29
ago

La memoria lunga di Fogazzaro

Alessandro Gassman è Franco Maironi in Piccolo mondo antico (foto Webphoto).
Alessandro Gassman è Franco Maironi in Piccolo mondo antico (foto Webphoto).

«Fu un uomo fuori dal comune», osserva Alessandro Gassman, interprete nella fiction televisiva tratta dal capolavoro dello scrittore vicentino. «I suoi libri sono fondamentali per capire chi eravamo e chi siamo oggi».
Antonio Fogazzaro
raccontò di sé stesso che all’età di tre anni sapeva già leggere e che fin da bambino «era avido di libri». E si autodefinì un enfant prodige. «Io invece non lo sono stato affatto, anzi ero considerato la pecora nera della famiglia. Casomai, sono stato figlio di un enfant prodige: papà Vittorio se lo ricordano ancora al Liceo Tasso di Roma per le pagelle mostruose, piene di dieci. Ma, come spesso accade, ho recuperato dopo, negli anni, e lo sto ancora facendo». Eccome. Alessandro Gassman che, comunque, neanche diciannovenne recitava già sul palco Affabulazione di Pasolini e di lì a poco avrebbe lavorato con un mostro sacro come Luca Ronconi, accetta con ironia il confronto insostenibile col grande scrittore risorgimentale veneto. Fogazzaro lo conosce bene, avendo interpretato nel 2001 il personaggio di Franco Maironi in Piccolo mondo antico, la fiction televisiva per la regia di Cinzia Torrini tratta dal romanzo omonimo.

Antonio Fogazzaro, nato a Vicenza nel 1842 e morto nel 1911.
Antonio Fogazzaro, nato a Vicenza nel 1842 e morto nel 1911.

«Fogazzaro è stato anzitutto un uomo al di fuori del comune », afferma l’attore romano. «Dotato di una straordinaria capacità di scrittura, è stato un testimone del suo tempo: i suoi libri sono precise fotografie dell’Italia dell’epoca. Riprendere in mano i suoi romanzi, quindi, in un Paese come il nostro che ha la memoria cortissima e che pare aver smarrito la strada maestra è operazione importante per capire chi eravamo e, quindi, chi siamo oggi. Insomma, è un grande classico, che ha contribuito a segnare la storia culturale del nostro Paese». Dello scrittore vicentino Famiglia Cristiana propone, questa settimana, il volume Il Santo, che chiuderà la collana Biblioteca universale cristiana, molto apprezzata dai lettori.

Il caso ha voluto che proprio Gassman nella sua recente performance teatrale Dio e Stephen Hawking (tratta dal testo di Robin Hawdon) abbia affrontato il delicato rapporto tra fede e scienza, tema che aveva appassionato anche Fogazzaro, il quale si creò non pochi nemici in seno alla Chiesa per le sue aperture alla teoria evoluzionistica darwiniana. «D’altra parte, il confronto tra lo scienziato e l’uomo di fede, in generale, e nello specifico la questione delle origini dell’universo mi hanno sempre affascinato», afferma Gassman.
Molti anni fa aveva già affrontato in Lourdes, una fiction della Rai, anche il rapporto tra medicina e fede, interpretando il ruolo di un dottore che si trova davanti alla guarigione inspiegabile della moglie». «Una esperienza che avrebbe insinuato nel protagonista un dubbio radicale e lo avrebbe scosso così tanto da sconvolgergli la vita», commenta l’attore, che da due anni è direttore artistico del Teatro stabile del Veneto. «Credo che queste siano tematiche fondamentali, che solo i grandi scrittori o drammaturghi sanno trattare e che io amo particolarmente».

Il Santo, uscito nel 1905, fu un libro che ebbe successo di pubblico, ma fu messo all’Indice dalla reazione antimodernista di Pio X. «Oggi per fortuna l’Indice dei libri proibiti non esiste più, ma i libri in Italia si leggono sempre meno. È un dato deprimente. Per quanto mi riguarda, cerco di fare la mia parte: ho preso l’impegno con me stesso di leggere almeno un libro al mese». L’ultimo? «Il volumetto dell’autore austriaco Thomas Bernhard I miei premi, un ritratto sarcastico e divertente del mondo dei premi letterari», risponde l’attore che si è cimentato con successo anche nella regia e che l’anno prossimo metterà in scena il Riccardo III di Shakespeare.

Alberto Laggia

Racconta e vinci il grande cinema di Chaplin

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«Ricordate qualche momento in cui la fede vi ha dato conforto?»

Per ognuno dei 13 volumi della collana BUC - I narratori, "sfidiamo" i lettori a inviarci un loro racconto sul tema del libro della settimana.

La redazione di Famiglia Cristiana ogni settimana sceglierà il racconto migliore, che verrà premiato con un cofanetto di 13 Dvd con i grandi capolavori di Charlie Chaplin.

Pubblicato il 29 agosto 2012 - Commenti (2)
21
ago

La realtà nuda della Capinera

La grande attrice Valentina Cortese
La grande attrice Valentina Cortese

Per capire chi è Valentina Cortese basta riportare le parole di Ingrid Bergman che nel 1973 le soffiò l’Oscar come miglior attrice: «Questo Oscar non mi appartiene. Appartiene a Valentina Cortese». Musa per molti anni di Giorgio Strehler, ha recitato al cinema per registi come Federico Fellini, François Truffaut e Franco Zeffirelli. Per quest’ultimo, con cui ha girato anche Fratello sole, sorella luna e Gesù di Nazareth, ha interpretato la madre superiora in Storia di una capinera, il film che il regista nel 1993 ha tratto dall’omonimo romanzo di Giovanni Verga, che Famiglia Cristiana propone questa settimana nella collana Biblioteca universale cristiana. La grande attrice, nata a Milano nel 1923 e che ha da poco pubblicato la sua autobiografia Quanti sono i domani passati, ha scritto per noi queste righe per spiegarci cosa ha rappresentato per lei il romanzo di Verga.

Angela Bettis in Storia di una capinera.
Angela Bettis in Storia di una capinera.

Storia di una capinera è un’opera giovanile di Giovanni Verga. Ma già lo studio psicologico dei personaggi è estremo.

C’è una meravigliosa fusione fra i personaggi e l’ambiente in cui vivono e agiscono. È un romanzo intimo. La realtà descritta è colta nel suo aspetto nudo e doloroso. Paesaggi e personaggi restano “veri” eppure immersi in una luce di favola remota. Una materia perfetta per il cinema, con le sue descrizioni a campi lunghi e con i primi piani psicologici dei personaggi.

