29 ago
Alessandro Gassman è Franco Maironi in Piccolo mondo antico (foto Webphoto).
«Fu un uomo fuori dal comune»,
osserva Alessandro Gassman,
interprete nella fiction televisiva
tratta dal capolavoro dello
scrittore vicentino. «I suoi libri
sono fondamentali per capire
chi eravamo e chi siamo oggi».
Antonio Fogazzaro raccontò di sé stesso
che all’età di tre anni sapeva già
leggere e che fin da bambino «era avido
di libri». E si autodefinì un enfant
prodige. «Io invece non lo sono stato affatto,
anzi ero considerato la pecora nera della famiglia.
Casomai, sono stato figlio di un enfant
prodige: papà Vittorio se lo ricordano ancora
al Liceo Tasso di Roma per le pagelle mostruose,
piene di dieci. Ma, come spesso accade,
ho recuperato dopo, negli anni, e lo sto
ancora facendo». Eccome.
Alessandro Gassman che, comunque,
neanche diciannovenne recitava già sul palco
Affabulazione di Pasolini e di lì a poco
avrebbe lavorato con un mostro sacro come
Luca Ronconi, accetta con ironia il confronto
insostenibile col grande scrittore risorgimentale
veneto. Fogazzaro lo conosce bene, avendo
interpretato nel 2001 il personaggio di
Franco Maironi in Piccolo mondo antico, la
fiction televisiva per la regia di Cinzia Torrini
tratta dal romanzo omonimo.
Antonio Fogazzaro, nato a Vicenza nel 1842 e morto nel 1911.
«Fogazzaro
è stato anzitutto un uomo al di fuori del comune
», afferma l’attore romano. «Dotato di
una straordinaria capacità di scrittura, è stato
un testimone del suo tempo: i suoi libri
sono precise fotografie dell’Italia dell’epoca.
Riprendere in mano i suoi romanzi, quindi,
in un Paese come il nostro che ha la memoria
cortissima e che pare aver smarrito la
strada maestra è operazione importante
per capire chi eravamo
e, quindi, chi siamo oggi. Insomma,
è un grande classico, che ha
contribuito a segnare la storia
culturale del nostro Paese».
Dello scrittore vicentino Famiglia
Cristiana propone, questa settimana, il volume Il Santo,
che chiuderà la collana Biblioteca universale cristiana,
molto apprezzata dai lettori.
Il caso ha voluto che proprio
Gassman nella sua recente
performance teatrale Dio e
Stephen Hawking (tratta dal
testo di Robin Hawdon) abbia affrontato
il delicato rapporto tra fede e scienza, tema
che aveva appassionato anche Fogazzaro, il
quale si creò non pochi nemici in seno alla
Chiesa per le sue aperture alla teoria evoluzionistica
darwiniana.
«D’altra parte, il confronto tra lo scienziato
e l’uomo di fede, in generale, e nello specifico
la questione delle origini dell’universo mi
hanno sempre affascinato», afferma Gassman.
Molti anni fa aveva già affrontato in
Lourdes, una fiction della Rai, anche il rapporto
tra medicina e fede, interpretando il ruolo
di un dottore che si trova davanti alla guarigione
inspiegabile della moglie». «Una esperienza
che avrebbe insinuato nel protagonista
un dubbio radicale e lo avrebbe scosso così
tanto da sconvolgergli la vita», commenta
l’attore, che da due anni è direttore artistico
del Teatro stabile del Veneto. «Credo che queste
siano tematiche fondamentali, che solo
i grandi scrittori o drammaturghi
sanno trattare e che io
amo particolarmente».
Il Santo, uscito nel 1905,
fu un libro che ebbe successo
di pubblico, ma fu messo all’Indice
dalla reazione antimodernista
di Pio X. «Oggi per fortuna
l’Indice dei libri proibiti non esiste
più, ma i libri in Italia si leggono
sempre meno. È un dato
deprimente. Per quanto mi riguarda,
cerco di fare la mia parte:
ho preso l’impegno con me
stesso di leggere almeno un libro
al mese». L’ultimo? «Il volumetto
dell’autore austriaco Thomas Bernhard I miei
premi, un ritratto sarcastico e divertente del
mondo dei premi letterari», risponde l’attore
che si è cimentato con successo anche nella regia
e che l’anno prossimo metterà in scena il
Riccardo III di Shakespeare.
Alberto Laggia
Racconta e vinci il grande cinema di Chaplin
Utilizzando lo spazio commenti e senza superare le 1000 battute, rispondi a questa domanda:
«Ricordate qualche momento in cui la fede vi ha dato conforto?»
Per ognuno dei 13 volumi della collana BUC - I narratori, "sfidiamo" i lettori a inviarci un loro racconto sul tema del libro della settimana.
La redazione di Famiglia Cristiana ogni settimana sceglierà il racconto migliore, che verrà premiato con un cofanetto di 13 Dvd con i grandi capolavori di Charlie Chaplin.
Pubblicato il 29 agosto 2012 - Commenti (2)
21 ago
La grande attrice Valentina Cortese
Per capire chi è Valentina
Cortese basta riportare le
parole di Ingrid Bergman
che nel 1973 le soffiò
l’Oscar come miglior
attrice: «Questo Oscar non
mi appartiene. Appartiene
a Valentina Cortese». Musa
per molti anni di Giorgio
Strehler, ha recitato al
cinema per registi come
Federico Fellini, François
Truffaut e Franco
Zeffirelli. Per quest’ultimo,
con cui ha girato anche
Fratello sole, sorella luna e
Gesù di Nazareth, ha
interpretato la madre
superiora in Storia di una
capinera, il film che il
regista nel 1993 ha tratto
dall’omonimo romanzo di
Giovanni Verga, che
Famiglia Cristiana
propone questa settimana nella collana
Biblioteca universale
cristiana. La grande attrice,
nata a Milano nel 1923 e
che ha da poco pubblicato
la sua autobiografia Quanti
sono i domani passati, ha
scritto per noi queste righe
per spiegarci cosa ha
rappresentato per lei
il romanzo di Verga.
Angela Bettis in Storia di una capinera.
Storia di una capinera è un’opera giovanile
di Giovanni Verga. Ma già lo
studio psicologico dei personaggi è
estremo.
C’è una meravigliosa fusione
fra i personaggi e l’ambiente in cui vivono
e agiscono. È un romanzo intimo. La
realtà descritta è colta nel suo aspetto nudo
e doloroso. Paesaggi e personaggi restano
“veri” eppure immersi in una luce
di favola remota. Una materia perfetta
per il cinema, con le sue descrizioni a
campi lunghi e con i primi piani psicologici
dei personaggi.
Ci sono, nella scrittura di Verga, l’intimità
e il pudore dei sentimenti, la fatica e la
pena del lavoro, insomma, la vita. Sentimenti
e paesaggi visti sul nascere e il morire di
un’esaltazione amorosa.
