Caro don Antonio, sono un suo fedele abbonato. Sposato felicemente (così, almeno, credevo) da trent’anni, ho un bravo figlio, infermiere professionale nel reparto di rianimazione. Nell’agosto dello scorso anno abbiamo appreso che “mio” figlio è omosessuale. Dico “mio” perché da quando mia moglie ha saputo del suo orientamento sessuale, ha alzato un muro anche con me. Ora io mi divido tra mio figlio e il suo compagno e casa nostra. Il problema più grande per mia moglie è stata la vergogna. Era preoccupata di cosa potevano dire parenti e amici. E dove abbiamo sbagliato nel crescerlo. Colpe che, onestamente, io come padre non condivido.
Quando ho invitato mio figlio a parlarne tranquillamente (mia moglie si è
rifiutata a un confronto), mi sono accorto di avere davanti una persona
a me sconosciuta. Ha raccontato di aver avuto certezza del suo
orientamento all’età di sedici anni. Mi ha confidato di non avercelo mai
detto per non darci un dolore. Ma io come ho fatto a non capire e a non
capirlo? Ha parlato delle sue tante sofferenze e derisioni. A volte,
sino a sfiorare il razzismo. E anche della non facile scelta nel trovare
un compagno che, come lui, coltiva sani princìpi morali e cristiani.
Ora mio figlio convive con questo ragazzo, un medico del suo stesso
reparto, che ho conosciuto a casa loro, durante una cena. Mia moglie mi
ha dato del pazzo per aver accettato quell’invito. Inutile dirle che per
me, al contrario di mia moglie, la cosa più importante è sapere mio
figlio sereno e felice.
Posso io giudicare? In casa, però, ora vivo da separato con una moglie
che si è dimenticata di essere anche madre. E tuttora fa la catechista.
Ci parliamo poco. E, per sua volontà, dormiamo anche in camere separate.
Come può un genitore dimenticarsi del proprio figlio? Certo, tutto si
può dire delle coppie omosessuali: che non sono legalizzate, che non
dureranno nel tempo, che danno scandalo… ma dimentichiamo che sono anche
due esseri umani. Tutti siamo figli di Dio. Le coppie eterosessuali
danno sempre il buon esempio? Non aggiungo altro. Forse, in un futuro
non troppo lontano, anch’io andrò a far parte di quelle coppie
“eterosessuali separate”.
Lettera firmata
Un figlio rivela ai genitori di essere omosessuale e di convivere con un compagno. Non l’ha detto prima per non recare dolore. La reazione è di profondo sconcerto. I genitori si dividono. Anzi si oppongono tra loro. Al punto da far prefigurare una possibile separazione. Nel frattempo, si pongono tante domande. Soprattutto il padre. Interrogativi comprensibili ma inconcludenti. Perché non me ne sono accorto? Cosa avrei dovuto fare? Dove abbiamo sbagliato?
In base alle acquisizioni scientifiche finora disponibili, non sappiamo
ancora se l’orientamento omosessuale è attribuibile a fattori biologici o
psicologici. Vale a dire, se è innato o acquisito. Una cosa è certa, ed
è il presupposto da cui partire: l’orientamento o la tendenza
omosessuale non è una libera scelta dell’individuo che, invece, si
scopre tale con profonda difficoltà a farsene una ragione. Quel che
conta è aiutare la persona a riconciliarsi con sé stessa e ad accertarne
il limite, che nulla toglie alla sua dignità. E alla realizzazione
umana e cristiana, se credente.
L’insegnamento del Magistero è
esplicito: «La Chiesa rifiuta di considerare la persona puramente come
un eterosessuale o un omosessuale e sottolinea che ognuno ha la stessa
identità fondamentale: essere creatura e, per grazia, figlio di Dio,
erede della vita eterna» (Congregazione per la dottrina della fede, Cura
pastorale delle persone omosessuali, 16).