Ci sono, nella scrittura di Verga, l’intimità e il pudore dei sentimenti, la fatica e la pena del lavoro, insomma, la vita. Sentimenti e paesaggi visti sul nascere e il morire di un’esaltazione amorosa. A Storia di una capinera mi legano pure ricordi personali. Anch’io, come la giovane protagonista Maria, non sono stata cresciuta dalla mia vera madre e durante le riprese del film di Zeffirelli mi capitava di proiettare su Angela Bettis, l’attrice che la interpretava, parte del mio mondo giovanile.

Il ruolo di madre superiora mi riportava al mio mestiere di attrice e diventavo altro da me, ma certe onde emotive provate nella mia infanzia le rivivevo fortissime quando vedevo Angela nei panni di Maria. E poi c’era l’ambientazione contadina, così presente nelle opere di Verga, abilissimo nel cogliere il rituale quotidiano del lavoro nei campi, i giochi, le feste stagionali. Io sono cresciuta in quel mondo e, anche se di certo non mi rendevo conto di tutto questo con la sua lucidità, assaporavo i proverbi, i canti, i balli nell’aia, le favole nella stalla raccontate dagli anziani del paese. E ancora oggi che i ricordi risvegliati si fanno più vividi e presenti, li rivivo con la poesia delle cose lontane.

È questa la grande forza della letteratura: è il grande specchio dove l’umanità si riflette e si riconosce, è la memoria che ci lega nel tempo. Vorrei vivere un’altra vita ancora per leggere e per rileggere i grandi libri.

Storia di una capinera di Verga in edicola e in parrocchia da giovedì 23 agosto
Storia di una capinera di Verga in edicola e in parrocchia da giovedì 23 agosto

Racconta e vinci il grande cinema di Chaplin

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«Nella vostra vita c'è un grande desiderio che è rimasto irrealizzato?»

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Pubblicato il 21 agosto 2012 - Commenti (3)
14
ago

Sognando con Flaubert

David Riondino.
David Riondino.

Mettete che un bel giorno il ministero della Cultura decida di lanciare una campagna per alzare il livello medio dei cabarettisti. Immaginate poi che l’ispettore inviato dal ministero sia David Riondino e che il comico ignorante da istruire sia Dario Vergassola.
Considerate, infine, che tema della lezione sia uno dei capolavori dell’Ottocento, Madame Bovary di Gustave Flaubert.

Quale sarà il risultato di Riondino accompagna Vergassola a incontrare Flaubert, se non un avvincente, divertente e serrato duello sul campo della letteratura? «Fu uno scrittore “popolare”, capace di affrontare temi di comune interesse, di indagare i sentimenti», dice Riondino a proposito dell’autore che viene proposto nella collana della Biblioteca universale cristiana con il numero di Famiglia Cristiana di questa settimana.

Già bibliotecario alla Biblioteca nazionale di Firenze, nato artisticamente con la generazione dei cantautori degli anni Settanta, musicista (ebbe l’onore di aprire i concerti di De André), verseggiatore satirico con la passione per la divulgazione, Riondino ha ripetuto l’esperimento, sempre in compagnia di Vergassola, con Don Chisciotte, Pinocchio, I promessi sposi. Prova che la grande letteratura, se declinata nelle forme adatte, può davvero conquistare ogni tipo di pubblico.

E a darcene una prova convincente e tangibile è proprio Flaubert, con i suoi grandi romanzi. «La forza della trama, il realismo con cui descrive le relazioni fra i suoi personaggi, l’abilità nel restituire l’intimità e i chiaroscuri delle situazioni fanno sì che il lettore resti incantato, che si preoccupi per le involuzioni emotive dei protagonisti, che attenda con trepidazione l’esito degli eventi», continua Riondino.
Accade che l’autore stesso si identifichi nelle sue creature – è celebre la frase di Flaubert secondo cui «Madame Bovary c’est moi», Madame Bovary sono io – e quindi «ogni lettore può riconoscersi in esse».

Il capolavoro di Flaubert – materia troppo ghiotta per non ingolosire il cinema, che infatti ne ha tratto diverse versioni, con protagoniste fra le altre Jennifer Jones (1949), Isabelle Huppert (1991), mentre l’anno prossimo sarà Mia Wasikowska a vestirne i panni – «racconta comela protagonista venga conquistata da un sogno che la allontani da una vita quotidiana percepita come insostenibile e non soddisfacente.
È affascinata dall’altrove, da una felicità “esotica”, dal desiderio di altri mondi. Chi non prova desideri, profondi ma misconosciuti? Chi non avverte, a volte, l’estraneità di chi gli sta vicino?
Il bisogno di assoluto, la ricerca di pienezza sentimentale, il diritto alla bellezza sono insopprimibili, e il pubblico in tutto ciò scopre sé stesso», conclude Riondino. E proprio questi aneliti a una grandezza e realizzazione spirituale sono i temi che il lettore ritroverà nei Tre racconti allegati alla rivista in edicola e in parrocchia da giovedì 16 agosto.

I tre racconti di Gustave Flaubert, in edicola e in parrocchia da giovedì 16 agosto
I tre racconti di Gustave Flaubert, in edicola e in parrocchia da giovedì 16 agosto

Racconta e vinci il grande cinema di Chaplin

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«Nel racconto Un cuore semplice Flaubert descrive una domestica estremamente umile e buona al servizio di una donna difficile. Secondo voi, la semplicità è una virtù?»

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Pubblicato il 14 agosto 2012 - Commenti (2)
09
ago

Lezioni d’amore

Arnoldo Foà, il “grande vecchio” (è nato a Ferrara il 24 gennaio 1916) del nostro teatro.
Arnoldo Foà, il “grande vecchio” (è nato a Ferrara il 24 gennaio 1916) del nostro teatro.

Di fronte alla poesia, da sempre vengo colpito non tanto dalle tecniche dell’autore, ma dai concetti che esprime, e dall’atmosfera che riesce a creare, il contesto in cui si muove la sua fantasia.
Nonostante io sia noto anche per le letture pubbliche, sono convinto che la poesia sia un fatto assolutamente intimo, e andrebbe letta privatamente, perché la lettura della poesia è un tale misto di tecnica e di spiritualità che richiede il silenzio assoluto per ascoltare gli intimi echi che suscita in noi.
La poesia per me è pensiero e armonia, ma nel corso della lettura non è semplice evidenziare l’uno e l’altra senza propendere per uno dei due elementi a scapito dell’altro.