A Storia di una capinera mi legano pure ricordi
personali. Anch’io, come la giovane
protagonista Maria, non sono stata cresciuta
dalla mia vera madre e durante le riprese del
film di Zeffirelli mi capitava di proiettare su
Angela Bettis, l’attrice che la interpretava,
parte del mio mondo giovanile.
Il ruolo di
madre superiora mi riportava al mio mestiere
di attrice e diventavo altro da me, ma certe
onde emotive provate nella mia infanzia le rivivevo
fortissime quando vedevo Angela nei
panni di Maria. E poi c’era l’ambientazione
contadina, così presente nelle opere di Verga,
abilissimo nel cogliere il rituale quotidiano
del lavoro nei campi, i giochi, le feste stagionali.
Io sono cresciuta in quel mondo e,
anche se di certo non mi rendevo conto di
tutto questo con la sua lucidità, assaporavo i
proverbi, i canti, i balli nell’aia, le favole nella
stalla raccontate dagli anziani del paese.
E ancora oggi che i ricordi risvegliati si
fanno più vividi e presenti, li rivivo con la
poesia delle cose lontane.
È questa la grande
forza della letteratura: è il grande specchio
dove l’umanità si riflette e si riconosce,
è la memoria che ci lega nel tempo.
Vorrei vivere un’altra vita ancora per leggere
e per rileggere i grandi libri.
Storia di una capinera di Verga in edicola e in parrocchia da giovedì 23 agosto
Racconta e vinci il grande cinema di Chaplin
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«Nella vostra vita c'è un grande desiderio che è rimasto irrealizzato?»
Per ognuno dei 13 volumi della collana BUC - I narratori, "sfidiamo" i lettori a inviarci un loro racconto sul tema del libro della settimana.
La redazione di Famiglia Cristiana ogni settimana sceglierà il racconto migliore, che verrà premiato con un cofanetto di 13 Dvd con i grandi capolavori di Charlie Chaplin.
Pubblicato il 21 agosto 2012 - Commenti (3)
14 ago
David Riondino.
Mettete che un bel giorno il ministero
della Cultura decida di lanciare
una campagna per alzare il livello
medio dei cabarettisti. Immaginate
poi che l’ispettore inviato dal ministero sia
David Riondino e che il comico ignorante da
istruire sia Dario Vergassola.
Considerate, infine,
che tema della lezione sia uno dei capolavori
dell’Ottocento, Madame Bovary di Gustave
Flaubert.
Quale sarà il risultato di Riondino
accompagna Vergassola a incontrare
Flaubert, se non un avvincente, divertente e
serrato duello sul campo della letteratura?
«Fu uno scrittore “popolare”, capace di affrontare
temi di comune interesse, di indagare
i sentimenti», dice Riondino a proposito
dell’autore che viene proposto nella collana
della Biblioteca universale cristiana con il numero di Famiglia Cristiana di questa settimana.
Già
bibliotecario alla Biblioteca nazionale di Firenze,
nato artisticamente con la generazione
dei cantautori degli anni Settanta, musicista
(ebbe l’onore di aprire i concerti di De André),
verseggiatore satirico con la passione
per la divulgazione, Riondino ha ripetuto
l’esperimento, sempre in compagnia di Vergassola,
con Don Chisciotte, Pinocchio, I promessi
sposi. Prova che la grande letteratura,
se declinata nelle forme adatte, può davvero
conquistare ogni tipo di pubblico.
E a darcene
una prova convincente e tangibile è proprio
Flaubert, con i suoi grandi romanzi. «La
forza della trama, il realismo con cui descrive
le relazioni fra i suoi personaggi, l’abilità nel restituire l’intimità e i chiaroscuri delle
situazioni fanno sì che il lettore resti
incantato, che si preoccupi per le involuzioni
emotive dei protagonisti, che
attenda con trepidazione l’esito degli
eventi», continua Riondino.
Accade
che l’autore stesso si identifichi nelle
sue creature – è celebre la frase di Flaubert secondo
cui «Madame Bovary c’est moi», Madame
Bovary sono io – e quindi «ogni lettore
può riconoscersi in esse».
Il capolavoro di Flaubert – materia troppo
ghiotta per non ingolosire il cinema, che infatti
ne ha tratto diverse versioni, con protagoniste
fra le altre Jennifer Jones (1949), Isabelle Huppert
(1991), mentre l’anno prossimo sarà Mia
Wasikowska a vestirne i panni – «racconta comela
protagonista venga conquistata da un sogno
che la allontani da una vita quotidiana percepita
come insostenibile e non soddisfacente.
È affascinata dall’altrove, da una felicità “esotica”,
dal desiderio di altri mondi. Chi non prova
desideri, profondi ma misconosciuti? Chi
non avverte, a volte, l’estraneità di chi gli
sta vicino?
Il bisogno di assoluto, la ricerca di
pienezza sentimentale, il diritto alla bellezza
sono insopprimibili, e il pubblico in tutto ciò
scopre sé stesso», conclude Riondino.
E proprio questi aneliti a una grandezza e
realizzazione spirituale sono i temi che il lettore
ritroverà nei Tre racconti allegati alla rivista in edicola e in parrocchia da giovedì 16 agosto.
I tre racconti di Gustave Flaubert, in edicola e in parrocchia da giovedì 16 agosto
Racconta e vinci il grande cinema di Chaplin
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«Nel racconto Un cuore semplice Flaubert descrive una domestica estremamente umile e buona al servizio di una donna difficile. Secondo voi, la semplicità è una virtù?»
Per ognuno dei 13 volumi della collana BUC - I narratori, "sfidiamo" i lettori a inviarci un loro racconto sul tema del libro della settimana.
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Pubblicato il 14 agosto 2012 - Commenti (2)
09 ago
Arnoldo Foà, il “grande vecchio” (è nato a Ferrara il 24 gennaio 1916) del nostro teatro.
Di fronte alla poesia, da sempre vengo
colpito non tanto dalle tecniche
dell’autore, ma dai concetti che
esprime, e dall’atmosfera che riesce
a creare, il contesto in cui si muove la
sua fantasia.
Nonostante io sia noto anche
per le letture pubbliche, sono convinto che
la poesia sia un fatto assolutamente intimo,
e andrebbe letta privatamente, perché
la lettura della poesia è un tale misto di tecnica
e di spiritualità che richiede il silenzio
assoluto per ascoltare gli intimi echi che suscita
in noi.
La poesia per me è pensiero e armonia, ma
nel corso della lettura non è semplice evidenziare
l’uno e l’altra senza propendere per
uno dei due elementi a scapito dell’altro.
