da tempo. Sofia era una ragazza piena di
vita e di entusiasmo, ma nel suo diario lei stessa
confessa che, all’epoca delle nozze, non sapeva
niente dell’amore e del matrimonio.
Una volta sposata, secondo l’usanza del tempo,
fu obbligata ad avere una gravidanza dietro
l’altra (in tutto 13). A quel tempo le ragazze
non venivano educate al matrimonio, che
era vissuto come un’esperienza durissima.
Spesso i bambini morivano appena nati, anche
tra le famiglie benestanti. E molto spesso
pure le madri morivano in gravidanza».
– E Tolstoj come visse il matrimonio?
«Fu un pensatore molto aperto, moderno
per la sua epoca. In questo senso ritengo molto
importante il romanzo breve La sonata a
Kreutzer: in quell’opera lo scrittore esprime
la sua visione della famiglia e del matrimonio,
il suo rapporto con l’universo femminile.
È una denuncia sociale dell’istituzione del
matrimonio come era visto a quel tempo e
una condanna del mercimonio. Lo reputo un
romanzo molto attuale: oggi parliamo di
mercimonio della donna in forma differente,
ma sempre mercimonio».
Lo scrittore russo Lev Tolstoj durante gli anni della vecchiaia.
– Quanto ha influito su di lei la lettura dello
scrittore russo?
«Tolstoj è stato un grande maestro: oltre che
uno scrittore, era un pensatore, uno che aveva
le sue idee ben definite. Allora questa definizione
non esisteva, ma oggi lo chiameremmo
scrittore impegnato. Guerra e pace rappresenta
uno dei più grandi capolavori di sempre, il
suo romanzo più complesso e completo, che
offre una visione a tutto tondo del mondo».
– E Confessione?
«Confessione rappresenta l’opera della sua
conversione: il cristianesimo di Tolstoj era
giansenista, creaturale, molto legato all’imitazione
di Cristo. Mi piace la sua visione cristiana,
perché rifuggiva dalle istituzioni, era
molto idealista, fondata sul senso della fratellanza,
sull’insegnamento di Cristo vissuto alla
lettera».
– A chi si accosta per la prima volta alla lettura
di Tolstoj con quali opere consiglierebbe
di cominciare?
«Con i racconti, che offrono già una panoramica
sul pensiero dello scrittore. Solo in seguito
consiglierei di affrontare le opere monumentali,
come Guerra e pace».
– Tolstoj è ricordato anche per il suo pacifismo
e il suo pensiero non-violento.
«Sì, anche in questo senso è un pensatore
molto attuale. Rappresenta un esempio per il
nostro tempo, perché pensava in termini di
pace autentica. Per il suo tempo era un innovatore.
Ma le sue idee ci ricordano che, in
ogni epoca, è fondamentale porsi degli obiettivi
elevati, anche se in questo modo si rischia
il fallimento. Bisogna coltivare l’ottimismo
e puntare sempre in alto».
la copertina del volume della Buc che comprende Confessione e La morte di Ivan Il’ic.
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Pubblicato il 19 luglio 2012 - Commenti (0)
12 lug
Franco Cardini, esperto di Medioevo.
«Non so che cosa mi aspetterà, dopo che il boia mi avrà giustiziato. Ma so per certo che benedirò, da quel momento, la fortuna di essere nato». Con queste parole messe in bocca al protagonista, Italo Alighieri Chiusano conclude l'autobiografia romanzata del sedicenne Corradino di Svevia, re di Napoli, Sicilia e Gerusalemme, venuto in Italia a sfidare il francese Carlo d'Angiò, appoggiato dal Papa. Konradin è il prossimo volume proposto con Famiglia Cristiana per la serie della Biblioteca universale cristiana. Ne parliamo con Franco Cardini, fra i massimi esperti del Medioevo.
– Cardini, come va letta questa vicenda?
