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nov
Ho appena finito di leggere “La lettera della settimana” (FC n.
48/2011). Volevo fare qualche considerazione. Ho cinquantadue
anni e sono un agente di commercio. A causa della crisi economica
e della cronica insolvenza delle aziende, sono sull’orlo della
bancarotta. Mia figlia ha dovuto interrompere gli studi e trovarsi
lavoro in un call center. Le banche mi stanno uccidendo. E non solo
finanziariamente. Confesso che, più volte, ho meditato di farla finita.
Non sopporto l’idea di non riuscire, col mio lavoro, a mantenere
la famiglia. Negli ultimi anni, per tenere in piedi la mia attività,
mi sono mangiato i risparmi di una vita. Mi resta solo la casa.
Se il nuovo Governo ripristinerà l’Ici, non sarò in grado di pagarla.
Per altri, con stipendi a sei zeri, anche la tassa patrimoniale non
gli cambierà la vita. A me, invece, l’ennesimo balzello toglierebbe
quella poca voglia di vivere che mi è rimasta.
Fabio D.
La tua situazione, caro Fabio, ti accomuna a tanti altri lavoratori in
stato di crisi. O che già hanno perso l’occupazione. La disperazione è la
tentazione più facile. Soprattutto quando si chiudono le porte in faccia.
Sono questi i problemi che la politica, quella “alta” a servizio dei cittadini,
che ha a cuore la dignità delle persone, dovrebbe tenere ben presente.
In ogni provvedimento. Casi come il tuo non possono essere delegati alle
associazioni di volontariato, alla Caritas o a iniziative come quella del
cardinale Tettamanzi, che ha istituito un fondo “Famiglia e lavoro” per i
disoccupati e le famiglie in difficoltà. Una società più solidale deve partire
dagli ultimi. Dal basso. Da quelli che faticano a fare un pasto al giorno.
Perché la via della disperazione non sia l’unica scelta.
Pubblicato il
30 novembre 2011 - Commenti
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