Kahlil Gibran
Khalil Gibran mi ha colpito proprio per la
sua costante ricerca di una comunione di
questi due elementi, sia dal punto di vista puramente
estetico che per i contenuti.
Rileggendo
in questi giorni i suoi versi, ho riscoperto
quanto me lo aveva fatto apprezzare a
suo tempo, quando l’ho letto pubblicamente
e poi registrato per l’editore Lettera “A”: la
sua idea di amore universale, anche per
quanto non conosciamo.
Io ho sempre pensato che solo l’amore
possa dare un senso alla nostra vita; per chi
crede, l’amore ha anche un valore religioso,
ma l’amore spirituale è qualcosa che può toccare
l’animo di ognuno, senza differenze di
cultura o di religione, e questo sentimento
mi sembra di aver percepito proprio nella
poesia di Gibran.
Gibran parla di amore come di un percorso
intimo verso qualcosa di inspiegabile, che
è parte dell’universo, e di una dimensione
più spirituale e più vera. L’amore arriva a
chiunque, ci dice Gibran, ma molti non lo capiscono,
o lo allontanano perché non sono
pronti o sono distratti dalla ricerca di un sentimento
più superficiale.
Per il poeta, l’amore vero è il viaggio di
ognuno verso la conoscenza e la verità, in
armonia con quanto è intorno a noi. E di
amore vero c’è necessità, in questi tempi travagliati!
«...I vostri figli non sono i vostri figli. / Sono
i figli e le figlie della fame che in sé stessa
ha la vita. / Essi non vengono da voi, ma attraverso
di voi, / E non vi appartengono benché
viviate insieme...».
"Ali spezzate" di Kahlil Gibran. Questa settimana in edicola con Famiglia Cristiana.
Racconta e vinci il grande cinema di Chaplin
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«Gibran mette in scena un lacerante "amore impossibile". Conoscete qualcuno a cui è stato impedito di vivere i propri sentimenti?»
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Pubblicato il 09 agosto 2012 - Commenti (1)
01 ago
Giuseppe Lupo
Milano, 1630: durante l’epidemia di
peste che infesta la città due uomini
vengono ingiustamente accusati
di essere untori, propagatori del
contagio; vengono arrestati, atrocemente torturati
fino alla confessione e condannati a
morte. Alessandro Manzoni rimase colpito
da questa vicenda giudiziaria: durante il lungo
lavoro su I promessi sposi, prese in mano
il caso, ne studiò a fondo tutti i documenti, fino
a scriverne un libro, una ricostruzione in
forma di asciutta cronaca giudiziaria dal titolo
Storia della colonna infame.
«Con questo libro, che è molto particolare,
si può dire che sia cominciato il genere
dell’inchiesta giudiziaria. Anche Leonardo
Sciascia scrisse un saggio sulla Storia della colonna
infame e si avvicinò a Manzoni: per lo
scrittore siciliano era fondamentale il rapporto
tra letteratura e giustizia». A commentare
l’opera manzoniana è Giuseppe Lupo, docente
di Letteratura italiana contemporanea
all’Università Cattolica di Milano e Brescia,
saggista e scrittore: il suo ultimo romanzo,
L’ultima sposa di Palmira, del 2011, è stato finalista
al Premio Campiello.
Alessandro Manzoni
– In che senso la Storia della colonna infame
è un libro particolare?
«Contiene tutto il travaglio dello scrittore:
dopo I promessi sposi Manzoni mette in crisi
la formula del romanzo come componimento
misto di storia e invenzione. Lo
scrittore è roso dal tarlo dell’insoddisfazione:
del resto, avere ripensato
la sua opera più grandiosa,
I promessi sposi, per
vent’anni, è segno di sfiducia e
insoddisfazione. A un certo
punto, Manzoni abbandona
l’invenzione per privilegiare
la verità storica. La Storia della
colonna infame segna il fallimento
del romanzo storico.
È un atto di fiducia estrema
dello scrittore alla verità
del documento».
– Alla base di questo libro c’è un
profondo problema etico e cristiano...
«Tutte le opere manzoniane sono guidate
da un problema etico, il modo in cui l’uomo
si pone di fronte alla storia. Nella Storia della
colonna infame Manzoni critica l’obbedienza
alla superstizione, che durante la pestilenza
crea la paura degli untori, ma soprattutto
rivolge un atto di accusa verso chi detiene
il potere, i magistrati, che pur avendo gli
elementi per affermare la verità finiscono
per assecondare l’ignoranza
collettiva. Manzoni si pone il
problema, fortemente cristiano,
della coscienza individuale,
della responsabilità personale
che ognuno assume di
fronte alla storia e alle scelte».
– Pensa che sia un’opera ingiustamente
trascurata?
«Sì, è un libro poco letto, ma
molto interessante, perché pone
problemi molto attuali. Per esempio,
il rapporto tra i singoli cittadini
e il grande ordigno dello Stato che si scatena
contro di loro. Negli anni Sessanta si è sviluppata
una filmologia che denunciava proprio
le vessazioni della macchina dello Stato
sul cittadino. A scuola, purtroppo, Manzoni
si studia in modo tale che gli studenti finiscono
per odiarlo. Poi, magari, viene riscoperto
e apprezzato anni dopo, come ho fatto io».
– All’inizio del 2013 uscirà il suo nuovo romanzo.
Ci anticipa qualcosa?
«Lo avevo in mente da quindici anni. È un
romanzo di guerre, viaggi e amori ambientato
nel Quattrocento: un periodo storico non
facile per me che sono abituato a scrivere sul
Novecento. Ma un autore deve cimentarsi
con nuove sfide. È una storia che passa per
Venezia, Mantova, Milano, la Francia, e che,
come tutti i miei romanzi, parte da verità storiche
per arrivare all’invenzione. Mi piace
pensare alla letteratura come visita di luoghi
immaginari. La chiave di lettura dei miei libri
è il sogno della storia. E la letteratura è il
luogo dove la storia si può sognare».
"Storia della colonna infame" di Alessandro Manzoni. Questa settimana in edicola con Famiglia Cristiana.
Racconta e vinci il grande cinema di Chaplin
Utilizzando lo spazio commenti e senza superare le 1000 battute, rispondi a questa domanda:
«Manzoni racconta un caso di colossale ingiustizia. Vi è mai capitato di provarla sulla vostra pelle?»
Per ognuno dei 13 volumi della collana BUC - I narratori, "sfidiamo" i lettori a inviarci un loro racconto sul tema del libro della settimana.
La redazione di Famiglia Cristiana ogni settimana sceglierà il racconto migliore, che verrà premiato con un cofanetto di 13 Dvd con i grandi capolavori di Charlie Chaplin.
Pubblicato il 01 agosto 2012 - Commenti (2)
26 lug
Il regista Mario Martone, dopo aver portato le "Operette Morali" a teatro, ora girerà un film sulla vita del poeta di Recanati.