La dignità della persona,
omosessuale o eterosessuale che sia, è il punto fondamentale di partenza
per affrontare gli altri problemi. Il primo riguarda il comportamento,
cioè il modo di vivere la tendenza omosessuale. Se, infatti, non si è
responsabili della condizione omosessuale, lo stesso non si può dire
dei comportamenti Sia pure con tutti i condizionamenti interni ed
esterni che esistono.
La biologia e la psicologia potranno, forse,
spiegare l’orientamento omosessuale, ma non possono indicare come
viverla. La morale cattolica indica queste direzioni: accettare e
rispettare la persona; proporre la realizzazione umana e cristiana
attraverso l’accettazione della propria condizione omosessuale; vivere
la relazione in termini di amicizia. Per questo, la Chiesa disapprova la
convivenza omosessuale in base al significato del rapporto sessuale che
è unitivo e procreativo. E, come tale, ha senso solo nel matrimonio. I
conviventi omosessuali (ma anche quelli eterosessuali) non possono
accedere ai sacramenti della Penitenza e dell’Eucaristia. Ma, in quanto
battezzati, sono nella Chiesa e possono partecipare alla vita liturgica e
caritativa della comunità ecclesiale. I genitori che non ne condividono
la decisione di convivere, sono forse obbligati a interrompere la
relazione con il figlio? La rottura dei coniugi tra di loro e con il
figlio aggiunge solo male al male. D’altra parte, mantenere il rapporto
con il figlio non significa approvare e condividere la scelta della
convivenza omosessuale. Occorre mantenere sempre aperto il dialogo e il
confronto. La Chiesa, da parte sua, difende sempre la dignità della
persona. Di ogni persona umana. E denuncia ogni forma di
discriminazione, emarginazione e offesa. Nella società, nella
legislazione, nel lavoro.
Pubblicato il
31 agosto 2011 - Commenti
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Ho quarantatré anni e sono una mamma divorziata. I miei figli
sono grandi, uno ha quasi vent’anni e l’altro diciassette. Le
scrivo perché sono delusa dalle persone con cui sono a contatto,
sia nella vita privata sia al lavoro. Prima mi fidavo ciecamente di
tutti, ora non più. Per tre anni e mezzo ho frequentato un uomo
della mia età, e mi sono illusa. Accettavo le sue condizioni, pur
di non perderlo. Lui voleva sempre avere ragione, io ero sempre
quella che sbagliava. Per mia fortuna, a fine giugno, mi ha
lasciata e non si è più fatto sentire. Adesso c’è un ragazzo, più giovane, che vorrebbe conoscermi meglio. Ma ho paura e continuo a rimandare. Lui ha qualche problema: due anni fa, è stato vittima di un brutto incidente in macchina. Nel mondo del lavoro sono circondata da gente falsa e invidiosa. Le colleghe sono sempre pronte a giudicarti e a farti del male. Nonostante i miei anni, non so che fare. Vorrei chiedere consiglio ai miei genitori. E, naturalmente, anche a lei.
Maria Teresa F.
In questo caso, cara Maria Teresa, più che gli altri, il vero problema sei tu. È il tuo modo di tessere relazioni, nel privato e nel mondo del lavoro, a essere immaturo. Senza personalità. Sei succube degli eventi, senza mai prendere la tua vita in mano. Ti lasci vivere e non decidi
nulla, non assumi alcuna responsabilità. Accusi e scarichi tutto sugli altri. Rinunci anche alle tue idee, pur di elemosinare briciole di amore da un uomo che, all’improvviso, scompare dalla tua vita. E non sai neppure perché. Se a quarantatré anni devi ricorrere ai genitori, come una ragazzina ai primi passi e amori, è tempo per te di un serio esame di coscienza. E di darti una scossa. Per non passare da una delusione all’altra. Abbi il coraggio delle tue scelte, anche a rischio di sbagliare. Nessuno può sostituirsi a te. Soprattutto all’età che ti ritrovi. Cercare una balia non aiuta a crescere.
Pubblicato il
23 agosto 2011 - Commenti
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