Kahlil Gibran
Kahlil Gibran

Khalil Gibran mi ha colpito proprio per la sua costante ricerca di una comunione di questi due elementi, sia dal punto di vista puramente estetico che per i contenuti.
Rileggendo in questi giorni i suoi versi, ho riscoperto quanto me lo aveva fatto apprezzare a suo tempo, quando l’ho letto pubblicamente e poi registrato per l’editore Lettera “A”: la sua idea di amore universale, anche per quanto non conosciamo.
Io ho sempre pensato che solo l’amore possa dare un senso alla nostra vita; per chi crede, l’amore ha anche un valore religioso, ma l’amore spirituale è qualcosa che può toccare l’animo di ognuno, senza differenze di cultura o di religione, e questo sentimento mi sembra di aver percepito proprio nella poesia di Gibran.
Gibran parla di amore come di un percorso intimo verso qualcosa di inspiegabile, che è parte dell’universo, e di una dimensione più spirituale e più vera. L’amore arriva a chiunque, ci dice Gibran, ma molti non lo capiscono, o lo allontanano perché non sono pronti o sono distratti dalla ricerca di un sentimento più superficiale. Per il poeta, l’amore vero è il viaggio di ognuno verso la conoscenza e la verità, in armonia con quanto è intorno a noi. E di amore vero c’è necessità, in questi tempi travagliati! «...I vostri figli non sono i vostri figli. / Sono i figli e le figlie della fame che in sé stessa ha la vita. / Essi non vengono da voi, ma attraverso di voi, / E non vi appartengono benché viviate insieme...».

"Ali spezzate" di Kahlil Gibran. Questa settimana in edicola con Famiglia Cristiana.
"Ali spezzate" di Kahlil Gibran. Questa settimana in edicola con Famiglia Cristiana.

Racconta e vinci il grande cinema di Chaplin

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«Gibran mette in scena un lacerante "amore impossibile". Conoscete qualcuno a cui è stato impedito di vivere i propri sentimenti?»

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Pubblicato il 09 agosto 2012 - Commenti (1)
01
ago

Un libro contro il potere

Giuseppe Lupo
Giuseppe Lupo

Milano, 1630: durante l’epidemia di peste che infesta la città due uomini vengono ingiustamente accusati di essere untori, propagatori del contagio; vengono arrestati, atrocemente torturati fino alla confessione e condannati a morte. Alessandro Manzoni rimase colpito da questa vicenda giudiziaria: durante il lungo lavoro su I promessi sposi, prese in mano il caso, ne studiò a fondo tutti i documenti, fino a scriverne un libro, una ricostruzione in forma di asciutta cronaca giudiziaria dal titolo Storia della colonna infame.

«Con questo libro, che è molto particolare, si può dire che sia cominciato il genere dell’inchiesta giudiziaria. Anche Leonardo Sciascia scrisse un saggio sulla Storia della colonna infame e si avvicinò a Manzoni: per lo scrittore siciliano era fondamentale il rapporto tra letteratura e giustizia». A commentare l’opera manzoniana è Giuseppe Lupo, docente di Letteratura italiana contemporanea all’Università Cattolica di Milano e Brescia, saggista e scrittore: il suo ultimo romanzo, L’ultima sposa di Palmira, del 2011, è stato finalista al Premio Campiello.

Alessandro Manzoni
Alessandro Manzoni

– In che senso la Storia della colonna infame è un libro particolare?

«Contiene tutto il travaglio dello scrittore: dopo I promessi sposi Manzoni mette in crisi la formula del romanzo come componimento misto di storia e invenzione. Lo scrittore è roso dal tarlo dell’insoddisfazione: del resto, avere ripensato la sua opera più grandiosa, I promessi sposi, per vent’anni, è segno di sfiducia e insoddisfazione. A un certo punto, Manzoni abbandona l’invenzione per privilegiare la verità storica. La Storia della colonna infame segna il fallimento del romanzo storico. È un atto di fiducia estrema dello scrittore alla verità del documento».

– Alla base di questo libro c’è un profondo problema etico e cristiano...

«Tutte le opere manzoniane sono guidate da un problema etico, il modo in cui l’uomo si pone di fronte alla storia. Nella Storia della colonna infame Manzoni critica l’obbedienza alla superstizione, che durante la pestilenza crea la paura degli untori, ma soprattutto rivolge un atto di accusa verso chi detiene il potere, i magistrati, che pur avendo gli elementi per affermare la verità finiscono per assecondare l’ignoranza collettiva. Manzoni si pone il problema, fortemente cristiano, della coscienza individuale, della responsabilità personale che ognuno assume di fronte alla storia e alle scelte».

– Pensa che sia un’opera ingiustamente trascurata?

«Sì, è un libro poco letto, ma molto interessante, perché pone problemi molto attuali. Per esempio, il rapporto tra i singoli cittadini e il grande ordigno dello Stato che si scatena contro di loro. Negli anni Sessanta si è sviluppata una filmologia che denunciava proprio le vessazioni della macchina dello Stato sul cittadino. A scuola, purtroppo, Manzoni si studia in modo tale che gli studenti finiscono per odiarlo. Poi, magari, viene riscoperto e apprezzato anni dopo, come ho fatto io».

– All’inizio del 2013 uscirà il suo nuovo romanzo. Ci anticipa qualcosa?

«Lo avevo in mente da quindici anni. È un romanzo di guerre, viaggi e amori ambientato nel Quattrocento: un periodo storico non facile per me che sono abituato a scrivere sul Novecento. Ma un autore deve cimentarsi con nuove sfide. È una storia che passa per Venezia, Mantova, Milano, la Francia, e che, come tutti i miei romanzi, parte da verità storiche per arrivare all’invenzione. Mi piace pensare alla letteratura come visita di luoghi immaginari. La chiave di lettura dei miei libri è il sogno della storia. E la letteratura è il luogo dove la storia si può sognare».

"Storia della colonna infame" di Alessandro Manzoni. Questa settimana in edicola con Famiglia Cristiana.
"Storia della colonna infame" di Alessandro Manzoni. Questa settimana in edicola con Famiglia Cristiana.

Racconta e vinci il grande cinema di Chaplin

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«Manzoni racconta un caso di colossale ingiustizia. Vi è mai capitato di provarla sulla vostra pelle?»

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Pubblicato il 01 agosto 2012 - Commenti (2)
26
lug

Leopardi? Un profeta

Il regista Mario Martone, dopo aver portato le "Operette Morali" a teatro, ora girerà un film sulla vita del poeta di Recanati.
Il regista Mario Martone, dopo aver portato le "Operette Morali" a teatro, ora girerà un film sulla vita del poeta di Recanati.