In seguito a uno di quegli incontri spirituali,
misteriosi e fecondi, che avvengono fra un artista
e un personaggio, da un po’ di tempo il
regista Mario Martone sta indagando la figura
di Giacomo Leopardi. «Mi ero già interessato
a lui, nel 2004, con L’opera segreta. E da qualche
anno ero intrigato dalle Operette morali.
Quando il Teatro stabile di Torino mi ha chiesto
una programmazione per i 150 anni
dell’Unità d’Italia, ho avuto l’intuizione che
quel testo non avesse solo una dimensione filosofica,
ma che racchiudesse anche un segreto
drammaturgico. Il teatro fu importante nell’infanzia
di Leopardi: da bambino metteva in scena
con la sorella Paolina testi di sua invenzione.
Era un gioco catartico, che lo liberava da sé.
Nelle Operette c’è traccia di quel bambino,
di quella voglia di giocare, con un’attenzione
a temi alti che non esclude la disponibilità
al sorriso. C’è una voglia di travestimento
straordinaria, un pensiero mai schematico, in
forza del quale si proietta in diverse figure, da
Giove a Tasso al venditore di almanacchi».
Spesso sfugge una sensazionale coincidenza
cronologica: le prime edizioni delle Operette
morali e dei Promessi sposi del Manzoni furono
pubblicate nello stesso anno, il 1827.
«Mentre il grande romanzo del milanese aveva
una forma riconoscibile e assurse a testo nazionale,
l’opera dell’autore di Recanati fu percepita
come “laica” ed ebbe una sorte ben diversa,
anche perché la mescolanza di dialoghi
e prosa lo rendevano meno “comprensibile”»,
osserva Martone. «Ancora oggi lo conosciamo
solo nelle sintesi scolastiche, ma non si è ancora
imposta l’idea di assumerlo come un libro
intero, una grandiosa cosmogonia alla stregua
delle Mille e una notte o del Decamerone».
Un ritratto del Leopardi.
Come tutti i classici, anche le Operette morali
hanno molto da dire a noi contemporanei. «Diversi
elementi colpiscono la nostra immaginazione
», osserva il regista. «Pensiamo a quanto è
centrale, oggi, il rapporto fra l’uomo e la natura;
oppure all’idea che la società sia dominata
dall’ipocrisia... Sono questioni diventate manifeste
ai nostri occhi e che Leopardi anticipò, deluso
dagli sviluppi politici. Mazzini non lo
amava, proprio a causa di questa sfiducia,
ma guardando la storia a posteriori ci si rende
conto di quanto vedesse lungo... Aveva
capito che l’organizzazione della società non
tendeva all’afflato fra gli uomini, a quell’umana
compagnia identificata come unico senso
del vivere. Una visione lucida e disincantata».
A voler leggere con mente aperta le Operette
morali, si ha la sensazione di essere al cospetto
di un laboratorio da cui attinsero
Nietzsche, Schopenhauer, Brecht, Pirandello...
Leopardi è un profeta? «È in costante dialogo
con il passato e il futuro. È innegabile
che la sua denuncia e il suo sguardo rivelino
tratti profetici, ma possibili solo grazie a una
conoscenza profonda degli antichi: sono essi
a metterlo nella condizione di attraversare il
tempo con una visione ampia».
La trasposizione teatrale dell’opera leopardiana,
vincitrice del Premio Ubu per la regia
e del Premio La Ginestra, non ha esaurito
l’interesse di Martone, al lavoro su un film
dedicato al poeta. «Ho la sensazione che il
cantiere sull’Ottocento che si è improvvisamente
aperto nella mia vita, dal quale sono
germogliati Noi credevamo, la rivisitazione di
capolavori di Verdi e Rossini e la versione teatrale
delle Operette, darà un ulteriore frutto.
Il film uscirà l’anno prossimo». Dovrebbe
trattarsi del racconto della vita del grande
poeta, mentre non è ancora stato deciso l’attore
che lo interpreterà. Di sicuro, ci permetterà
di conoscere meglio questo padre intellettuale
del nostro Paese.
La copertina delle "Operette Morali" di Giacomo Leopardi, da oggi in edicola con "Famiglia Cristiana".
Racconta e vinci il grande cinema di Chaplin
Utilizzando lo spazio commenti e senza superare le 1000 battute, rispondi a questa domanda:
"Secondo voi le illusioni aiutano a vivere o sono dannose?"
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La redazione di Famiglia Cristiana ogni settimana sceglierà il racconto migliore, che verrà premiato con un cofanetto di 13 Dvd con i grandi capolavori di Charlie Chaplin.
Pubblicato il 26 luglio 2012 - Commenti (2)
19 lug
Dacia Maraini, scrittrice, saggista e autrice per il teatro.
«Come non leggere tutte le opere
di Lev Tolstoj? È una pietra
miliare della letteratura mondiale
». A parlare del grande
scrittore russo (1828-1910), autore di capolavori
come Guerra e pace e Anna Karenina, è
Dacia Maraini, scrittrice prolifica, romanziera,
autrice di saggi, poesie, testi per il teatro e
sceneggiature, rientrata di recente da uno
dei suoi innumerevoli viaggi per il mondo.
Destinazione Colombia: «Un Paese di enormi
contraddizioni», osserva la scrittrice, «ricchissimo
e insieme miserabile, ma dove si coltiva
uno straordinario interesse per la letteratura,
la poesia, il teatro». La Maraini ora sta lavorando
alla stesura di una raccolta di racconti,
che uscirà a settembre. Filo conduttore:
la violenza sulle donne.
– Alcuni anni fa lei ha scritto un testo per il
teatro intitolato Casa Tolstoj. Può raccontarne
la genesi?
«Casa Tolstoj è un testo nato dalla lettura
dei diari personali di Sofia Bers, la giovanissima
moglie che Tolstoj sposò nel 1862 quando
lei aveva appena 18 anni, mentre lui era molto
più anziano. Si sposarono dopo una settimana
di fidanzamento, ma già si conoscevano
da tempo. Sofia era una ragazza piena di
vita e di entusiasmo, ma nel suo diario lei stessa
confessa che, all’epoca delle nozze, non sapeva
niente dell’amore e del matrimonio.
Una volta sposata, secondo l’usanza del tempo,
fu obbligata ad avere una gravidanza dietro
l’altra (in tutto 13). A quel tempo le ragazze
non venivano educate al matrimonio, che
era vissuto come un’esperienza durissima.
Spesso i bambini morivano appena nati, anche
tra le famiglie benestanti. E molto spesso
pure le madri morivano in gravidanza».
– E Tolstoj come visse il matrimonio?