«Chiusano non pretende di scrivere un romanzo storicamente attendibile: la vicenda di Corradino è per lui l'occasione di riflettere sull'immagine romantica di un personaggio che ha affascinato la cultura romantica tedesca e italiana. La figura di Corradino riassume alcuni grandi archetipi: la sacralità dell'investitura regale, la purezza degli ideali della giovinezza, il sacrificio eroicamente vissuto. Corradino affronta con coraggio e onestà un'avventura più grande di lui: la perfidia di chi lo ha ingannato, tradito e giustiziato gli costa la vita».
– Quale era la sensibilità religiosa di suo nonno, il grande Federico II e cosa ha rappresentato per l'Italia il suo regno?
«Federico II dovette affrontare forti contrasti con alcuni Pontefici, ma ciò non significa che fosse eretico o ateo. Quanto all'Italia, della quale come imperatore Federico era re, egli cercò inutilmente di piegare i Comuni centrosettentrionali alla sua volontà. In Germania, invece, seppe assecondare saggiamente le iniziative che, nella fedeltà alla corona, tendevano all'autonomia e prefiguravano il futuro federalismo tedesco. In Sicilia instaurò un governo autoritario e centralista, sulla base del precedente modello normanno, affidò le finanze e le risorse dell'isola ai mercanti e agli imprenditori del continente, specie genovesi e pisani, imponendo un'economia di dominio che diventò una delle cause del mancato sviluppo del meridione d'Italia».
– La lotta tra la dinastia angioina e sveva per il dominio dell'Italia ci riporta ai tempi delle lotte tra guelfi e i ghibellini, due anime che, forse, coesistono ancora oggi nella coscienza nazionale...
«Le lotte cittadine e familiari che derivano dalle vicende storiche passate non sono un fenomeno esclusivo della penisola italica. Solo dopo la Rivoluzione francese le rivalità e le inimicizie in Italia assumono una nuova veste ideologico- politica. Non dobbiamo leggere il Risorgimento e il periodo successivo alle due grandi guerre mondiali alla luce della contrapposizione tra neoguelfi e neoghibellini, né attribuire ai guelfi una natura clericale e ai ghibellini un'anima anticlericale».
– Konradin si collega alla serie di romanzi ambientati in epoca medievale: perché ci affascina questo periodo?
«Il Medioevo ci attrae per la sua natura indistinta, nella quale trova posto tutto e il contrario di tutto: fede ed empietà, religione e magia, amore per la scienza e la filosofia e culto del mistero, afflati di pace e impulsi violenti. Dal Quattrocento in poi si è guardato al Medioevo come a un periodo confuso e retrogrado, mentre a partire dall'Ottocento è stato rivalutato come un'epoca di libertà, fantasia e sentimento».
– Cosa si può dire sulla figura della madre di Corradino, Elisabetta di Wittelsbach, a cui il figlio si rivolge nella lunga lettera con cui inizia il romanzo.
«Non sappiamo molto di lei se non che era una principessa colta e pia. Appartenendo alla dinastia dei duchi di Baviera, tradizionalmente avversari dei duchi di Svevia, cui apparteneva invece il marito. Era ben conscia dello scontro dinastico che, dalla prima metà del XII secolo, dilaniava l'Impero romano-germanico. Anche Federico I Barbarossa, del resto, era figlio di un duca svevo e di una duchessa bavara».
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C'è un'occasione in cui avreste voluto essere più coraggiosi e leali di quanto siate effettivamente stati?
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Pubblicato il 12 luglio 2012 - Commenti (2)
05 lug
Un'immagine della scrittrice sarda Grazia Deledda.
«Grazia Deledda è diventata immortale partendo da un piccolo mondo antico. E lascia intorno a sé una scia di impietosa invidia». Salvatore Niffoi i libri di Grazia Deledda li ha tutti in casa, in diverse edizioni, li ha letti, amati, compresi, interiorizzati. Lui che, con i suoi romanzi, ha sempre cercato di penetrare nelle viscere della sua Barbagia, restituendola al lettore in forma di colori e odori, sapori, emozioni. Proprio come faceva la scrittrice nuorese, premio Nobel per la letteratura nel 1926.