In seguito a uno di quegli incontri spirituali, misteriosi e fecondi, che avvengono fra un artista e un personaggio, da un po’ di tempo il regista Mario Martone sta indagando la figura di Giacomo Leopardi. «Mi ero già interessato a lui, nel 2004, con L’opera segreta. E da qualche anno ero intrigato dalle Operette morali. Quando il Teatro stabile di Torino mi ha chiesto una programmazione per i 150 anni dell’Unità d’Italia, ho avuto l’intuizione che quel testo non avesse solo una dimensione filosofica, ma che racchiudesse anche un segreto drammaturgico. Il teatro fu importante nell’infanzia di Leopardi: da bambino metteva in scena con la sorella Paolina testi di sua invenzione. Era un gioco catartico, che lo liberava da sé. Nelle Operette c’è traccia di quel bambino, di quella voglia di giocare, con un’attenzione a temi alti che non esclude la disponibilità al sorriso. C’è una voglia di travestimento straordinaria, un pensiero mai schematico, in forza del quale si proietta in diverse figure, da Giove a Tasso al venditore di almanacchi».

Spesso sfugge una sensazionale coincidenza cronologica: le prime edizioni delle Operette morali e dei Promessi sposi del Manzoni furono pubblicate nello stesso anno, il 1827. «Mentre il grande romanzo del milanese aveva una forma riconoscibile e assurse a testo nazionale, l’opera dell’autore di Recanati fu percepita come “laica” ed ebbe una sorte ben diversa, anche perché la mescolanza di dialoghi e prosa lo rendevano meno “comprensibile”», osserva Martone. «Ancora oggi lo conosciamo solo nelle sintesi scolastiche, ma non si è ancora imposta l’idea di assumerlo come un libro intero, una grandiosa cosmogonia alla stregua delle Mille e una notte o del Decamerone».

Un ritratto del Leopardi.
Un ritratto del Leopardi.

Come tutti i classici, anche le Operette morali hanno molto da dire a noi contemporanei. «Diversi elementi colpiscono la nostra immaginazione », osserva il regista. «Pensiamo a quanto è centrale, oggi, il rapporto fra l’uomo e la natura; oppure all’idea che la società sia dominata dall’ipocrisia... Sono questioni diventate manifeste ai nostri occhi e che Leopardi anticipò, deluso dagli sviluppi politici. Mazzini non lo amava, proprio a causa di questa sfiducia, ma guardando la storia a posteriori ci si rende conto di quanto vedesse lungo... Aveva capito che l’organizzazione della società non tendeva all’afflato fra gli uomini, a quell’umana compagnia identificata come unico senso del vivere. Una visione lucida e disincantata».

A voler leggere con mente aperta le Operette morali, si ha la sensazione di essere al cospetto di un laboratorio da cui attinsero Nietzsche, Schopenhauer, Brecht, Pirandello... Leopardi è un profeta? «È in costante dialogo con il passato e il futuro. È innegabile che la sua denuncia e il suo sguardo rivelino tratti profetici, ma possibili solo grazie a una conoscenza profonda degli antichi: sono essi a metterlo nella condizione di attraversare il tempo con una visione ampia».

La trasposizione teatrale dell’opera leopardiana, vincitrice del Premio Ubu per la regia e del Premio La Ginestra, non ha esaurito l’interesse di Martone, al lavoro su un film dedicato al poeta. «Ho la sensazione che il cantiere sull’Ottocento che si è improvvisamente aperto nella mia vita, dal quale sono germogliati Noi credevamo, la rivisitazione di capolavori di Verdi e Rossini e la versione teatrale delle Operette, darà un ulteriore frutto. Il film uscirà l’anno prossimo». Dovrebbe trattarsi del racconto della vita del grande poeta, mentre non è ancora stato deciso l’attore che lo interpreterà. Di sicuro, ci permetterà di conoscere meglio questo padre intellettuale del nostro Paese.

La copertina delle "Operette Morali" di Giacomo Leopardi, da oggi in edicola con "Famiglia Cristiana".
La copertina delle "Operette Morali" di Giacomo Leopardi, da oggi in edicola con "Famiglia Cristiana".

Racconta e vinci il grande cinema di Chaplin

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"Secondo voi le illusioni aiutano a vivere o sono dannose?"

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Pubblicato il 26 luglio 2012 - Commenti (2)
19
lug

Tolstoj ci insegna a puntare in alto

Dacia Maraini, scrittrice, saggista e autrice per il teatro.
Dacia Maraini, scrittrice, saggista e autrice per il teatro.

«Come non leggere tutte le opere di Lev Tolstoj? È una pietra miliare della letteratura mondiale ». A parlare del grande scrittore russo (1828-1910), autore di capolavori come Guerra e pace e Anna Karenina, è Dacia Maraini, scrittrice prolifica, romanziera, autrice di saggi, poesie, testi per il teatro e sceneggiature, rientrata di recente da uno dei suoi innumerevoli viaggi per il mondo. Destinazione Colombia: «Un Paese di enormi contraddizioni», osserva la scrittrice, «ricchissimo e insieme miserabile, ma dove si coltiva uno straordinario interesse per la letteratura, la poesia, il teatro». La Maraini ora sta lavorando alla stesura di una raccolta di racconti, che uscirà a settembre. Filo conduttore: la violenza sulle donne.

– Alcuni anni fa lei ha scritto un testo per il teatro intitolato Casa Tolstoj. Può raccontarne la genesi?

«Casa Tolstoj è un testo nato dalla lettura dei diari personali di Sofia Bers, la giovanissima moglie che Tolstoj sposò nel 1862 quando lei aveva appena 18 anni, mentre lui era molto più anziano. Si sposarono dopo una settimana di fidanzamento, ma già si conoscevano da tempo. Sofia era una ragazza piena di vita e di entusiasmo, ma nel suo diario lei stessa confessa che, all’epoca delle nozze, non sapeva niente dell’amore e del matrimonio. Una volta sposata, secondo l’usanza del tempo, fu obbligata ad avere una gravidanza dietro l’altra (in tutto 13). A quel tempo le ragazze non venivano educate al matrimonio, che era vissuto come un’esperienza durissima. Spesso i bambini morivano appena nati, anche tra le famiglie benestanti. E molto spesso pure le madri morivano in gravidanza».

– E Tolstoj come visse il matrimonio?

«Fu un pensatore molto aperto, moderno per la sua epoca. In questo senso ritengo molto importante il romanzo breve La sonata a Kreutzer: in quell’opera lo scrittore esprime la sua visione della famiglia e del matrimonio, il suo rapporto con l’universo femminile. È una denuncia sociale dell’istituzione del matrimonio come era visto a quel tempo e una condanna del mercimonio. Lo reputo un romanzo molto attuale: oggi parliamo di mercimonio della donna in forma differente, ma sempre mercimonio».