«Fu un pensatore molto aperto, moderno
per la sua epoca. In questo senso ritengo molto
importante il romanzo breve La sonata a
Kreutzer: in quell’opera lo scrittore esprime
la sua visione della famiglia e del matrimonio,
il suo rapporto con l’universo femminile.
È una denuncia sociale dell’istituzione del
matrimonio come era visto a quel tempo e
una condanna del mercimonio. Lo reputo un
romanzo molto attuale: oggi parliamo di
mercimonio della donna in forma differente,
ma sempre mercimonio».
Lo scrittore russo Lev Tolstoj durante gli anni della vecchiaia.
– Quanto ha influito su di lei la lettura dello
scrittore russo?
«Tolstoj è stato un grande maestro: oltre che
uno scrittore, era un pensatore, uno che aveva
le sue idee ben definite. Allora questa definizione
non esisteva, ma oggi lo chiameremmo
scrittore impegnato. Guerra e pace rappresenta
uno dei più grandi capolavori di sempre, il
suo romanzo più complesso e completo, che
offre una visione a tutto tondo del mondo».
– E Confessione?
«Confessione rappresenta l’opera della sua
conversione: il cristianesimo di Tolstoj era
giansenista, creaturale, molto legato all’imitazione
di Cristo. Mi piace la sua visione cristiana,
perché rifuggiva dalle istituzioni, era
molto idealista, fondata sul senso della fratellanza,
sull’insegnamento di Cristo vissuto alla
lettera».
– A chi si accosta per la prima volta alla lettura
di Tolstoj con quali opere consiglierebbe
di cominciare?
«Con i racconti, che offrono già una panoramica
sul pensiero dello scrittore. Solo in seguito
consiglierei di affrontare le opere monumentali,
come Guerra e pace».
– Tolstoj è ricordato anche per il suo pacifismo
e il suo pensiero non-violento.
«Sì, anche in questo senso è un pensatore
molto attuale. Rappresenta un esempio per il
nostro tempo, perché pensava in termini di
pace autentica. Per il suo tempo era un innovatore.
Ma le sue idee ci ricordano che, in
ogni epoca, è fondamentale porsi degli obiettivi
elevati, anche se in questo modo si rischia
il fallimento. Bisogna coltivare l’ottimismo
e puntare sempre in alto».
la copertina del volume della Buc che comprende Confessione e La morte di Ivan Il’ic.
Racconta e vinci il grande cinema di Chaplin
Utilizzando lo spazio commenti e senza superare le 1000 battute, rispondi a questa domanda:
Ti capita mai di pensare alla fine della vita? In quali circostanze?
Per ognuno dei 13 volumi della collana BUC - I narratori, "sfidiamo" i lettori a inviarci un loro racconto sul tema del libro della settimana.
La redazione di Famiglia Cristiana ogni settimana sceglierà il racconto migliore, che verrà premiato con un cofanetto di 13 Dvd con i grandi capolavori di Charlie Chaplin.
Pubblicato il 19 luglio 2012 - Commenti (0)
12 lug
Franco Cardini, esperto di Medioevo.
«Non so che cosa mi aspetterà, dopo che il boia mi avrà giustiziato. Ma so per certo che benedirò, da quel momento, la fortuna di essere nato». Con queste parole messe in bocca al protagonista, Italo Alighieri Chiusano conclude l'autobiografia romanzata del sedicenne Corradino di Svevia, re di Napoli, Sicilia e Gerusalemme, venuto in Italia a sfidare il francese Carlo d'Angiò, appoggiato dal Papa. Konradin è il prossimo volume proposto con Famiglia Cristiana per la serie della Biblioteca universale cristiana. Ne parliamo con Franco Cardini, fra i massimi esperti del Medioevo.
– Cardini, come va letta questa vicenda?
«Chiusano non pretende di scrivere un romanzo storicamente attendibile: la vicenda di Corradino è per lui l'occasione di riflettere sull'immagine romantica di un personaggio che ha affascinato la cultura romantica tedesca e italiana. La figura di Corradino riassume alcuni grandi archetipi: la sacralità dell'investitura regale, la purezza degli ideali della giovinezza, il sacrificio eroicamente vissuto. Corradino affronta con coraggio e onestà un'avventura più grande di lui: la perfidia di chi lo ha ingannato, tradito e giustiziato gli costa la vita».
– Quale era la sensibilità religiosa di suo nonno, il grande Federico II e cosa ha rappresentato per l'Italia il suo regno?
«Federico II dovette affrontare forti contrasti con alcuni Pontefici, ma ciò non significa che fosse eretico o ateo. Quanto all'Italia, della quale come imperatore Federico era re, egli cercò inutilmente di piegare i Comuni centrosettentrionali alla sua volontà. In Germania, invece, seppe assecondare saggiamente le iniziative che, nella fedeltà alla corona, tendevano all'autonomia e prefiguravano il futuro federalismo tedesco. In Sicilia instaurò un governo autoritario e centralista, sulla base del precedente modello normanno, affidò le finanze e le risorse dell'isola ai mercanti e agli imprenditori del continente, specie genovesi e pisani, imponendo un'economia di dominio che diventò una delle cause del mancato sviluppo del meridione d'Italia».
– La lotta tra la dinastia angioina e sveva per il dominio dell'Italia ci riporta ai tempi delle lotte tra guelfi e i ghibellini, due anime che, forse, coesistono ancora oggi nella coscienza nazionale...
«Le lotte cittadine e familiari che derivano dalle vicende storiche passate non sono un fenomeno esclusivo della penisola italica. Solo dopo la Rivoluzione francese le rivalità e le inimicizie in Italia assumono una nuova veste ideologico- politica. Non dobbiamo leggere il Risorgimento e il periodo successivo alle due grandi guerre mondiali alla luce della contrapposizione tra neoguelfi e neoghibellini, né attribuire ai guelfi una natura clericale e ai ghibellini un'anima anticlericale».
– Konradin si collega alla serie di romanzi ambientati in epoca medievale: perché ci affascina questo periodo?
«Il Medioevo ci attrae per la sua natura indistinta, nella quale trova posto tutto e il contrario di tutto: fede ed empietà, religione e magia, amore per la scienza e la filosofia e culto del mistero, afflati di pace e impulsi violenti. Dal Quattrocento in poi si è guardato al Medioevo come a un periodo confuso e retrogrado, mentre a partire dall'Ottocento è stato rivalutato come un'epoca di libertà, fantasia e sentimento».
– Cosa si può dire sulla figura della madre di Corradino, Elisabetta di Wittelsbach, a cui il figlio si rivolge nella lunga lettera con cui inizia il romanzo.
«Non sappiamo molto di lei se non che era una principessa colta e pia. Appartenendo alla dinastia dei duchi di Baviera, tradizionalmente avversari dei duchi di Svevia, cui apparteneva invece il marito. Era ben conscia dello scontro dinastico che, dalla prima metà del XII secolo, dilaniava l'Impero romano-germanico. Anche Federico I Barbarossa, del resto, era figlio di un duca svevo e di una duchessa bavara».