«I libri della Deledda sono dei dipinti», spiega Niffoi, «le parti descrittive rappresentano la metà della narrazione. I romanzi deleddiani si annusano, si guardano, si gustano, si percepiscono con tutti i sensi». Nata nel 1871, la Deledda fu autrice prolifica di romanzi, novelle, racconti per le riviste. In seguito si trasferì a Roma (dove morì nel 1936), ma portando sempre con sé la Sardegna con i suoi riti, i suoi paesaggi, la sua storia. «La cosa bella di questa scrittrice», continua Niffoi, «è che, come del resto molti autori sardi, sentiva la scrittura. Non scriveva per avere la visibilità e basta, ma perché aveva qualcosa da dire. Lei aveva un mondo da raccontare. E le accuse di esotismo che spesso le sono state rivolte – così come le hanno rivolte a me – provengono da persone che la Sardegna l'hanno vista solo in cartolina».
Lo scrittore Salvatore Niffoi nel suo paese, Orani, in Barbagia.
«Quel mondo antico», continua lo scrittore, «esiste ancora nella sua bellezza, nella sua arcaica crudeltà, un mondo dove l'elogio della lentezza è regolato dalle leggi del tempo e delle stagioni. Quel mondo ai tempi della Deledda aveva qualcosa di animalescamente magico, era intriso del senso dell'onore, del pudore e della vergogna: le persone allora coltivavano il senso dell'ineluttabilità del male fin da piccole, perché esisteva un contatto diretto con la morte attraverso la terra». Oggi, spiega Niffoi, tanti parlano della Deledda senza averla capita. «Tanti dicono che la sua lingua è obsoleta: non è vero, è modernissima, le sue parole hanno una grammatica musicale introvabile in altri autori».
Grazia Deledda è stata sempre accostata ai veristi, a Giovanni Verga e Luigi Capuana, che apprezzarono molto la sua capacità narrativa. «Eppure, più che al verismo io la accosto a Tolstoj», commenta Niffoi. «Cenere ricorda molto il romanzo Resurrezione, nella trama, nel senso terribile dell'ineluttabilità del male e della colpa. I personaggi deleddiani, in realtà, non sono dei vinti: sono "malfatati", colpiti da un destino avverso. La Deledda è sempre contemporanea: quando racconti le passioni, la cornice cambia, ma la realtà rimane sempre la stessa, attualissima». Ed era una piccola grande donna: «Era minuta, non bella, ma in confronto alle tante "veline" di oggi era un gigante. Non inseguiva le mode, era una grande imprenditrice di sé stessa. A un certo punto, se ne andò a Roma perché aveva bisogno di ossigeno, di libertà, era una donna forte, insofferente, che non sopportava le catene. Ma dalla Sardegna lei, in realtà, non è mai andata via: noi sardi, per capire il senso di saudade, nostalgia feroce per la nostra terra, abbiamo bisogno di staccarcene, di attraversare il mare».
La scrittrice di Nuoro aveva capito tutto della sua terra, anche il senso di ingratitudine e di irriconoscenza: «Molti in Sardegna e a Nuoro oggi parlano di lei con fastidio, perché non era una che le mandava a dire, scriveva quello che vedeva, e a volte per scrivere usava il bisturi. Sapeva scavare nella profondità dell'anima degli esseri umani, e poi prendeva i personaggi e li metteva sulla pagina, spesso con violenza, ma sempre con un forte senso del dolore e dell'amore, visti come inseparabili perché, in fondo, l'unica cosa certa di questa vita è la morte. E la Deledda, cristianamente, lo aveva capito».
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Olì, la protagonista del romanzo Deledda, compie un gesto estremo per "salvare" il figlio. Voi cosa sareste disposti a fare per amore dei vostri figli?
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Pubblicato il 05 luglio 2012 - Commenti (0)
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