Lo scrittore russo Lev Tolstoj durante gli anni della vecchiaia.
Lo scrittore russo Lev Tolstoj durante gli anni della vecchiaia.

– Quanto ha influito su di lei la lettura dello scrittore russo?

«Tolstoj è stato un grande maestro: oltre che uno scrittore, era un pensatore, uno che aveva le sue idee ben definite. Allora questa definizione non esisteva, ma oggi lo chiameremmo scrittore impegnato. Guerra e pace rappresenta uno dei più grandi capolavori di sempre, il suo romanzo più complesso e completo, che offre una visione a tutto tondo del mondo».

– E Confessione?

«Confessione rappresenta l’opera della sua conversione: il cristianesimo di Tolstoj era giansenista, creaturale, molto legato all’imitazione di Cristo. Mi piace la sua visione cristiana, perché rifuggiva dalle istituzioni, era molto idealista, fondata sul senso della fratellanza, sull’insegnamento di Cristo vissuto alla lettera».

– A chi si accosta per la prima volta alla lettura di Tolstoj con quali opere consiglierebbe di cominciare?

«Con i racconti, che offrono già una panoramica sul pensiero dello scrittore. Solo in seguito consiglierei di affrontare le opere monumentali, come Guerra e pace».

– Tolstoj è ricordato anche per il suo pacifismo e il suo pensiero non-violento.

«Sì, anche in questo senso è un pensatore molto attuale. Rappresenta un esempio per il nostro tempo, perché pensava in termini di pace autentica. Per il suo tempo era un innovatore. Ma le sue idee ci ricordano che, in ogni epoca, è fondamentale porsi degli obiettivi elevati, anche se in questo modo si rischia il fallimento. Bisogna coltivare l’ottimismo e puntare sempre in alto».

la copertina del volume della Buc che comprende Confessione e La morte di Ivan Il’ic.
la copertina del volume della Buc che comprende Confessione e La morte di Ivan Il’ic.

Racconta e vinci il grande cinema di Chaplin

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Ti capita mai di pensare alla fine della vita? In quali circostanze?

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Pubblicato il 19 luglio 2012 - Commenti (0)
12
lug

Corradino il puro

Franco Cardini, esperto di Medioevo.
Franco Cardini, esperto di Medioevo.

«Non so che cosa mi aspetterà, dopo che il boia mi avrà giustiziato. Ma so per certo che benedirò, da quel momento, la fortuna di essere nato». Con queste parole messe in bocca al protagonista, Italo Alighieri Chiusano conclude l'autobiografia romanzata del sedicenne Corradino di Svevia, re di Napoli, Sicilia e Gerusalemme, venuto in Italia a sfidare il francese Carlo d'Angiò, appoggiato dal Papa. Konradin è il prossimo volume proposto con Famiglia Cristiana per la serie della Biblioteca universale cristiana. Ne parliamo con Franco Cardini, fra i massimi esperti del Medioevo.

– Cardini, come va letta questa vicenda?

«Chiusano non pretende di scrivere un romanzo storicamente attendibile: la vicenda di Corradino è per lui l'occasione di riflettere sull'immagine romantica di un personaggio che ha affascinato la cultura romantica tedesca e italiana. La figura di Corradino riassume alcuni grandi archetipi: la sacralità dell'investitura regale, la purezza degli ideali della giovinezza, il sacrificio eroicamente vissuto. Corradino affronta con coraggio e onestà un'avventura più grande di lui: la perfidia di chi lo ha ingannato, tradito e giustiziato gli costa la vita».

– Quale era la sensibilità religiosa di suo nonno, il grande Federico II e cosa ha rappresentato per l'Italia il suo regno?

«Federico II dovette affrontare forti contrasti con alcuni Pontefici, ma ciò non significa che fosse eretico o ateo. Quanto all'Italia, della quale come imperatore Federico era re, egli cercò inutilmente di piegare i Comuni centrosettentrionali alla sua volontà. In Germania, invece, seppe assecondare saggiamente le iniziative che, nella fedeltà alla corona, tendevano all'autonomia e prefiguravano il futuro federalismo tedesco. In Sicilia instaurò un governo autoritario e centralista, sulla base del precedente modello normanno, affidò le finanze e le risorse dell'isola ai mercanti e agli imprenditori del continente, specie genovesi e pisani, imponendo un'economia di dominio che diventò una delle cause del mancato sviluppo del meridione d'Italia».

– La lotta tra la dinastia angioina e sveva per il dominio dell'Italia ci riporta ai tempi delle lotte tra guelfi e i ghibellini, due anime che, forse, coesistono ancora oggi nella coscienza nazionale...

«Le lotte cittadine e familiari che derivano dalle vicende storiche passate non sono un fenomeno esclusivo della penisola italica. Solo dopo la Rivoluzione francese le rivalità e le inimicizie in Italia assumono una nuova veste ideologico- politica. Non dobbiamo leggere il Risorgimento e il periodo successivo alle due grandi guerre mondiali alla luce della contrapposizione tra neoguelfi e neoghibellini, né attribuire ai guelfi una natura clericale e ai ghibellini un'anima anticlericale».

Konradin si collega alla serie di romanzi ambientati in epoca medievale: perché ci affascina questo periodo?

«Il Medioevo ci attrae per la sua natura indistinta, nella quale trova posto tutto e il contrario di tutto: fede ed empietà, religione e magia, amore per la scienza e la filosofia e culto del mistero, afflati di pace e impulsi violenti. Dal Quattrocento in poi si è guardato al Medioevo come a un periodo confuso e retrogrado, mentre a partire dall'Ottocento è stato rivalutato come un'epoca di libertà, fantasia e sentimento».

– Cosa si può dire sulla figura della madre di Corradino, Elisabetta di Wittelsbach, a cui il figlio si rivolge nella lunga lettera con cui inizia il romanzo.

«Non sappiamo molto di lei se non che era una principessa colta e pia. Appartenendo alla dinastia dei duchi di Baviera, tradizionalmente avversari dei duchi di Svevia, cui apparteneva invece il marito. Era ben conscia dello scontro dinastico che, dalla prima metà del XII secolo, dilaniava l'Impero romano-germanico. Anche Federico I Barbarossa, del resto, era figlio di un duca svevo e di una duchessa bavara».

Racconta e vinci il grande cinema di Chaplin

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C'è un'occasione in cui avreste voluto essere più coraggiosi e leali di quanto siate effettivamente stati?

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La redazione di Famiglia Cristiana ogni settimana sceglierà il racconto migliore, che verrà premiato con un cofanetto di 13 Dvd con i grandi capolavori di Charlie Chaplin.