Racconta e vinci il grande cinema di Chaplin
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C'è un'occasione in cui avreste voluto essere più coraggiosi e leali di quanto siate effettivamente stati?
Per ognuno dei 13 volumi della collana BUC - I narratori, "sfidiamo" i lettori a inviarci un loro racconto sul tema del libro della settimana.
La redazione di Famiglia Cristiana ogni settimana sceglierà il racconto migliore, che verrà premiato con un cofanetto di 13 Dvd con i grandi capolavori di Charlie Chaplin.
Pubblicato il 12 luglio 2012 - Commenti (2)
05 lug
Un'immagine della scrittrice sarda Grazia Deledda.
«Grazia Deledda è diventata immortale partendo da un piccolo mondo antico. E lascia intorno a sé una scia di impietosa invidia». Salvatore Niffoi i libri di Grazia Deledda li ha tutti in casa, in diverse edizioni, li ha letti, amati, compresi, interiorizzati. Lui che, con i suoi romanzi, ha sempre cercato di penetrare nelle viscere della sua Barbagia, restituendola al lettore in forma di colori e odori, sapori, emozioni. Proprio come faceva la scrittrice nuorese, premio Nobel per la letteratura nel 1926.
«I libri della Deledda sono dei dipinti», spiega Niffoi, «le parti descrittive rappresentano la metà della narrazione. I romanzi deleddiani si annusano, si guardano, si gustano, si percepiscono con tutti i sensi». Nata nel 1871, la Deledda fu autrice prolifica di romanzi, novelle, racconti per le riviste. In seguito si trasferì a Roma (dove morì nel 1936), ma portando sempre con sé la Sardegna con i suoi riti, i suoi paesaggi, la sua storia. «La cosa bella di questa scrittrice», continua Niffoi, «è che, come del resto molti autori sardi, sentiva la scrittura. Non scriveva per avere la visibilità e basta, ma perché aveva qualcosa da dire. Lei aveva un mondo da raccontare. E le accuse di esotismo che spesso le sono state rivolte – così come le hanno rivolte a me – provengono da persone che la Sardegna l'hanno vista solo in cartolina».
Lo scrittore Salvatore Niffoi nel suo paese, Orani, in Barbagia.
«Quel mondo antico», continua lo scrittore, «esiste ancora nella sua bellezza, nella sua arcaica crudeltà, un mondo dove l'elogio della lentezza è regolato dalle leggi del tempo e delle stagioni. Quel mondo ai tempi della Deledda aveva qualcosa di animalescamente magico, era intriso del senso dell'onore, del pudore e della vergogna: le persone allora coltivavano il senso dell'ineluttabilità del male fin da piccole, perché esisteva un contatto diretto con la morte attraverso la terra». Oggi, spiega Niffoi, tanti parlano della Deledda senza averla capita. «Tanti dicono che la sua lingua è obsoleta: non è vero, è modernissima, le sue parole hanno una grammatica musicale introvabile in altri autori».
Grazia Deledda è stata sempre accostata ai veristi, a Giovanni Verga e Luigi Capuana, che apprezzarono molto la sua capacità narrativa. «Eppure, più che al verismo io la accosto a Tolstoj», commenta Niffoi. «Cenere ricorda molto il romanzo Resurrezione, nella trama, nel senso terribile dell'ineluttabilità del male e della colpa. I personaggi deleddiani, in realtà, non sono dei vinti: sono "malfatati", colpiti da un destino avverso. La Deledda è sempre contemporanea: quando racconti le passioni, la cornice cambia, ma la realtà rimane sempre la stessa, attualissima». Ed era una piccola grande donna: «Era minuta, non bella, ma in confronto alle tante "veline" di oggi era un gigante. Non inseguiva le mode, era una grande imprenditrice di sé stessa. A un certo punto, se ne andò a Roma perché aveva bisogno di ossigeno, di libertà, era una donna forte, insofferente, che non sopportava le catene. Ma dalla Sardegna lei, in realtà, non è mai andata via: noi sardi, per capire il senso di saudade, nostalgia feroce per la nostra terra, abbiamo bisogno di staccarcene, di attraversare il mare».
La scrittrice di Nuoro aveva capito tutto della sua terra, anche il senso di ingratitudine e di irriconoscenza: «Molti in Sardegna e a Nuoro oggi parlano di lei con fastidio, perché non era una che le mandava a dire, scriveva quello che vedeva, e a volte per scrivere usava il bisturi. Sapeva scavare nella profondità dell'anima degli esseri umani, e poi prendeva i personaggi e li metteva sulla pagina, spesso con violenza, ma sempre con un forte senso del dolore e dell'amore, visti come inseparabili perché, in fondo, l'unica cosa certa di questa vita è la morte. E la Deledda, cristianamente, lo aveva capito».
Racconta e vinci il grande cinema di Chaplin
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Olì, la protagonista del romanzo Deledda, compie un gesto estremo per "salvare" il figlio. Voi cosa sareste disposti a fare per amore dei vostri figli?
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Pubblicato il 05 luglio 2012 - Commenti (0)
27 giu
Monica Guerritore, volto noto del cinema, del teatro e della televisione. (foto Corbis)
Forse oggi Monica Guerritore non sarebbe stata un'attrice se Čechov non fosse entrato per caso nella sua vita. A 16 anni accompagnò un'amica per un provino al Piccolo di Milano. Giorgio Strehler preparava una nuova edizione del Giardino dei ciliegi e cercava una giovane interprete per il ruolo di Ania. Si presentarono in mille, ma il grande regista notò lei. La prese per mano e le disse: «Tu resti con noi». «Non sapevo nulla di teatro, né tantomeno dell'opera di Čechov. D'improvviso, un intero mondo si aprì di fronte a me», ricorda oggi l'attrice. Da allora si è trasformata in un'appassionata divulgatrice delle opere del grande scrittore russo – di cui Famiglia Cristiana allega al numero di questa settimana Il vescovo e altre novelle per la Biblioteca universale cristiana sui narratori – tanto in teatro quanto nelle scuole e nelle università, dove periodicamente organizza incontri e seminari.
- Che cosa affascina di più i giovani dell'opera di Čechov?
«Il realismo dei personaggi, l'affettuosa descrizione delle loro fragilità. Non sono mai portatori di una verità assoluta, ma solo della loro piccola, personale visione del mondo, e questo li rende vicini all'ansia di ricerca tipica della gioventù».
- C'è un sentimento prevalente nella sua narrativa?
«La malinconia del tempo perduto è l'onda emotiva su cui viaggia Čechov, un tema che però lui declina sempre attraverso molteplici prospettive, che corrispondono ai suoi personaggi».