Pubblicato il 12 luglio 2012 - Commenti (2)
05
lug

Libri immortali come la Sardegna

Un'immagine della scrittrice sarda Grazia Deledda.
Un'immagine della scrittrice sarda Grazia Deledda.

«Grazia Deledda è diventata immortale partendo da un piccolo mondo antico. E lascia intorno a sé una scia di impietosa invidia». Salvatore Niffoi i libri di Grazia Deledda li ha tutti in casa, in diverse edizioni, li ha letti, amati, compresi, interiorizzati. Lui che, con i suoi romanzi, ha sempre cercato di penetrare nelle viscere della sua Barbagia, restituendola al lettore in forma di colori e odori, sapori, emozioni. Proprio come faceva la scrittrice nuorese, premio Nobel per la letteratura nel 1926.

«I libri della Deledda sono dei dipinti», spiega Niffoi, «le parti descrittive rappresentano la metà della narrazione. I romanzi deleddiani si annusano, si guardano, si gustano, si percepiscono con tutti i sensi». Nata nel 1871, la Deledda fu autrice prolifica di romanzi, novelle, racconti per le riviste. In seguito si trasferì a Roma (dove morì nel 1936), ma portando sempre con sé la Sardegna con i suoi riti, i suoi paesaggi, la sua storia. «La cosa bella di questa scrittrice», continua Niffoi, «è che, come del resto molti autori sardi, sentiva la scrittura. Non scriveva per avere la visibilità e basta, ma perché aveva qualcosa da dire. Lei aveva un mondo da raccontare. E le accuse di esotismo che spesso le sono state rivolte – così come le hanno rivolte a me – provengono da persone che la Sardegna l'hanno vista solo in cartolina».

Lo scrittore Salvatore Niffoi nel suo paese, Orani, in Barbagia.
Lo scrittore Salvatore Niffoi nel suo paese, Orani, in Barbagia.

«Quel mondo antico», continua lo scrittore, «esiste ancora nella sua bellezza, nella sua arcaica crudeltà, un mondo dove l'elogio della lentezza è regolato dalle leggi del tempo e delle stagioni. Quel mondo ai tempi della Deledda aveva qualcosa di animalescamente magico, era intriso del senso dell'onore, del pudore e della vergogna: le persone allora coltivavano il senso dell'ineluttabilità del male fin da piccole, perché esisteva un contatto diretto con la morte attraverso la terra». Oggi, spiega Niffoi, tanti parlano della Deledda senza averla capita. «Tanti dicono che la sua lingua è obsoleta: non è vero, è modernissima, le sue parole hanno una grammatica musicale introvabile in altri autori».
Grazia Deledda è stata sempre accostata ai veristi, a Giovanni Verga e Luigi Capuana, che apprezzarono molto la sua capacità narrativa. «Eppure, più che al verismo io la accosto a Tolstoj», commenta Niffoi. «Cenere ricorda molto il romanzo Resurrezione, nella trama, nel senso terribile dell'ineluttabilità del male e della colpa. I personaggi deleddiani, in realtà, non sono dei vinti: sono "malfatati", colpiti da un destino avverso. La Deledda è sempre contemporanea: quando racconti le passioni, la cornice cambia, ma la realtà rimane sempre la stessa, attualissima». Ed era una piccola grande donna: «Era minuta, non bella, ma in confronto alle tante "veline" di oggi era un gigante. Non inseguiva le mode, era una grande imprenditrice di sé stessa. A un certo punto, se ne andò a Roma perché aveva bisogno di ossigeno, di libertà, era una donna forte, insofferente, che non sopportava le catene. Ma dalla Sardegna lei, in realtà, non è mai andata via: noi sardi, per capire il senso di saudade, nostalgia feroce per la nostra terra, abbiamo bisogno di staccarcene, di attraversare il mare».
La scrittrice di Nuoro aveva capito tutto della sua terra, anche il senso di ingratitudine e di irriconoscenza: «Molti in Sardegna e a Nuoro oggi parlano di lei con fastidio, perché non era una che le mandava a dire, scriveva quello che vedeva, e a volte per scrivere usava il bisturi. Sapeva scavare nella profondità dell'anima degli esseri umani, e poi prendeva i personaggi e li metteva sulla pagina, spesso con violenza, ma sempre con un forte senso del dolore e dell'amore, visti come inseparabili perché, in fondo, l'unica cosa certa di questa vita è la morte. E la Deledda, cristianamente, lo aveva capito».

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Olì, la protagonista del romanzo Deledda, compie un gesto estremo per "salvare" il figlio. Voi cosa sareste disposti a fare per amore dei vostri figli?

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Pubblicato il 05 luglio 2012 - Commenti (0)
27
giu

Quando Čechov entrò nella mia vita

Monica Guerritore, volto noto del cinema, del teatro e della televisione. (foto Corbis)
Monica Guerritore, volto noto del cinema, del teatro e della televisione. (foto Corbis)

Forse oggi Monica Guerritore non sarebbe stata un'attrice se Čechov non fosse entrato per caso nella sua vita. A 16 anni accompagnò un'amica per un provino al Piccolo di Milano. Giorgio Strehler preparava una nuova edizione del Giardino dei ciliegi e cercava una giovane interprete per il ruolo di Ania. Si presentarono in mille, ma il grande regista notò lei. La prese per mano e le disse: «Tu resti con noi». «Non sapevo nulla di teatro, né tantomeno dell'opera di Čechov. D'improvviso, un intero mondo si aprì di fronte a me», ricorda oggi l'attrice. Da allora si è trasformata in un'appassionata divulgatrice delle opere del grande scrittore russo – di cui Famiglia Cristiana allega al numero di questa settimana Il vescovo e altre novelle per la Biblioteca universale cristiana sui narratori – tanto in teatro quanto nelle scuole e nelle università, dove periodicamente organizza incontri e seminari.

- Che cosa affascina di più i giovani dell'opera di Čechov?

«Il realismo dei personaggi, l'affettuosa descrizione delle loro fragilità. Non sono mai portatori di una verità assoluta, ma solo della loro piccola, personale visione del mondo, e questo li rende vicini all'ansia di ricerca tipica della gioventù».

- C'è un sentimento prevalente nella sua narrativa?

«La malinconia del tempo perduto è l'onda emotiva su cui viaggia Čechov, un tema che però lui declina sempre attraverso molteplici prospettive, che corrispondono ai suoi personaggi».

"Il vescovo e altre novelle", volume allegato questa settimana a "Famiglia Cristiana".
"Il vescovo e altre novelle", volume allegato questa settimana a "Famiglia Cristiana".

- Tuttavia questa malinconia nelle sue opere spesso si fonde con l'umorismo. Lei come lo definirebbe?

«In un senso molto diverso da come lo intendiamo oggi. Non ha nulla a che fare con la comicità. È piuttosto uno sguardo tenero sui piccoli inciampi che rendono i suoi personaggi così ricchi di umanità. Personaggi che non suscitano in noi il riso, ma al massimo un sorriso colmo di dolcezza. Perché, a differenza di Dostoevskij che permea di tragedia i suoi romanzi, Čechov mantiene uno sguardo delicato sui piccoli esseri umani che si trovano a vivere in mondo così sconfinato e in subbuglio come era la Russia del suo tempo».

– Tolstoj rimproverava a Čechov di non infondere nella scrittura la sua stessa tensione etica. Di lui scrisse: «È pieno di talento e ha senza dubbio un cuore buonissimo, ma al momento non sembra possedere un punto di vista ben definito sulla vita». È d'accordo?

«A dire il vero, non molto. In Čechov era fortissima la convinzione che il futuro sarebbe stato migliore. Lo studente del Giardino dei ciliegi dice che la conoscenza ci permetterà di alleviare le nostre sofferenze. Credo che si tratti più che altro di una differenza di prospettiva: Tolstoj predilige i grandi affreschi come Guerra e pace o Anna Karenina, mentre Čechov si concentra su piccoli uomini solo in apparenza insignificanti. Ma la tensione etica è fortissima, specie nei racconti. Me ne ricordo uno in cui un uomo si uccide per la vergogna di essersi presentato a teatro senza cappello. È una scena che avrebbe potuto benissimo far parte di un film neorealista di Vittorio De Sica come Ladri di biciclette o Umberto D. per la precisione con cui descrive un periodo storico, quello delle tensioni in Russia che sarebbero poi sfociate nella Rivoluzione del 1917. Nelle pagine di Čechov si avverte fortissima l'agonia di un mondo che sarà presto sostituito da un altro».

– Il fatto che abbia alternato la scrittura alla professione di medico quanto ha influito sulla sua poetica?

«Tantissimo. Solo chi ha toccato con mano le tempeste emotive che traspaiono da personaggi apparentemente anonimi può raccontarle con la credibilità e la delicatezza che innervano tutta l'opera di Čechov».

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Anche a voi è capitato, come ai protagonisti dei racconti di Cechov, di provare un sentimento di incomunicabilità nei confronti di una persona che vi sta a cuore?

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Pubblicato il 27 giugno 2012 - Commenti (2)
20
giu

Il mio amico Lillo

«La sua casa milanese di via Donizetti era sempre aperta per me». Il cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio consiglio per la cultura, racconta la sua amicizia con lo scrittore Luigi Santucci, «Lillo, come lo chiamavamo affettuosamente», di cui Famiglia Cristiana proporrà la settimana prossima Il ballo della sposa per la Buc - I narratori.

Un'amicizia nata dall'ammirazione: «Ero ancora studente di teologia, e a Roma, passando un giorno da una libreria, avevo acquistato uno dei suoi primi romanzi
(anzi, quello che lo avrebbe svelato al grande pubblico), Il velocifero. Da quella lettura era nato il desiderio – considerato allora impossibile – di conoscere l'autore. In seguito, nel 1967, sacerdote da un anno avevo scoperto quello che considero il suo capolavoro, Orfeo in paradiso. E avevo accanto ancora mia madre, quando – ormai insegnante nei seminari milanesi – durante le vacanze natalizie del 1971, avevo seguito la trascrizione televisiva di quel romanzo, un emozionante sceneggiato di Leonardo Castellani». Poi l'ammirazione si trasformò in contatto e in amicizia. «Fu la moglie amatissima di Lillo, Bice, la sua "Beatrice", donna straordinaria, ad accorciare le distanze. In casa loro ero accolto come un fratello o un figlio da una famiglia unita e numerosa, pronta a festeggiare ogni comune ricorrenza, spesso unendo a essa anche la mia famiglia». Una frequentazione che divenne più intensa dal 1990, «quando Lillo riuscì a trovare per mio padre e le mie due sorelle una casa estiva accanto alla sua a Guello di Bellagio. Lassù, davanti a un panorama mozzafiato, dinnanzi al lago manzoniano per eccellenza, quello di Lecco- Como, e all'incombere frontale delle due Grigne, ogni giorno ad agosto, Santucci – salendo una piccola erta e superando un varco nella siepe divisoria dei due giardini – si presentava cercando di "sorprendermi" mentre ero intento nella lettura o nella scrittura».

Santucci, conclude il cardinale, «era un uomo festoso, attaccato alla vita, capace di giocare a tennis fino a pochi mesi prima della malattia che lo portò alla morte il 23 maggio 1999, pronto alle battute folgoranti, a ospitare amici, a comporre per loro dediche e stornelli, a lasciarli incantati con le sue straordinarie "recite" o certe stupende letture dantesche ». Riprendere in mano i suoi libri ha anche il senso di ripercorrere, attraverso la scrittura, la fede di un uomo: «Ha sempre cantato la gioia semplice e umile, deposta come un seme microscopico nel terreno della vita. Ha fatto intravedere, con i suoi scritti, il paradiso che altro non è che la felicità "capillare", cioè quella che si cela, come diceva Santucci, "entro il battere di ogni nostra ora"».

La copertina de "Il ballo della sposa" di Luigi Santucci, disponibile in edicola e in parrocchia a partire da giovedì 21 giugno.
La copertina de "Il ballo della sposa" di Luigi Santucci, disponibile in edicola e in parrocchia a partire da giovedì 21 giugno.

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Ti è mai capitato di cambiare idea su una persona?

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Pubblicato il 20 giugno 2012 - Commenti (0)
12
giu

La nostra vita in chiaroscuro

Giulio Scarpati
Giulio Scarpati

L’attore Giulio Scarpati, deve la sua straordinaria popolarità soprattutto alla serie Tv Un medico in famiglia, dove interpreta il ruolo del dottor Lele Martini accanto a Lino Banfi (nonno Libero). E della fortunata fiction, che ha esordito nel 1998, sta girando ora a Roma l’ottava serie.
Ma Scarpati si è spesso dedicato al teatro, spaziando da Goldoni a Šechov a Koltès. Nella prossima stagione verrà diretto da Alessandro Gassman in L’oscura immensità della morte di Massimo Carlotto, insieme a Claudio Casadio. Scarpati, interprete nella stagione teatrale 1999-2000 de L’idiota di Fëdor Dostoevskij, insieme a Mascia Musy, con la regia di Gigi Dall’Aglio, parla del suo rapporto con Dostoevskij di cui Famiglia Cristiana allega al numero da domani in edicola e in parrocchia Le notti bianche, nella collana Biblioteca universale cristiana / I narratori.