"Il vescovo e altre novelle", volume allegato questa settimana a "Famiglia Cristiana".
- Tuttavia questa
malinconia nelle sue opere spesso si fonde con l'umorismo. Lei come lo
definirebbe?
«In un senso molto diverso da come lo intendiamo oggi. Non
ha nulla a che fare con la comicità. È piuttosto uno sguardo tenero sui piccoli
inciampi che rendono i suoi personaggi così ricchi di umanità. Personaggi che
non suscitano in noi il riso, ma al massimo un sorriso colmo di dolcezza.
Perché, a differenza di Dostoevskij che permea di tragedia i suoi romanzi, Čechov
mantiene uno sguardo delicato sui piccoli esseri umani che si trovano a vivere
in mondo così sconfinato e in subbuglio come era la Russia del suo tempo».
– Tolstoj rimproverava a Čechov di non infondere nella
scrittura la sua stessa tensione etica. Di lui scrisse: «È pieno di talento e
ha senza dubbio un cuore buonissimo, ma al momento non sembra possedere un
punto di vista ben definito sulla vita». È d'accordo?
«A dire il vero, non molto. In Čechov era fortissima la
convinzione che il futuro sarebbe stato migliore. Lo studente del Giardino dei
ciliegi dice che la conoscenza ci permetterà di alleviare le nostre sofferenze.
Credo che si tratti più che altro di una differenza di prospettiva: Tolstoj
predilige i grandi affreschi come Guerra e pace o Anna Karenina, mentre Čechov
si concentra su piccoli uomini solo in apparenza insignificanti. Ma la tensione
etica è fortissima, specie nei racconti. Me ne ricordo uno in cui un uomo si
uccide per la vergogna di essersi presentato a teatro senza cappello. È una
scena che avrebbe potuto benissimo far parte di un film neorealista di Vittorio
De Sica come Ladri di biciclette o Umberto D. per la precisione con cui
descrive un periodo storico, quello delle tensioni in Russia che sarebbero poi
sfociate nella Rivoluzione del 1917. Nelle pagine di Čechov si avverte
fortissima l'agonia di un mondo che sarà presto sostituito da un altro».
– Il fatto che abbia alternato la scrittura alla professione
di medico quanto ha influito sulla sua poetica?
«Tantissimo. Solo chi ha toccato con mano le tempeste
emotive che traspaiono da personaggi apparentemente anonimi può raccontarle con
la credibilità e la delicatezza che innervano tutta l'opera di Čechov».
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Anche a voi è capitato, come ai protagonisti dei racconti di Cechov, di provare un sentimento di incomunicabilità nei confronti di una persona che vi sta a cuore?
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Pubblicato il 27 giugno 2012 - Commenti (2)
20 giu
«La sua casa milanese di via Donizetti era sempre aperta per me». Il cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio consiglio per la cultura, racconta la sua amicizia con lo scrittore Luigi Santucci, «Lillo, come lo chiamavamo affettuosamente», di cui Famiglia Cristiana proporrà la settimana prossima Il ballo della sposa per la Buc - I narratori.
Un'amicizia nata dall'ammirazione: «Ero ancora studente di teologia, e a Roma, passando un giorno da una libreria, avevo acquistato uno dei suoi primi romanzi (anzi, quello che lo avrebbe svelato al grande pubblico), Il velocifero. Da quella lettura era nato il desiderio – considerato allora impossibile – di conoscere l'autore. In seguito, nel 1967, sacerdote da un anno avevo scoperto quello che considero il suo capolavoro, Orfeo in paradiso. E avevo accanto ancora mia madre, quando – ormai insegnante nei seminari milanesi – durante le vacanze natalizie del 1971, avevo seguito la trascrizione televisiva di quel romanzo, un emozionante sceneggiato di Leonardo Castellani». Poi l'ammirazione si trasformò in contatto e in amicizia. «Fu la moglie amatissima di Lillo, Bice, la sua "Beatrice", donna straordinaria, ad accorciare le distanze. In casa loro ero accolto come un fratello o un figlio da una famiglia unita e numerosa, pronta a festeggiare ogni comune ricorrenza, spesso unendo a essa anche la mia famiglia». Una frequentazione che divenne più intensa dal 1990, «quando Lillo riuscì a trovare per mio padre e le mie due sorelle una casa estiva accanto alla sua a Guello di Bellagio. Lassù, davanti a un panorama mozzafiato, dinnanzi al lago manzoniano per eccellenza, quello di Lecco- Como, e all'incombere frontale delle due Grigne, ogni giorno ad agosto, Santucci – salendo una piccola erta e superando un varco nella siepe divisoria dei due giardini – si presentava cercando di "sorprendermi" mentre ero intento nella lettura o nella scrittura».
Santucci, conclude il cardinale, «era un uomo festoso, attaccato alla vita, capace di giocare a tennis fino a pochi mesi prima della malattia che lo portò alla morte il 23 maggio 1999, pronto alle battute folgoranti, a ospitare amici, a comporre per loro dediche e stornelli, a lasciarli incantati con le sue straordinarie "recite" o certe stupende letture dantesche ». Riprendere in mano i suoi libri ha anche il senso di ripercorrere, attraverso la scrittura, la fede di un uomo: «Ha sempre cantato la gioia semplice e umile, deposta come un seme microscopico nel terreno della vita. Ha fatto intravedere, con i suoi scritti, il paradiso che altro non è che la felicità "capillare", cioè quella che si cela, come diceva Santucci, "entro il battere di ogni nostra ora"».
La copertina de "Il ballo della sposa" di Luigi Santucci, disponibile in edicola e in parrocchia a partire da giovedì 21 giugno.
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Ti è mai capitato di cambiare idea su una persona?
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Pubblicato il 20 giugno 2012 - Commenti (0)
12 giu
Giulio Scarpati
L’attore Giulio Scarpati, deve la sua
straordinaria popolarità soprattutto
alla serie Tv Un medico in famiglia, dove
interpreta il ruolo del dottor Lele
Martini accanto a Lino Banfi (nonno Libero).
E della fortunata fiction, che ha esordito nel
1998, sta girando ora a Roma l’ottava serie.
Ma Scarpati si è spesso dedicato al teatro, spaziando
da Goldoni a Šechov a Koltès. Nella
prossima stagione verrà diretto da Alessandro
Gassman in L’oscura immensità della
morte di Massimo Carlotto, insieme a Claudio
Casadio.
Scarpati, interprete nella stagione teatrale
1999-2000 de L’idiota di Fëdor Dostoevskij,
insieme a Mascia Musy, con la regia di Gigi
Dall’Aglio, parla del suo rapporto con Dostoevskij
di cui Famiglia Cristiana allega al numero da domani in edicola e in parrocchia Le notti bianche,
nella collana Biblioteca universale cristiana /
I narratori.