«Quando ho scelto di interpretare proprio Dostoevskij», ricorda l’attore romano, sposato con la regista di teatro Nora Venturini, e padre di due figli, Edoardo di 24 anni e Lucia di 17, «ero appena diventato famoso come protagonista della prima serie di Un medico in famiglia e molte persone, mai state prima a teatro, sono venute a vedermi incuriosite dalla mia popolarità: ne sono stato contento perché ho avvicinato un vasto pubblico all’autore russo che, al di là delle conoscenze scolastiche e universitarie, per me è sempre stato affascinante e coinvolgente emotivamente».
Scarpati ammira il principe Myškin de L’idiota, per la sua spontaneità perché parla sinceramente con ingenuità e a fin di bene. Dopo essere stato in Svizzera, per curarsi dall’epilessia (malattia di cui soffriva anche Dostoevskij), ritorna in Russia, ma si scontra con persone ipocrite che vivono ancora condizionate dalle regole della società feudale.

«Myškin», commenta l’attore, «coinvolge i lettori, poiché a chiunque, per amore di verità, piacerebbe dire ciò che pensa: è un uomo buono, ma la sua bontà inconsapevolmente provoca danni e reazioni contrastanti, come quando si offre d’istinto di sposare Nastas’ja, una donna disonorata che, pur amandolo, rinuncia a lui per non rovinare la sua reputazione, andando incontro a una tragica fine.
Efficace appare la tirata politica del principe contro la pena di morte, a cui lo stesso Dostoevskij era stato condannato per attività sovversiva e poi graziato dallo zar Nicola I. L’approssimarsi della morte suscita nel condannato una forte reazione emotiva perché ogni minuto che resta da vivere diventa prezioso e fa capire quanto tempo si è sprecato inutilmente. Bisognerebbe infatti poter attribuire valore a ogni momento della vita come se fosse l’ultimo».

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Pubblicato il 12 giugno 2012 - Commenti (0)
30
mag

Com'è umano padre Brown

Gianrico Carofiglio, magistrato e scrittore, grande ammiratore di Chesterton (foto Blackarchives)
Gianrico Carofiglio, magistrato e scrittore, grande ammiratore di Chesterton (foto Blackarchives)

Gianrico Carofiglio conosce bene le indagini, sia fatte sia scritte. Magistrato e scrittore, ha esordito nella narrativa con il legal thriller Testimone inconsapevole, nel quale ha creato il fortunato personaggio dell’avvocato Guido Guerrieri. A dieci anni da quell’esordio – Carofiglio ha pubblicato numerosi altri romanzi e saggi – è nella cinquina di candidati al Premio Strega 2012 con Il silenzio dell’onda (Rizzoli) ed è stato tradotto in ventiquattro lingue. Oltre ad aver venduto milioni di copie.
Qualcosa accomuna lo scrittore barese all’inglese Gilbert Keith Chesterton, l’autore de I migliori racconti di padre Brown con il quale, assieme al prossimo numero del giornale, Famiglia Cristiana promuove la nuova serie della Biblioteca universale cristiana dedicata ai narratori. Chesterton, che era nato a Londra nel 1874, fu scrittore di grande successo con vari romanzi, ma la sua notorietà rimane legata soprattutto al personaggio di padre Brown, prete cattolico e investigatore umanissimo protagonista di cinque raccolte di racconti pubblicate tra il 1911 e il 1935. Gli venne riconosciuto il merito di aver creato una nuova declinazione del romanzo poliziesco, diverso ma non meno appassionante della serie di Sherlock Holmes.
Carofiglio entra regolarmente nelle classifiche dei libri più venduti anche con i suoi saggi, eppure per molti è in prima battuta il creatore del legal thriller in Italia. Li apparenta l’ironia e un certo understatement dell’autore italiano. Il quale ha scelto proprio una frase di Chesterton come epigrafe del suo saggio La manomissione delle parole: «Le fiabe non dicono ai bambini che i draghi esistono. Questo i bambini lo sanno da soli. Le fiabe dicono ai bambini che i draghi possono essere sconfitti».

Renato Rascel nei panni di Padre Brown (foto Corbis)
Renato Rascel nei panni di Padre Brown (foto Corbis)

– Gianrico Carofiglio, che ricordo conserva del libro su padre Brown?
«Ricordo benissimo il volume. Era giallo, grande e con una copertina morbida. Me lo regalarono subito dopo la serie televisiva con Renato Rascel e Arnoldo Foà. Io ero un bambino e quello era un regalo da grandi. Mi sentii molto orgoglioso».
– Perché è interessante la tecnica investigativa del personaggio di Chesterton?
«L’aspetto più interessante è sicuramente l’umanità del personaggio e dell’investigatore. Per inciso: le qualità umane sono quelle che, nel mondo reale, fanno davvero un bravo investigatore».
– Padre Brown intende far valere la giustizia, ma non condanna mai l’uomo, vuole dargli la possibilità del riscatto.
«Questo dovrebbe essere il metodo. Il bravo investigatore e il bravo giudice si astengono da giudizi morali e cercano di cogliere – fermo restando l’obbligo di applicare la legge e di fare giustizia – la dimensione umana e le ragioni anche di chi commette i reati».
– Nei racconti di Chesterton c’è sempre ironia, e anche lei è un estimatore dell’ironia. Cosa aggiunge ai libri?
«Ho fatto dire al personaggio di un mio racconto che l’ironia e il senso dell’umorismo sono qualità morali. Nei romanzi, specie in quelli drammatici, l’ironia aggiunge spessore e umanità ai personaggi e alle storie».
– Padre Brown ha grande conoscenza dell’animo umano. In questo, può essere un modello per chi lavora nella giustizia?
«Come dicevo prima, una qualità del buon investigatore e del bravo giudice è nella capacità di capire le motivazioni – anche quelle aberranti – e l’umanità dei criminali, senza mai dimenticare che ci sono delle vittime che hanno diritto di chiedere giustizia. Ma, appunto, giustizia, mai vendetta».

Clicca QUI o l'immagine per scaricare il primo racconto del libro, gratis
Nel racconto che puoi scaricare qui a fianco, il piccolo padre Brown mette nel sacco il gigantesco criminale Flambeau.


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Davide e Golia

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Pubblicato il 30 maggio 2012 - Commenti (0)

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Buc - I narratori

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