«Quando ho scelto di interpretare proprio
Dostoevskij», ricorda l’attore romano, sposato
con la regista di teatro Nora Venturini, e
padre di due figli, Edoardo di 24 anni e Lucia
di 17, «ero appena diventato famoso come
protagonista della prima serie di Un medico
in famiglia e molte persone, mai state
prima a teatro, sono venute a vedermi incuriosite
dalla mia popolarità: ne sono stato
contento perché ho avvicinato un vasto pubblico all’autore russo che, al di là delle conoscenze
scolastiche e universitarie, per me è
sempre stato affascinante e coinvolgente
emotivamente».
Scarpati ammira il principe Myškin de
L’idiota, per la sua spontaneità perché parla
sinceramente con ingenuità e a fin di bene.
Dopo essere stato in Svizzera, per curarsi
dall’epilessia (malattia di cui soffriva anche
Dostoevskij), ritorna in Russia, ma si scontra
con persone ipocrite che vivono ancora condizionate
dalle regole della società feudale.
«Myškin», commenta l’attore, «coinvolge i
lettori, poiché a chiunque, per amore di verità,
piacerebbe dire ciò che pensa: è un uomo
buono, ma la sua bontà inconsapevolmente
provoca danni e reazioni contrastanti, come
quando si offre d’istinto di sposare Nastas’ja,
una donna disonorata che, pur amandolo,
rinuncia a lui per non rovinare la sua
reputazione, andando incontro a una tragica
fine.
Efficace appare la tirata politica del
principe contro la pena di morte, a cui lo
stesso Dostoevskij era stato condannato
per attività sovversiva e poi graziato dallo
zar Nicola I. L’approssimarsi della morte suscita
nel condannato una forte reazione emotiva
perché ogni minuto che resta da vivere
diventa prezioso e fa capire quanto tempo si
è sprecato inutilmente. Bisognerebbe infatti
poter attribuire valore a ogni momento della
vita come se fosse l’ultimo».
Racconta e vinci il grande cinema di Chaplin
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Per ognuno dei 13 volumi della collana BUC - I narratori, "sfidiamo" i lettori a inviarci un loro racconto sul tema del libro della settimana.
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Pubblicato il 12 giugno 2012 - Commenti (0)
30 mag
Gianrico Carofiglio, magistrato e scrittore, grande ammiratore di Chesterton (foto Blackarchives)
Gianrico Carofiglio conosce bene le indagini,
sia fatte sia scritte. Magistrato
e scrittore, ha esordito nella narrativa
con il legal thriller Testimone inconsapevole,
nel quale ha creato il fortunato personaggio
dell’avvocato Guido Guerrieri. A dieci anni
da quell’esordio – Carofiglio ha pubblicato
numerosi altri romanzi e saggi – è nella cinquina
di candidati al Premio Strega 2012 con
Il silenzio dell’onda (Rizzoli) ed è stato tradotto
in ventiquattro lingue. Oltre ad aver venduto
milioni di copie.
Qualcosa accomuna lo scrittore barese
all’inglese Gilbert Keith Chesterton, l’autore
de I migliori racconti di padre Brown con il
quale, assieme al prossimo numero del giornale,
Famiglia Cristiana promuove la nuova
serie della Biblioteca universale cristiana dedicata
ai narratori. Chesterton, che era nato a
Londra nel 1874, fu scrittore di grande successo
con vari romanzi, ma la sua notorietà rimane
legata soprattutto al personaggio di padre
Brown, prete cattolico e investigatore
umanissimo protagonista di cinque raccolte
di racconti pubblicate tra il 1911 e il 1935. Gli
venne riconosciuto il merito di aver creato
una nuova declinazione del romanzo poliziesco,
diverso ma non meno appassionante della
serie di Sherlock Holmes.
Carofiglio entra regolarmente nelle classifiche
dei libri più venduti anche con i suoi
saggi, eppure per molti è in prima battuta il
creatore del legal thriller in Italia. Li apparenta
l’ironia e un certo understatement
dell’autore italiano. Il quale ha scelto proprio
una frase di Chesterton come epigrafe
del suo saggio La manomissione delle parole:
«Le fiabe non dicono ai bambini che i draghi
esistono. Questo i bambini lo sanno da soli.
Le fiabe dicono ai bambini che i draghi possono
essere sconfitti».
Renato Rascel nei panni di Padre Brown (foto Corbis)
– Gianrico Carofiglio, che ricordo conserva
del libro su padre Brown?
«Ricordo benissimo il volume. Era giallo,
grande e con una copertina morbida. Me lo
regalarono subito dopo la serie televisiva
con Renato Rascel e Arnoldo Foà. Io ero un
bambino e quello era un regalo da grandi.
Mi sentii molto orgoglioso».
– Perché è interessante la tecnica investigativa
del personaggio di Chesterton?
«L’aspetto più interessante è sicuramente
l’umanità del personaggio e dell’investigatore.
Per inciso: le qualità umane sono quelle
che, nel mondo reale, fanno davvero un bravo
investigatore».
– Padre Brown intende far valere la giustizia,
ma non condanna mai l’uomo, vuole
dargli la possibilità del riscatto.
«Questo dovrebbe essere il metodo. Il bravo
investigatore e il bravo giudice si astengono
da giudizi morali e cercano di cogliere –
fermo restando l’obbligo di applicare la legge
e di fare giustizia – la dimensione umana
e le ragioni anche di chi commette i reati».
– Nei racconti di Chesterton c’è sempre ironia,
e anche lei è un estimatore dell’ironia.
Cosa aggiunge ai libri?
«Ho fatto dire al personaggio di un mio racconto
che l’ironia e il senso dell’umorismo
sono qualità morali. Nei romanzi, specie in
quelli drammatici, l’ironia aggiunge spessore
e umanità ai personaggi e alle storie».
– Padre Brown ha grande conoscenza
dell’animo umano. In questo, può essere un
modello per chi lavora nella giustizia?
«Come dicevo prima, una qualità del buon
investigatore e del bravo giudice è nella capacità
di capire le motivazioni – anche quelle
aberranti – e l’umanità dei criminali, senza
mai dimenticare che ci sono delle vittime che
hanno diritto di chiedere giustizia. Ma, appunto,
giustizia, mai vendetta».
Clicca QUI o l'immagine per scaricare il primo racconto del libro, gratis
Nel racconto che puoi scaricare qui a fianco, il piccolo padre Brown mette nel sacco il gigantesco criminale Flambeau.
Racconta e vinci
Davide e Golia
Utilizzando lo spazio commenti e senza superare le 1000 battute, racconta un episodio che conosci e in cui un "piccolo" è riuscito a battere un "grosso".
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Pubblicato il 30 maggio 2012 - Commenti (0)
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